COMPAGNI, Dino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COMPAGNI, Dino (Aldebrandino, Ildebrandino, detto Dino)

Girolamo Arnaldi

Nacque a Firenze verso il 1246-47 (cfr. Ottokar, p. 90 n. 2) da Compagno di Perino e da una figlia di messer Manetto Scali; ultimo, probabilmente, di cinque fratelli. Ebbe case nel popolo di S. Trinita, nel sesto di Borgo. Sposò in prime nozze una Filippa non meglio identificata, dalla quale gli nacquero cinque figli: Niccolò, Ciango, Bartolomeo, Tora, Maddalena, Dina; e in seconde nozze Cecca di Puccio di Benvenuto da Forlì.

Dei suoi studi non si sa nulla. Ma ciò che di scritto ha lasciato (le rime e la cronaca) - anche a non volere considerare come suo il poema allegorico-didattico, l'Intelligenza - e il fatto che, in una certa occasione, sia stato incaricato di scrivere una lettera ufficiale per conto dei Priori, benché in quel momento non ricoprisse nessuna carica pubblica (Cronica, I, 21), prova indirettamente che la sua formazione grammaticale, retorica e, in genere, nelle arti, comunque conseguita, andava molto al di là di quella posseduta di solito da un mercator come egli era.

Nel 1269 risulta iscritto col fratello Guiduccio nella matricola dell'arte di Por Santa Maria. Sempre insieme con Guiduccio egli rinnovò il giuramento all'arte nel 1280 (si precisa ora che apparteneva al "convento" di Calimala) e nel 1286. Per uno dei semestri degli anni 1282, 1286, 1289, 1291, 1294 e 1299 fu fra i quattro consoli dell'arte medesima (mentre, Guiduccio risulta esserlo stato nel 1297). Nella primavera del 1320 è ancora censito fra gli iscritti all'arte con i figli Niccolò e Ciango (il fratello Guiduccio era morto nel 1312, lasciando debiti). Il 7 febbraio, sempre del 1320, aveva "confessato" al notaio dell'arte i nomi del suoi soci in affari, ch'erano il figlio Niccolò, Giovanni e Cambio Albizzi (il primo del due era anche suo genero) e Bonaccorso di ser Bernardo. Ora apparteneva al "convento" di Porta Rossa e S. Cecilia.

Documenti del 1307, 1319 e 1322 riflettono in modo diretto la sua attività di "mercante esportatore" (Davidsohn). Nel primo la compagnia di "Dino Compagni et sotii" è compresa in un elenco di trentasei, che devono versare congiuntamente la somma di 4.000 fiorini, pattuita in sede di un accordo doganale con Genova. L'ammontare delle quote rispettive oscilla fra i 600 fiorini (Scali) e i 20: il C. e compagni sono tassati solo per 30. Non si ha notizia sicura di attività economiche esercitate dagli altri tre fratelli. La compagnia dei Compagni fallì nel 1341, come tante altre.

Il C. era socio della Confraternita della Madonna di Or S. Michele, sorta nel 1291 in connessione con il diffondersi del culto per un'immagine miracolosa di Maria, addossata a un pilastro della loggia omonima (cfr. Cronica, III, 8, e il sonetto "Una figura della Donna mia" di Guido Cavalcanti). Fu "capitano" di questa confraternita nel 1298.

Secondo quanto egli stesso racconta (Cronica, I, 4), nel 1282, nonostante l'età ancora giovanile (in base ai criteri di allora), avrebbe avuta una parte preminente, insieme con cinque altri "cittadini popolani", nell'istituzione del priorato delle arti (15 giugno 1282). I principali episodi della sua carriera politica, che ebbe così inizio, sono stati tre: priore nel 1289 (15 aprile-15 giugno; l'11 giugno i Fiorentini sconfissero gli Aretini a Campaldino); gonfaloniere di Giustizia nel 1293 (15 giugno-15 agosto; il gonfaloniere era stato aggiunto ai sei priori nel febbraio dello stesso anno); priore nel 1301 (15 ottobre-15 dicembre; ma l'8 nov. i priori furono costretti a lasciare anzitempo il loro ufficio).

Nel periodo che va dal giugno 1282 al 31 ott. 1301, (ultima sua menzione nelle Consulte), salvo una lunga parentesi durata dal 1295 (esilio, il 5 marzo, di Giano della Bella, che il C. appoggiò fino all'ultimo) al giugno 1300 (fu, sempre a suo dire [Cronica, I, 21], uno dei "savi" che consigliarono i priori in carica dal 15 di tale mese, fra cui Dante Alighieri, di bandire i principali esponenti delle due fazioni responsabili degli incidenti avvenuti la vigilia di S. Giovanni), è presente di continuo, come uno dei "popolani" il cui avviso è più di frequente richiesto dai Consigli (del Consiglio generale del podestà per il 1284 fece regolarmente parte egli stesso) e dai Signori (o Priori).

Dopo il novembre del 1301 non risulta che abbia ricoperto posizioni di responsabilità sia nel governo della città, sia nell'arte di Por Santa Maria, sia, addirittura, nella confraternita cui apparteneva. È però certo che il C., che a partire dal 1307 troviamo, come s'è visto, operante a Firenze nella sua bottega, e che niente lascia pensare se ne fosse allontanato nei sei anni precedenti, non fu uno dei "banditi" del 1302, cioè uno dei guelfi bianchi, che i neri, ormai padroni del campo, costrinsero ad abbandonare la città fra il gennaio e l'ottobre di tale anno.

A risparmiare al C., bianco anche lui, la via dell'esilio, riservandogli invece la sorte di coloro che furono ridotti a starsene in Firenze "quatti come topo in farina" (l'espressione è stata ricavata dal Del Lungo dal Commento alla Divina Commedia d'Anonimo fiorentino del sec. XIV), valse una norma statutaria che vietava che fossero aperti procedimenti giudiziari, salvo che per fatti di sangue, contro i priori, il gonfaloniere di Giustizia e il loro notaio nel corso dell'anno successivo alla decadenza dalla carica; ma contribuì forse in parte anche il suo temperamento di uomo che, dalla testimonianza autobiografica offerta nella Cronica, appare portato per natura più alla conciliazione che alla rissa.

È invece da escludere che a risparmiargli l'esilio possano essergli servite le svariate relazioni di parentela che lo collegavano al campo dei vincitori del 1301. Filippa, la prima moglie, risulta infatti favorita nel testamento del giudice Andrea da Cerreto, "savio legista, d'antico ghibellino fatto guelfo nero" (Cronica, II, 10;cfr. anche II, 23), protagonista di uno degli episodi più sinistri narrati dal C. (ibid., II, 29; ma cfr. anche I, 18; II, 19 e 30). Divenuti ormai fiorentini, i Benvenuti, ch'erano la famiglia della sua seconda moglie, erano guelfi neri: Vanni, fratello di Francesca, fu nove volte priore. Bartolomeo, il più giovane dei suoi figli maschi, sposò Margherita di Neri di messer Pazzino de' Pazzi, uno dei "quattro ... capi di questa discordia, de' Neri" (ibid., III, 37;cfr. anche, per la sua fine, III, 40). Annota tuttavia il C.: "Niuno ne campò [degli sconfitti], che non fusse punito: non valse parentado, né amistà; né pena si potea minuire né cambiare a coloro, a cui determinate erano: nuovi matrimoni niente valsero: ciascuno amico divenne nimico; i fratelli abbandonavano l'un l'altro, il figliuolo il padre; ogni amore, ogni umanità, si spense" (ibid., II, 23).

Anche al momento della sua affermazione nella vita politica fiorentina nell'ultimo ventennio del secolo precedente, il C. non era stato sorretto da un gruppo familiare particolarmente influente. In difformità da quella che era di fatto la regola, la sua ascesa ha tutta l'aria di essere stata piuttosto un'impresa individuale. Il Del Lungo aveva già osservato che non si aveva notizia che i suoi fratelli avessero ricoperto cariche pubbliche. Ma la riprova dello scarso peso dei Compagni la forniscono oggi le tavole in cui sono stati condensati i dati di una ricerca con cui si è cercato di "ricostruire il mosaico del potere pubblico cittadino" a Firenze nella seconda metà del sec. XIII, usando "come tessere i gruppi familiari" (cfr. Raveggi-Tarassi-Medici-Parenti e Arnaldi).

Il Del Lungo esclude che il C. sia stato oratore del Comune nero presso Giovanni XXII, nel 1316, come ritenne Anton Francesco Doni, che nel 1547 pubblicò la Diceria di D. C. a papa Giovanni XXII, tramandata da vari mss. miscellanei contenenti esercitazioni oratorie del genere, uno dei quali (il Laurenziano XLII) risalente alla seconda metà del sec. XIV. Resta solo da spiegare come mai la Diceria sia stata attribuita proprio a lui in mss. già del sec. XV (nel Laurenz. cit., la nota con l'attribuzione al C. fu aggiunta in età posteriore) quando dall'originale della Cronica fu tratto bensì un primo apografo, ma la sua popolarità era pressoché nulla.

Il D. morì sulla soglia degli ottant'anni, il 26 febbraio 1324; il suo corpo fu sepolto in S. Trinita. Solo nella seconda metà del sec. XVIII fu murata un'epigrafe per ricordare D. C., "chronista sui aevi".

La costituzione politica fiorentina fra sec. XIII e sec. XIV non era fatta per lasciare spazio all'emergere di personalità di spicco. La sorprendente brevità delle cariche più importanti era ribadita nei suoi intenti antindividualistici dalla lunghezza degli intervalli richiesti prima che la stessa persona potesse tornare a ricoprire la carica che aveva coperto in precedenza. Dall'anonimato si salvano solo, per ciò che concerne gli anni della vita pubblica del C., Giano della Bella e Corso Donati, rispettivamente l'"afforzatore" del regime popolare (cfr. Cronica, I, 11 ss.) e il "Barone" capo riconosciuto di Parte nera (ibid., II, 20 e passim):entrambi, sia pure da sponde contrapposte, in sostanza estranei al sistema. Non si sarebbe certo salvato il moderato C., anche a volere concedere che la parte di protagonista, o di comprimario, che si riserba in più capitoli della Cronica, non contraddica in modo troppo sfacciato alla realtà delle cose, come risulta altrimenti documentata.

Lo spoglio sistematico del registri delle Provvisioni e delle Consulte alla ricerca di tracce della sua presenza e della sua attività politica, compiuto con zelo straordinario da Isidoro Del Lungo, ha infatti grosso modo confermato ciò che il C. racconta di sé, soprattutto in riferimento alla caduta di Giano della Bella (cfr. Cronica, I, 12-18) e ai ventitré drammatici giorni dell'autunno 1301 (cfr. ibid., IL 5-19), cui si ridussero i novanta che sarebbero stati di norma assegnati al suo priorato: il C. fu uno dei due priori più importanti in quelle settimane decisive. E, anzi, lo scavo effettuato ha messo in luce una serie di episodi, talvolta anche di importanza non trascurabile, in cui fu coinvolto, e dei quali la Cronica tace.

Ma a spendere tanta fatica il Del Lungo fu spinto soltanto dal fatto che il C. era l'autore della Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi e che, soprattutto, questi "tempi", che chiamava i "suoi", erano, in realtà, "i tempi di Dante convissuti da Dino". Gli anni dal 1282 al 1301, centrali nella Cronica (cfr. i capitoli 4-27 del libro I e i capitoli 1-24 del II), perché coincidenti con l'esperienza politica del C., sono anche infatti, all'incirca, quelli della più modesta carriera, prima militare-nobiliare, poi politico-popolare, dell'Alighieri: dalla partecipazione, come uno del "gentili uomini usi alla guerra" (cfr. Cronica, I, 10), almeno alle battaglie, di Campaldino e di Caprona (11 giugno e 16 agosto 1289); al priorato del 1300; all'ambasceria a Roma dell'ottobre 1301, dalla quale non avrebbe fatto più ritorno a Firenze. Con la sola differenza, non del tutto trascurabile in rapporto al nostro assunto, che i sei anni di vera e propria attività politica "cittadinesca" di Dante, che decorrono dal 6 luglio 1295 (attenuazione degli ordinamenti di giustizia del 1293), coincisero, salvo l'anno terminale, con l'interruzione quinquennale nell'attività politica del C., fedele invece alla linea di rigore "popolano" impersonata da Giano della Bella.

Gli anni, poi, dal 1302 al 1312, che forniscono la materia ai capitoli 25-36 del libro II e al libro III della Cronica e che furono, a un tempo, quelli durante i quali la Cronica stessa fu concepita, "lungamente" meditata (cfr. proemio) e (a partire, con ogni probabilità, dalla fine del 1310) scritta, sono anche gli anni iniziali dell'esilio di Dante, dalle condanne in contumacia, inflittegli il 26 gennaio e il 10 marzo 1302 dal podestà. Cante de' Gabrielli, alla giornata della Lastra (20 luglio 1304), in cui fallì un tentativo di rientro in città a mano armata dei "banditi bianchi e ghibellini, al sorgere e al concretarsi delle speranze nell'imperatore Enrico VII. Con questo di differente rispetto al periodo 1282-1301, che ora Dante dal di fuori e il C. dal di dentro, pur nella abissale diversità dei temperamenti e - se si vuole - degli ingegni, risultano essersi trovati sostanzialmente d'accordo su punti cruciali, come l'insipienza mostrata dagli esuli alla prova dei fatti (cfr. Dante, Pd XVII, 61-69; Cronica, III, 10-11) e la propensione ad affidare il riscatto di Firenze alla spada vendicatrice di Enrico (cfr. Dante, Ep VI; Cronica, III, 42).

Poiché la Firenze del tempo è presentissima, con uomini e cose (strade, ponti, mura, monumenti ecc.) in tutta la Commedia, fino ai canti centrali del Paradiso (XV-XVII), ma in una forma che, come che richieda di essere definita, è quanto di più lontano si possa immaginare dal modo proprio di un cronista, la Cronica del C. - a molto maggiore titolo di quella di Giovanni Villani, che abbraccia un arco cronologico molto più vasto - si è candidata per tempo come la "cronaca della Firenze di Dante": il contenitore, prezioso quanto si vuole, ma sempre impersonale e anonimo, di un cospicuo numero di informazioni utili a illustrare e, in qualche caso, a decifrare le allusioni del poeta alla storia della sua città. Non a caso, l'unica testimonianza di un'utilizzazione della Cronica nei secoli XIV-XV, durante i quali essa giacque probabilmente sepolta nell'archivio familiare dei Compagni, è costituita infatti, dall'uso abbastanza esteso che ne fa l'Anonimo fiorentino, autore del già citato commento alla Commedia (post 1380 sec./XV in.).

Questo rapporto di naturale complementarietà che lega la Cronica e la Commedia riceve indirettamente forza, più di quanto non subisca danno, dalla circostanza, di cui taluni hanno voluto fare un falso problema, per la quale Dante non gratifica il C. nemmeno di un cenno e, da parte sua, il C. ricorda Dante solo di passaggio ("Dante Allighieri che era anbasciadore a Roma"), frammezzo all'elenco dei condannati del 1302 (Cronica, II, 25), senza dedicargli uno dei ritratti a tutto tondo per cui va, fra le altre cose, meritamente famoso (cfr. ibid., II, 20: Corso Donati; I, 18: Dino di Giovanni, detto Pecora; ecc.), e senza nemmeno quel tanto di attenzione particolare che, per esempio, ci fa capire che egli si era accorto che il "figliuolo di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, chiamato Guido, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio" (ibid., I, 20), era qualcuno di diverso dagli altri "giovani gentili" di Firenze. Non mette neppure conto di chiamare in causa, a tale proposito, la nota, sovrana arbitrarietà delle scelte storiche dantesche; e, quanto al C., il Sestan ha osservato che "proprio questo accenno dimesso" è una prova in più dell'autenticità della Cronica, un tempo fortemente impugnata. Ma se è lapalissiano che la Commedia, anche a volerne ipotizzare un'improponibile lettura tutta fiorentina, non tollera di essere costretta nel rapporto di complementarietà con la Cronica del C., non è men vero che anche questa pretende e merita di essere considerata per se stessa, fuori di questo nesso onorifico ma limitante.

La Cronica comprende tre libri e un proemio di poche righe. La divisione in capitoli dei singoli libri risale al Del Lungo. Il primo capitolo del libro I contiene un'esposizione dei criteri cui si è attenuto l'autore per distinguere il vero dal falso, nonché una breve descrizione di Firenze e del suo territorio, concepita a uso degli "strani", cioè di possibili e auspicati lettori non fiorentini. Nel secondo capitolo è illustrata, a mo' di prologo, l'origine (nel 1215) della "discordia" fra guelfi e ghibellini, nella versione locale. Col terzo ha inizio il racconto vero e proprio, che prende le mosse dalla venuta a Firenze, nel 1280, del cardinale Latino Frangipane, instauratore di un governo comune fra guelfi e ghibellini. Nei capitoli 4-19 i temi trattati sono: l'istituzione del priorato delle arti, la guerra contro Arezzo (battaglia di Campaldizio), l'emanazione degli ordinamenti di giustizia e le trame che portarono all'esilio di Giano della Bella. Nei capitoli 20-24 sono esposti i precedenti e raccontato lo scoppio e le prime manifestazioni di una nuova "discordia", questa volta interna alla parte guelfa, che vedeva schierate su fronti contrapposti le famiglie dei Cerchi e dei Donati. Nei capitoli 25-27, che chiudono il libro I, si mostra come queste due fazioni mutuarono da analoghe fazioni pistoiesi i nomi di bianchi e di neri.

Nei capitoli 1-25 del libro II sono esposte le diverse fasi della lotta fra i bianchi e i neri di Firenze, fino al trionfo di questi ultimi, dovuto all'appoggio decisivo di Carlo di Valois, inviato da Bonifacio VIII, e all'esilio dei primi, "i quali andorono stentando per lo mondo, chi qua e chi là". I restanti capitoli 26-36illustrano, in parte, le condizioni della città in mano "dei neri e, in parte, gli inutili tentativi fatti dai bianchi e dai loro alleati ghibellini per rimettervi piede, fino alla morte di papa Bonifacio, di cui questi si "rallegrorono" e quelli si "contristoron assai".

Il libro III, che si apre con l'elezione del nuovo papa Benedetto XI ("il mondo si rallegrò di nuova luce"), prosegue sullo stesso doppio binario del precedente, fino al capitolo 22(un episodio a sé stante è, ai capitoli 13-15, l'assedio e la conquista di Pistoia da parte dei fiorentini neri). Dal capitolo 23 in poi al centro della scena è "Arrigo conte di Luzimborgo di Val di Reno della Magna", seguito dal momento della sua elezione a re dei Romani (27 nov. 1308) a quello della sua incoronazione imperiale (29 giugno 1312, e non 1° agosto, come vuole il C.), attraverso le varie, contrastate fasi della sua spedizione italiana. Con i capitoli 37-41 siamo di nuovo a Firenze, per la registrazione delle morti violente di alcuni dei "principali governatori della città", avvenute nel frattempo. Il capitolo 42, ultimo del libro III e della Cronica, contiene una breve sintesi dei mali di Firenze, che culmina nell'auspicio che l'intero "mondo", su cui Firenze ha sparso i semi della corruzione, le si rivolti ora contro nella persona dell'imperatore.

Il Muratori, nel dare per la prima volta alle stampe la Cronica nel vol. IX dei Rerum Italicarum Scriptores, giudicava provvidenziale che essa cominciasse in pratica col 1280, dato che la cronaca, anche fiorentina, di Ricordano Malispini, edita nel volume precedente, arrivava fino al 1281. Attraverso questo attacco quasi perfetto, dovuto solo al caso (perché il C. non si presentava in alcun modo come un continuatore del Malispini), sembrava così realizzarsi, in riferimento a un tratto nodale della storia fiorentina due-trecentesca, l'ideale di racconto compatto, senza lacune e senza sovrapposizioni, dettato città per città da cronisti coevi, che presiedeva alla silloge muratoriana. Ma, in realtà, la Cronica del C. non rispondeva affatto a queste esigenze: non è una "cronaca", nel senso proprio di racconto storico ordinato cronologicamente (adifferenza di ciò che appare dal sommario che ne abbiamo dato, la successione degli avvenimenti vi è tutt'altro che rispettata); non è "fiorentina", perché, da un lato, tralascia fatti salienti di vita locale (per esempio, la guerra contro Pisa degli anni 1290-1293 o il primo progetto per la costruzione della terza cerchia delle mura nel 1284) e, dall'altro, fa inaspettatamente un posto sproporzionato, alla spedizione in Italia di Enrico VII, che occupa da sola la terza parte del libro III.

Lo stesso Muratori, facendo in qualche modo forza alle sue propensioni di editore di fonti narrative, indicava acutamente nel rerum delectus, nella "scelta dei contenuti", il carattere distintivo della Cronica del C. rispetto alle cronache fiorentine più antiche e più recenti. Il taglio complessivo, la delimitazione degli orizzonti geografico e cronologico, le inclusioni e le esclusioni di eventi e personaggi non vi appaiono effettuati a capriccio, come una lettura affrettata del sommario potrebbe ancora lasciar supporre. Essi sono stati stabiliti a ragion veduta in funzione di un progetto, con un rigore che non manca di sorprendere, soprattutto dopo che si sia doverosamente precisato che l'autore non ha operato a freddo, nel chiuso di un laboratorio storico. Ha compiuto bensì le sue scelte, rimuginando fra sé e sé per "molti anni" (cfr. proemio) la materia bruciante del libro che intendeva scrivere, cioè la storia, soprattutto interna, di Firenze negli anni - come avrebbe detto Dante (Cv IV, xxiv, 1-4) - della sua "gioventude" e della sua "senettute" (rispettivamente, dai venticinque ai quarantacinque e dai quarantacinque ai settanta): una storia di cui era stato, fino a una certa data (ottobre-novembre 1301), a un tempo spettatore e protagonista, e di cui, da tale data in poi, era solo spettatore, ma mal rassegnato a ridursi in questa unica parte e, quindi, tutt'altro che spassionato e sereno.

Poiché il punto di passaggio da una condizione all'altra era stato costituito dalla vittoria dei neri sui bianchi - se davvero nato nel 1246-47, il C. doveva avere allora cinquantaquattro/cinquantacinque anni -, era inevitabile che quella "discordia" assurgesse di forza a momento essenziale del suo intero vissuto, con una perentorietà che pour cause sarebbe forse riuscita comprensibile a Dante, ma che non lo sarà altrettanto per gli storici moderni di Firenze medievale, i quali tendono invece a privilegiare gli anni dal 1280 al 1295, quelli di "magnati e popolani". Secondo quanto si legge nel proemio, la decisione di scrivere di storia, benché "stimolata" all'umanistica da "le ricordanze dell'antiche istorie", fu, insomma, tutt'uno con la sua decisione di "scrivere i pericolosi advenimenti non prosperevoli, i quali ha sostenuti la nobile città figliuola di Roma, molti anni, e spezialmente nel tempo del giubileo dell'anno MCCC".

Con queste parole il C. enunciava in apertura il carattere di storia del negativo che la Cronica avrebbe assunto e, insieme, dichiarava, in forma indiretta, mediante l'indicazione del punto d'inizio - "nel tempo del giubileo" -, il suo tema dominante, che era la "discordia" fra i Cerchi e i Donati, scoppiata appunto, dopo lunga gestazione, nel 1300, la "sera di calendi maggio ..., che è il rinovamento della primavera" (I, 22). Dove è da osservare che il riferimento al "grande perdono" è solo un modo estrinseco di connotare un anno, laddove la festa della primavera di quel primo maggio fornì la cornice necessaria all'episodio di violenze di cui trattasi: la Cronica del C., a differenza di quella di Giovanni Villani (cfr. VIII, 36), non è un'"opera giubilare", come non lo è, del resto, la Commedia, nonostante, anche qui, la "mera coincidenza cronologica" e, in più, la "generica analogia di vicende di pentimento e di grazia" (cfr. A. Frugoni, Dante e la Roma del suo tempo, in A. Frugoni, Incontri nel Medio Evo, Firenze 1979, pp. 301 s.).

Ciò che precede I, 22 (salvo il capitolo 21, che tratta di avvenimenti del 1300, ma successivi al 1° maggio) funge, dunque, da semplice antefatto: diretto in I, 20, dove sono narrati, fuori ordine cronologico, cinque episodi che preludono in vario modo, come altrettante avvisaglie, all'ostilità dichiarata fra Cerchi e Donati; indiretto, nei capitoli 2-19. E qui si palesa al massimo grado la determinazione con cui il C. seppe operare la cernita dei materiali che ritrovava immagazzinati nella memoria.

Il criterio cui si ispirò risulta chiaro da I, 22, dove - dopo avere narrato l'episodio di Calendimaggio, e premesso che la "città" intera, in tutte le sue componenti sociali ("uomini grandi, mezani e piccolini"), e compresi i "religiosi" che questa volta non poterono esimersi dal prendere anch'essi partito, si divise allora "di nuovo" in due "parti" contrapposte - l'autore presenta il catalogo delle forze che militavano in entrambi i campi, a cominciare dai seguaci dei Cerchi: "Tutti i Ghibellini tennono co i Cerchi, perché speravano avere da loro meno offesa; e tutti quelli che erano dell'animo di Giano della Bella, però che parea loro fussono stati dolenti della sua cacciata. Fu ancora di loro parte ..." (segue la lista con i nomi di singoli, di "famiglie" [famiglie di grandi] e di "popolani" dell'una e dell'altra parte). Nei diciotto capitoli in questione, questi fili che, secondo il C., collegavano la divisione del 1300 al passato, vengono ripresi e riannodati.

In sede preliminare, a I, 2, troviamo aperta "la via a intendere, donde procedette in Firenze le maladette parti de' Guelfi e Ghibellini", che era la vecchia "discordia", di cui la nuova, dei Cerchi e dei Donati, era sopravvenuta a prendere il posto (la "cagione" stava in un fatto avvenuto nel 1215, e poiché non era sua "intenzione scrivere le cose antiche, perché alcuna volta il vero non si ritruova", il C. se ne sbriga rapidamente). Quindi, a I, 3, è presentato lo schema per cui, nella Firenze ormai interamente guelfa del 1280, "essendo scacciati i Ghibellini" (dal novembre del 1266), questi diventano un motivo di sospetto e di accuse reciproche che divide il campo dei vincitori, di modo che "una piccola discordia nella parte guelfa" genera "una gran concordia con la parte ghibellina" (pace del cardinal Latino che sentenzia il ritorno dei ghibellini); il nuovo assetto dura poco, ma lo schema era destinato a riprodursi anche all'interno della nuova "discordia" (cfr. I, 20: "I Donati ... diceano che i Cerchi aveano fatto lega co' Ghibellini di Toscana: e tanto l'infamarono, che venne a orecchi del Papa"; vedi anche I, 27 e II, 3 e 31). Infine, a I, 11-18 - dopo un accenno alle speranze, e all'immediata delusione, che avevano accompagnato nel 1282 l'istituzione del priorato delle arti (I, 4-5), e un excursus (I, 6-10) sulla guerra contro Arezzo del 1288-89, dalla quale "i nobili e grandi cittadini" erano tornati "insuperbiti" (nel racconto della battaglia di Campaldino [I, 10] spiccano per valore su tutti gli altri combattenti fiorentini Corso Donati e Vieri de' Cerchi, i futuri capiparte del 1300), destando la reazione di "molti buoni cittadini popolani e mercatanti" (I, 11) -, sono narrate distesamente le vicende del movimento popolare, tra il 1293 e gli inizi del 1295, innescato da quella reazione, che ha, prima a protagonista, poi a capro espiatorio, Giano della Bella, la cui caduta tolse al "popolo minuto ... ogni rigoglio e vigore" (I, 17), dando inizio a un quinquennio (1295-99) di riflusso popolare, sul quale il C. giustamente, dal suo punto di vista, sorvola, limitandosi a raccontare in I, 19 le tipiche soperchierie di un podestà trevigiano (non padovano, come nella Cronica), strumento passivo nelle mani dei "pessimi cittadini" che l'avevano chiamato (genn. 1299). Fino dal 1295 vedeva infatti già in atto tutte le premesse di fondo della nuova "discordia", di cui passa a illustrare senz'altro i precedenti immediati: "La città, retta con poca giustizia, cadde in nuovo pericolo, perché i cittadini si cominciorono a dividere per gara d'uficî, abbominando l'uno l'altro. Intervenne, che una famiglia che si chiamavano i Cerchi ..." (I, 20). Se l'impianto di tipo monografico fosse sufficiente a distinguere la "storia" dalla "cronaca", la Cronica del C. sarebbe, insomma, almeno per una buona metà, storia e non cronaca, "una storia", precisa il Del Lungo in termini che non sarebbero dispiaciuti a un Croce prima maniera, "la cui unità è tutta artistica, e desunta dalle proporzioni del fatto narrato, da' suoi termini, dalla natura di esso".

Iniziata nel maggio, del 1300, la nuova "discordia", che è ormai dei bianchi e dei neri, si gonfia nei mesi successivi e raggiunge il punto culminante nell'autunno dell'anno seguente, in coincidenza con il secondo priorato del C., che ha inizio il 15 ottobre e termine - come si è detto - appena ventitré giorni dopo, quando i neri, rifiutata la proposta dì dividere il potere con i bianchi, ottengono tutto il potere per sé. A questo punto, in seguito all'esilio e all'annichilamento di una delle "parti", la "discordia" cessa di essere un fatto interno fiorentino, e come tale può dirsi conclusa, anche se i fuorusciti bianchi e ghibellini - alleati per necessità (cfr. II, 28-29) e in via di diventare una cosa sola per il sangue versato insieme (cfr. II, 30) - non desistono dai loro tentativi di rimettere piede in Firenze, almeno fino al luglio dell'anno 1307.

Anche per esserne stato protagonista diretto, ma non solo per questo, si comprende che al C. interessino soprattutto quei ventitré giorni in cui si giocò la partita decisiva. Poiché il racconto non segue strettamente l'ordine cronologico e la divisione in capitoli non risale all'autore, una quantificazione precisa è impossibile: ma sta di fatto che in soli dieci capitoli (I, 23-27 e II, 1-5) si arriva dal 1° maggio 1300 al 15 ottobre 1301, mentre per giungere all'8 novembre dello stesso anno (entrata in carica dei priori neri) ne impiega quattordici (II, 6-19), ai quali ne vanno aggiunti almeno altri cinque (20-24), in cui "l'esposizione dei fatti dà luogo a un'impennata retorica" (Pirodda).

Il primo impulso a narrare questi fatti, che mutarono radicalmente la sua vita, riducendolo da un giorno all'altro nella condizione di esule in patria, si manifestò nel C. - che aveva, non dimentichiamolo, trascorsi da letterato - se non già nello scorcio del 1301, certo subito dopo le condanne dell'anno seguente (II, 25), che gli fecero il vuoto intorno: "Rimase la signoria della città a messer Corso Donati, a messer Rosso della Tosa, ..." (segue l'elenco dei maggiorenti di parte nera, che ormai occupano l'intera scena cittadina: II, 26). Che ci abbia pensato subito è non solo verosimile, ma anche confermato in modo indiretto nel proemio, dove dice che lo stimolo a scrivere si era fatto sentire "lungamente" e che, per "molti anni", era rimasto senza effetto, perché si riteneva "insufficiente" e credeva "che altri scrivesse". Nell'attesa, la storia continua però il suo corso: i neri, presto irrimediabilmente divisi, proseguono con le loro malversazioni, i bianchi e i ghibellini con i loro maldestri tentativi di ritorno. Così, la potenziale materia della Cronica si accresce oltre quella che avrebbe dovuto essere la sua conclusione naturale, in conformità del proposito originario di raccontare la "discordia" fra i bianchi e i neri.

Poiché le ragioni addotte dall'autore rientrano nel genere "topos di modestia" (Pirodda) e non sono, quindi, plausibili, rimane da spiegare il perché di questa lunga gestazione. In realtà, il C., che non pensava di scrivere per i posteri, aspettava che maturassero le condizioni per la formazione di un pubblico di lettori fiorentino, messo in grado di ricevere, senza più pericolo per la vita e gli averi, il messaggio etico-politico che intendeva intramezzare al racconto dell'accaduto. C'era, è vero, la possibilità di rivolgersi agli "strani". Allo stesso modo che "molti di lontani paesi" venivano a visitare Firenze "non per necessità, ma per bontà de' mestieri e arti, e per bellezza e ornamento della città" (cfr. I, 1), il C. doveva ritenere che le vicende di storia locale narrate nel suo libro potessero interessare ed essere di ammaestramento anche a chi fiorentino non era. Ma gli "strani" potevano essere solo una riserva, un di più. Era ai suoi concittadini, agli abitanti di una Firenze diversa dall'attuale, che voleva poter fare arrivare la sua parola di cronista, proseguendo per iscritto, e ammaestrati, essi e lui stesso, dal senno di poi, la predicazione di saggezza, di moderazione, di pace, che aveva, a suo tempo, intrapreso dalla "ringhiera" dei Consigli (cfr. soprattutto I, 24), e dovuto bruscamente interrompere nell'ottobre del 1301.

In altre parole, non aveva senso affaticarsi a "scrivere i pericolosi advenimenti non prosperevoli" della recente storia di Firenze, finché i fiorentini stessi, previo un rovesciamento della situazione creatasi dopo di allora, non fossero stati messi in condizione di approfittare degli insegnamenti che quello scritto avrebbe recati in sé. Meglio valeva, nelle more, continuare a riflettere sull'accaduto, dandosi alla lettura delle "antiche istorie" (per echi di queste nella Cronica, cfr. II, 1 e 20) e, chissà, alla composizione dell'Intelligenza, il poema che, se suo, fu steso in questo giro di anni.

Per pressoché unanime giudizio degli interpreti, il C. dà inizio alla Cronica non appena ha la notizia che Enrico VII ha attraversato le Alpi (fine 1310) e viene "giù, discendendo di terra in terra, mettendo pace come fusse uno agnolo di Dio" (III, 24). È in questo momento che egli vede inaspettatamente profilarsi, di là del vicolo cieco, in cui si trova con i suoi concittadini, gli "eredi de' prosperevoli anni" (cfr. proemio), cioè i Fiorentini di un tempo, che ora si annuncia vicino, di segno diverso, perché positivo, da quello presente, sul quale si distendono ancora le conseguenze nefaste dei "pericolosi advenimenti non prosperevoli", di cui era stato testimone e protagonista dieci anni prima. E a "utilità" di questa generazione, futura, ma prossima, libero ormai da remore, si accinge a redigere la Cronica.

Arrivato d'un balzo - come tutto lascia credere, considerato il tempo che si è concesso per pensarci su - al momento in cui racconta del trionfo dei neri, e dato a ciascuno il suo nelle apostrofi collettive e per campioni individuali dello strutturatissimo capitolo 22 del libro II (cfr. Pirodda, pp. 353-358), il C. non si risolve a far punto, come avrebbe potuto, affidando un prologo più esteso di quello che si legge in testa alla Cronica, o a un epilogo, le sue speranze nella prossima rivincita. Tenta bensì di collegare il 1301-1302 con il 1310, compiendo un'operazione analoga a quella che gli è brillantemente riuscita quando si era trattato di mettere in rapporto gli avvenimenti degli ultimi due decenni del sec. XIII con la nuova "discordia" del 1300. Ma, in questo caso, ha la mano meno felice. Urta, prima, contro la difficoltà di tenere dietro, a un tempo, ai movimenti dei fuorusciti, alle confuse iniziative dei paciari pontifici e alle rivalità insorte fra i neri (cfr. II, 27-36 e III, 1-22); si disperde, poi, nel seguire i progressi di Enrico, che non sono così rapidi come si erano prospettati dapprincipio e lo costringono ad addentrarsi nel ginepraio delle lotte intestine delle città italiane settentrionali (cfr. III, 23-26). Le trame intessute dalla diplomazia fiorentina contro l'imperatore, sulle quali molto insiste (cfr. III, 24, 28, 29, 31, 32 ecc.), non bastano a ricondurre il tutto nel solco del post 1301. Il 1311 trascorre invano nel1312. La Cronica, che era stata concepita come una riflessione su eventi recenti, ma passati, degenera insensibilmente in cronaca contemporanea. Il Del Lungo calcola in settimane la distanza che separa l'ultimo fatto narrato e la stesura delle ultime righe della Cronica. Da opera chiusa, che doveva essere, questa diventa un'opera aperta. Aperta, per di più, verso un futuro che non avrebbe affatto corrisposto alle attese dell'autore.

Il C. accompagna Enrico VII fino all'incoronazione romana del 29 giugno 1312 (non1° agosto, come nella Cronica).Fino all'ultimo, il cammino dell'imperatore risulta cosparso di insidie e di inciampi. Per il momento Enrico prevale, perché è ancora in condizione di leggere nelle intenzioni degli avversari (nella fattispecie, di re Roberto d'Angiò), ma non è più l'invitto "agnolo di Dio" di III, 24. Nella Cronica si avverte un senso di "inquietezza e sconforto dell'avvenire" (Del Lungo).

A questo punto, è come se il C. sentisse il bisogno di cercare nuovi appigli alla sua speranza in un mutamento. Fra III, 36 (incoronazione imperiale di Enrico) e 42, che è il capitolo finale della Cronica, culminante nell'invettiva estrema contro i Fiorentini ("Ora vi si ricomincia il mondo a rivolgere addosso: lo Imperadore con le sue forze vi farà prendere e rubare per mare e per terra"), cinque capitoli ci riportano a Firenze, nel mezzo della mischia. Sempre a III, 42, la breve sintesi del mali della "nostra tribolata città" si concluderà, prima dell'invettiva, con un accennoall'impunità di cui godono sistematicamente i "malfattori": "Gli uomini vi si uccidono; il male per legge non si punisce; ma come il malfattore à degli amici, e può moneta spendere, così è liberato dal malificio fatto". Si intende che l'imperatore, con la sua prossima venuta, ristabilirà anche, e soprattutto, l'impero della legge. Non senza una certa contraddizione, nei capitoli fiorentini intermedi (III, 37-41) il C. elenca invece una serie di casi, particolari, ma clamorosi, che dimostrano che la tendenza al riguardo è già di fatto mutata.

Fornisce, all'inizio, la chiave di lettura di tali casi, che non esita a definire provvidenziali (come aveva fatto a III, 23, per l'elezione di Enrico a re del Romani): "La giustizia di Dio quanto fa laudare la sua maestà, quando per nuovi miracoli dimostra a' minuti popoli [cfr. I, 17, dove il "minuto popolo", al singolare, sono i fautori, di Giano della Bella], che Iddio le loro ingiurie non dimentica! molta pace dà a coloro nell'animo, che le ingiurie da' potenti ricevono, quando veggiono che Iddio se ne ricorda" (III, 37). Passa, poi (sempre in III, 37, se la ricostruzione di questa sezione della Cronica, proposta dal Del Lungo, è esatta), a presentare - si direbbe - i protagonisti dei casi in questione (sono i "quattro ... capi di questa discordia, de' Neri", cioè Rosso della Tosa, Pazzino de' Pazzi, Betto Brunelleschi e Geri Spini, ai quali si aggiunsero in un secondo momento Tegghiaio Frescobaldi e Gherardo Ventraia), tutti complici di Fulcieri da Calboli (il podestà dei due semestri del 1303, che aveva fatto eseguire le prime condanne a morte di guelfi bianchi) e noti per manipolare le elezioni dei priori e fare il bello e brutto tempo nei tribunali. Dedica i capitoli 38-40 alla descrizione delle morti violente di tre del quattro "capi" originari. Traccia, infine, nel capitolo 41, un bilancio dei "miracoli" di questo tipo operati di recente dalla "giustizia di Dio", da cui risulta: 1°) che "cinque crudeli cittadini" sono morti, si intende di morte violenta, nei pressi del luogo (Campo di Fiore, fuori Porta alla Croce), "dove la giustizia si fa e punisconsi i malifattori di mala morte", e precisamente Corso Donati (nel monastero di S. Salvi: cfr. III, 21), Nicola de' Cerchi e Simone Donati (sul Ponte ad Affrico), Pazzino de' Pazzi (uno dei quattro: sul greto d'Arno da S. Croce: cfr. III, 40) e Gherardo Bordoni (alla Croce a Gorgo: cfr. III, 20); 2°) che anche "di mala morte" sono finiti Rosso della Tosa e Betto Brunelleschi, altri due dei quattro, con il che ne erano stati eliminati già tre, mentre il quarto e ultimo, Geri Spini, "sempre dipoi stette in gran guardia", essendo stati revocati nel 1311 i bandi contro i Donati e i Bordoni, ai quali in precedenza aveva "disfatte le case".

È un bilancio tendenzioso, per non dire truccato. Sarebbe stato difficile per chiunque altro far passare per interventi diretti della divina provvidenza, su cui fondare una speranza per il futuro alternativa a quella, ormai in forse, costituita da Enrico VII, le morti violente, a breve distanza l'una dall'altra (fra 1309 e 1312), dei tre capi neri, che erano semmai, la riprova di un clima di violenza sempre più generalizzato. Tanto più difficile per il C., che, oltre a tutto, nutriva, e affettava, sentimenti di mitezza e di moderazione. Ecco allora la trovata delle cinque morti, anch'esse violente, ma oltre che meritate (erano tutti "cittadini crudeli"), avvenute in prossimità del luogo deputato alle esecuzioni dei condannati alla pena capitale e, quindi, in qualche modo, legalizzate dal dato topografico. Il miracolo, l'elemento nuovo, tale da ridare al popolo minuto la fiducia, che aveva persa, nella giustizia di Dio, stava tutto qui. Ostinandosi a sperare contro l'evidenza in un raddrizzamento della situazione fiorentina, dopo che l'elezione di Enrico aveva rimesso in moto le cose italiane, il C. dà a quella semplice coincidenza, di cui è difficile misurare a posteriori la singolarità, il valore di un "segno". Nell'economia dell'ultima sezione della Cronica, i capitoli37-41 vengono così ad assumere il carattere di un secondo finale, non si comprende bene se destinato a convivere con quello imperniato sull'avvento di Enrico (la giustizia divina che, con i suoi "miracoli", preannuncia il ristabilimento dell'impero della legge a opera dell'imperatore), o a sostituirlo, dando per scontato l'insuccesso dell'impresa imperiale.

Non mancano alcune spie testuali dell'avvenuto innesto, o mutamento di rotta. Solo per altra via sappiamo che Nicola de' Cerchi e Simone Donati sono stati uccisi sul Ponte ad Affrico: la Cronica del C. tace questo particolare essenziale. I nominati nel bilancio del capitolo 41 (cinque più due più uno) non trovano la corrispondenza, che il contesto richiederebbe; nell'elenco del capi di parte nera (quattro più due) fornito nel capitolo 37. Ma c'è anche di più. La successione dei capitoli 33-42 nell'edizione della Cronica curata dal Del Lungo è il frutto di un rimaneggiamento del testo tràdito, operato dall'editore, il solo, si aggiunga, cui egli abbia creduto di dover addivenire: nei manoscritti e nelle edizioni precedenti, la seconda parte del capitolo 37 (da "Quattro erano i capi" in poi) e il capitolo 38 (morte di Rosso della Tosa) stanno in mezzo fra gli attuali capitoli 33 e 34 (cfr. Del Lungo, Appendice al commento, in Rer. Ital. Script., pp. 289-296). In compenso, un passo del proemio ("... tanto che, multiplicati i pericoli e gli aspetti notevoli sì che non sono da tacere, propuosi di scrivere ...") e uno di I, 2 ("Piangano adunque i suoi [di Firenze] cittadini sopra loro e sopra i loro figliuoli ... e aspettino la giustizia di Dio, la quale per molti segni promette loro male siccome a colpevoli ...") si addicono, nella loro genericità, sia all'uno che all'altro finale, e - meglio ancora (cfr. gli "aspetti" e i "segni" al plurale) - a entrambi i finali insieme.

I ritardi, gli arbitri, la paralisi della giustizia penale sono al primo posto fra i "costumi politici" (Ottokar) deprecati nella Cronica, dall'inizio alla fine: su questo punto fallisce il priorato delle arti già all'indomani del 1282 (I, 5); "i giudici ... tengono le questioni sospese anni tre o quattro, e sentenzia di niuno piato si dà" (I, 13); nel 1295, un giudice trucca un processo con la complicità di un notaio (nella Canzone del pregio, il C.chiede al podestà di controllare i notai, e ai notai di "non scritte mutare") e alcuni imputati, in attesa di processo, approfittando di un tumulto, vanno a "stracciare" i loro incartamenti processuali (I, 16); nel 1299, il podestà forestiero, che assolveva e condannava a seconda che gli veniva comandato dai grandi, viene sottoposto a tortura per iniziativa dei benpensanti confessa di avere assolto un imputato in base a una testimonianza che sapeva falsa: il verbale della confessione del podestà viene manomesso da un giudice, ma il notaio che l'aveva redatto se ne accorge e denuncia il fatto, conclusione: i benpensanti si pentono di essere intervenuti, perché temono che possano venire alla luce anche le loro malefatte (I, 19); alcuni giovani dei Cerchi subiscono un tentativo di avvelenamento mentre si trovano in stato di fermo: "non si cercò il malificio, però che non si potea provare" (I, 20); pur sapendo che il loro congiunto Ricoverino, la sera del 1° maggio 1300, era stato mutilato del naso da Piero Spini, "i Cerchi non palesoron mai chi si fusse, aspettando farne gran vendetta" (I, 22); e così via. Dopo l'avvento al potere dei neri, i Bostichi praticano la tortura a casa loro: "e volgarmente si dicea per la terra: "Molte corti [tribunali] ci sono"" (II, 20).

Per il C. ricerca della verità storica e ricerca dei colpevoli di delitti presentano difficoltà analoghe e richiedono, quindi, accorgimenti simili (cfr. anche Pirodda, pp. 340-42). In un caso come nell'altro si doveva potere assodare la verità dell'accaduto anche quando non si era stati presenti al fatto. Gli ordinamenti di giustizia, che il C. loda, prevedono fra l'altro che "i malifici [del magnati] si potessono provare per due testimoni di pubblica voce e fama" (I, 11). (La riforma degli ordinamenti, varata nel luglio del 1295, stabilì che i testimoni dovessero essere almeno tre). Come cronista, il C. afferma di essersi proposto fino dall'inizio di "scrivere il vero delle cose certe che io vidi e udi', però che furon cose notevoli, le quali ne' loro principi nullo le vide certamente come io"; ma, siccome neanche lui ha potuto vedere tutto, deve scrivere anche "secondo udienza" (in base al sentito dire) e, poiché molti mentono sapendo di mentire, inquinando la verità, si impegna a "scrivere secondo la maggior fama" (I, 1). In tale modo, il criterio di accertamento indiretto del vero giudiziale, fondato sui "testimoni di pubblica fama", che potevano sovvenire agli inquirenti, quando non erano disponibili i "testimoni di verità" (quanti avevano assistito di persona al fatto), era assunto, previ i necessari adattamenti, come criterio di accertamento del vero cronachistico. La prova lampante che il C. tendeva a associare mentalmente queste distinte operazioni risiede nella circostanza per cui la sola volta che fa riferimento a una difficoltà nel corso della stesura della Cronica, per essersi trovato di fronte a due versioni contrastanti dell'accaduto, il punto controverso è costituito dall'identità dei mandanti dell'uccisione di Corso Donati: "e io, volendo ricercare il vero, diligentemente cercai e trovai ..." (III, 21). Ma che poi, sia nei tribunali sia nello scrittoio del cronista, il principio enunciato fosse di applicazione più ardua del previsto, risulta dimostrato dal fatto che, a III, 39, dimentico di quanto aveva scritto, si contraddice, e dà come principale responsabile di quell'uccisione Betto Brunelleschi, e non più Rosso della Tosa e Pazzino de' Pazzi, che erano i nomi che aveva fatti più sopra.

Con tanta maggiore insistenza, sottolinea, con un uso disinvolto della prima persona ("sei cittadini popolani, fra' quali io Dino Compagni fui", a I, 4; ma cfr. anche I, 12, 14, 21, 24; II, 5, 7, 8, 10, 11, 17, 19, 21), i casi che concorrono a configurare la sua fisionomia di super "testimone della verità", bastandogli un inciso apposto al suo nome, compreso fra quelli dei priori entrati in carica il 15 aprile 1289, per rivendicare esplicitamente la paternità dell'opera cui stava attendendo: "Dino Compagni autore di questa Cronaca" (1, 8).

Cronista e mercante, perché lo sappiamo per altra via, il C. non è in alcun modo ciò che viene definito un "mercante-cronista". Come si riflette nella Cronica, il cittadino C. fa nettamente aggio sull'uomo di affari. Certo, gli viene talvolta fatto di usare qualche espressione tecnico-commerciale, che però molto probabilmente era entrata nel linguaggio comune.

Inoltre, da uomo del mestiere, comprende bene come Manetto Scali, condannato in contumacia da Carlo di Valois, abbia fatto ricomprare per cinquemila fiorini dai suoi soci i propri beni messi in vendita, "acciò che i libri della compagnia di Francia non li facesse tòrre; e difesonsi per la detta compagnia" (II, 25); rende gli onori a Bertuccio de' Pulci, che, rientrato dalla Francia a Firenze e avendo trovati "i suoi compagni ["nel solito senso mercantile": Del Lungo] sbandeggiati "e i membri della sua consorteria schierati dalla parte del vincitori, "lasciò i suoi consorti in signoria, e co' suoi compagni stette fuori" (II, 26); valuta con occhio esperto l'enormità del danno subito dai Cavalcanti in conseguenza del grande incendio del giugno 1304 (cfr. III, 8, una delle pagine della Cronica più citate), quando "perderono ... il cuore e il sangue, vedendo ardere le loro case e palagi e botteghe, le quali per le gran pigioni, per lo stretto luogo, gli tenean ricchi".

Ma il "fattore economico" come tale non è presente nella Cronica, non solo come elemento di spiegazione storica positiva (che sarebbe stato pretendere troppo) o come costante sfondo ambientale (che è ciò che offre il Villani), ma neppure, negativamente, come causa suprema dell'imperante disordine civile e morale. I "proibiti [o falsi] guadagni" non mancano, ma sono addotti solo al principio e alla fine (cfr. I, 1 e III, 42), in omaggio, si direbbe, più a una convenzione che a un convincimento. Se è vero che, nel passaggio da una "società precommerciale" a una "società commerciale", "the greatest social danger evolved from an uncontrolled desire for power on the part of the strong to an uncontrolled desire for money on the part of the rich" (cfr. L. K. Little, Pride Goes before Avarice: Social Change and the Vices, in Latin Christendom, in The Americ. Histor. Rev., LXXVI [1971], pp. 38 s.), il C. è ancora, a differenza - per esempio - di Dante, un uomo che esprime timori e preoccupazioni del passato. Nella Cronica, la "superbia", generatrice della funesta "gara degli uffici", e non l'"avarizia", stimolo ai "proibiti guadagni", è il vizio di gran lunga più praticato e più condannato, in quanto foriero di "divisioni" e "discordie" (cfr. I, 2, 11, 20, 22; II, 8, 12, 26; per l'"avarizia", cfr. III, 19 e II, 14, dove però si tratta di un'accusa circostanziata contro i Cerchi).

Il senso particolarmente acuito del tempo, che, in quest'età di transizione caratterizza la mentalità del mercante rispetto a quella di tutti gli altri membri del consorzio civile (J. Le Goff), determina nel C. una curiosa forma di insofferenza per la perdita di tempo connessa con i riti della vita pubblica: come se provasse disagio nell'avvertire che "il tempo nel quale agiva professionalmente" non era lo stesso nel quale era costretto a operare da politico. Nel riandare alle vicende del suo priorato del 1301, quando i tre mesi previsti per tale incarico furono ridotti con la forza a meno di un terzo, il cattivo uso, lo sperpero di questo terzo residuo gli appare retrospettivamente come una delle ragioni principali della sconfitta subita. A produrre questo sperpero sarebbero state, in parte, l'insipienza del suoi compagni di fazione (cfr. II, 10 e 15), in parte l'astuzia degli avversari, i quali, ancora prima che i nuovi priori, appena designati, entrassero in carica (cfr. II, 5), e poi in seguito, con costanza, cercarono di far naufragare in un mare di chiacchiere i già inadeguati sforzi del C. e dei suoi colleghi per riportare la pace in Firenze (cfr. II, 13 e 18).

Correlativamente la brevitas, di cui spesso il cronista si compiace, non è soltanto un artificio stilistico, spia della sua "consapevolezza retorica" (Pirodda), ma anche un atteggiamento mentale, che emerge con chiarezza tutte le volte che, nel parlare di eventi che lo ebbero a spettatore o protagonista, rileva con soddisfazione che si procedette speditamente, sui binari di collaudate procedure, o illustra quelle ragioni che, in altre circostanze, lo indussero a guadagnare tempo, a non procedere: "Narrarono le parole del Papa: onde io a ritrarre [riferire ai Consigli] sua anbasciata fui colpevole: missila ad indugio, e feci loro giurare credenza; e non per malizia la indugiai. Appresso raunai sei savi legisti, e fecila inanzi loro ritrarre, e non lasciai consigliare ..." (II, 11: ritorno da Roma di due degli ambasciatori inviati ai primi di ottobre del 1301). Per il C., mercante prestato alla politica, fattosi poi cronista di se stesso, la giusta misura del tempo in cui si distendeva un'azione era un coefficiente non trascurabile del successo di questa. Per non dire delle azioni di riparazione della giustizia (come si è visto, una sua preoccupazione costante), nelle quali la tempestività nel procedere contro il reo gli pareva l'elemento essenziale, anche per assicurare l'esemplarità del castigo inflitto. Gli mancava, invece, il gusto notarile per la datazione precisa, che era tutt'altra cosa: delle date non numerose che ci presenta la Cronica, le non esatte sono più d'una.

Il pubblico dei lettori in grado di ricevere il messaggio implicito nel racconto della divisione del 1300 non ebbe modo di formarsi a Firenze, vivo il C., e neanche per molti anni dopo la sua morte. La Cronica, che era stata scritta per circolare e essere letta (chissà, a alta voce), non appena l'autore, aveva creduto che stessero per maturare le condizioni necessarie a ciò, restò invece presumibilmente confinata nell'archivio domestico dei Compagni, come una qualsiasi cronaca familiare, tipo quelle che erano soliti redigere i "mercanti-cronisti". Benché di sicuro terminata, si ha l'impressione che le sia mancata una revisione finale, che forse sarebbe riuscita a eliminare, se non gli errori di fatto che la costellano (i tradimenti della memoria, che un giorno lontano erano per costarle caro), almeno le incongruità che abbiamo rilevate, nonché alcune fastidiose ripetizioni, stridenti rispetto alla consapevolezza letteraria e retorica che il C. denuncia a ogni passo di possedere (cfr. II, 14 e 21, per i priori dell'ottobre 1301 che fanno discretamente sapere a Torrigiano de' Cerchi che il divieto di riunire armati non valeva per loro; II, 28 e 36, per "la lupa", cioè Siena, che "puttaneggia"; III, 13 e 14, per i Pisani che sono disposti ad aiutare i Pistoiesi con denaro, non però con uomini).

La storia, tutt'altro che piana, della tradizione e della fortuna della Cronica è stata magistralmente indagata e ricostruita nei suoi più minuti dettagli da Isidoro Del Lungo in alcuni capitoli di D. C. e la Cronica (1879-80) e, di nuovo, a parte, in Storia esterna vicende avventure ... (1917-18). Non solo il resto del sec. XIV, ma anche i due successivi trascorsero senza che la Cronica desse apprezzabili segni di vita. Per questi tre secoli non si registrano che l'episodio del tacito utilizzo di essa da parte dell'Anonimo fiorentino, commentatore della Commedia, fra sec. XIV e XV; la altrimenti inesplicabile attribuzione al C. della Diceria a papa Giovanni XXII nella più parte dei manoscritti che la contengono; e la conoscenza diretta che mostra di avere avuto della Cronica Paolo Mini, autore della Difesa della città di Firenze e dei Fiorentini (Lione 1577) e di altre due operette consimili. Ma neanche il Mini la menziona fra le storie di cui dà atto di essersi servito, pur annoverando il suo autore fra i "Fiorentini famosi nel governo civile", sulla base di fatti narrati nella Cronica stessa, e di cui il C. era stato protagonista. In realtà, già allora la Cronica era stata trascritta almeno due volte: ulteriore indizio di un perdurante, latente interesse, che per qualche motivo esitava, a manifestarsi in modo aperto. "Ogni libro ha la sua stella", commenta il Del Lungo; che però, subito dopo, "lasciando le stelle", passa a domandarsi "come poté questo libro, del quale pure esistevano per lo meno due codici, varcar tutto il secolo XVI, senza che nessuno ... gli ponesse mente", per ricordare, a ragione, che "nello scorcio del Cinquecento incominciò la repressione violenta del pensiero scritto": "anche ne' libri di dugento o più anni innanzi, la rappresentazione storica del vero era sospetta e perseguitata" (Storia esterna …, I, pp. 133 ss.).

A riscoprire e a mettere in circolazione la Cronica (se non ancora, per la persistenza delle suaccennate ragioni, a pubblicarla) è, in un clima di diffusa curiosità antiquaria, Carlo di Tommaso Strozzi (1587-1670), infaticabile e longevo raccoglitore di memorie storiche fiorentine - detto, per questo, pater antiquitatis. Prima lo Strozzi tra il 1630 e il 1640, poi i fratelli Braccio (1616-1677) e Carlandrea (1618-1680) d'Andrea Compagni, che, datisi a rispolverare, sulle orme - parrebbe - dello Strozzi medesimo, la memoria dell'avo, si accorsero di non possedere nell'archivio familiare nemmeno una copia della Cronica, diedero anzitutto il via alla serie delle trascrizioni, che continuò ad arricchirsi a dismisura durante l'intero secolo e l'inizio del seguente. Essi si servirono di quello che sapevano essere il più antico manoscritto della Cronica allora esistente, che era uno conservato in casa di Filippo Pandolfini (1575-1655). Il Del Lungo lo ha identificato in un codice, esportato in Inghilterra dai Pucci, che nel frattempo ne erano diventati proprietari, nel 1840, e rientrato in Italia (alla Laurenziana di Firenze) nel 1884, insieme con la collezione di lord Ashburnham, nella quale era finito, di modo che oggi è il Laurenziano-Ashburnhamiano 443.

L'Ashburnhamiano, che ètuttora il più antico manoscritto conosciuto della Cronica, fu copiato nel sec. XV (dopo il 1465). Poiché in esso l'opera del C. va insieme con altri testi (la vita di Dante di Leonardo Bruni e il terzo libro della Historia fiorentina di Domenico Buoninsegni), èimprobabile che sia stato allestito in casa Compagni. Né si può dire in che rapporto, più o meno mediato, stia con l'autografo, la cui sopravvivenza fino a quel momento ètutt'altro che certa. La postilla finale, che attesta essere stata "ritracta questa [copia] dalla sua propria [del C.]", non ha infatti alcun valore, perché può essere stata ricopiata insieme con tutto il resto. Ma la notizia, riportata subito prima nella stessa postilla, della data della morte del C. e del luogo della sua sepoltura, induce il Del Lungo a ipotizzare come precedente immediato dell'Ashburnham. un antigrafo, proveniente, questo sì, da casa Compagni e, forse, tratto direttamente dall'originale.

Dall'Ashburnham. derivano, in un modo o nell'altro, non solo tutte le numerose trascrizioni seicentesche della Cronica (di qui la prova che si tratti dello stesso manoscritto che si trovava a quel tempo in casa Pandolfini); ma anche il secondo, per antichità, dei manoscritti che la tramandano (ovverosia l'altro dei due che precedono la riscoperta dello Strozzi), che è quello, oggi Magliab. II, VII, 39 (anch'esso miscellaneo: reca gli stessi testi dell'Ashburnh. più la vita del Petrarca, sempre del Bruni), che Noferi Busini ha malamente esemplato nel 1514. Passato qualche tempo dopo a arricchire l'"armadiaccio" di Giovanni Mazzuoli da Strada nel Chianti, detto lo Stradino (m. 1549), ch'era fornito soprattutto di libri di cavalleria, anche questo manoscritto, all'incirca un decennio dopo la morte di Carlo, è confluito poi in casa Strozzi, crocevia obbligato dell'intera vicenda testuale della Cronica. E nella Strozziana ha avuto assegnato il nr. 1436, che ancora lo contraddistingue.

Nel frattempo, sempre per iniziativa dello Strozzi, la Cronica circola anche a Roma, alla corte di Urbano VIII (il fiorentino Maffeo Barberini). In occasione dei lavori preparatori (iniziati nel 1650) per la terza edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, la Cronica è compresa nell'elenco dei testi da spogliare: delle duecento voci o locuzioni schedate, centotrentadue sono accolte nel Vocabolario (1691). A Firenze, la fama del C. arriva al punto di attribuirgli un'epitome della cronaca di Giovanni Villani (a. 1107-1332), intitolata Nuova Cronica. Ciononostante, falliscono due tentativi, uno fiorentino, l'altro romano, di dare la Cronica alle stampe. All'inizio del sec. XVIII ci riprova Apostolo Zeno (fra il 1704 e il 1718). Nel 1723 gli subentra il Muratori, che l'anno seguente ottiene la copia approntata per lo Zeno, che aveva già fatto due volte la spola fra Venezia e Firenze (la seconda, per essere collazionata con il manoscritto del 1514). Nel 1726 la Cronica vede finalmente la luce nei Rerum, quattrocentoquattordici anni dopo essere stata scritta. Due anni dopo, appare la seconda edizione, fiorentina: la cura D. M. Manni, un tipografo colto che stampava il Vocabolario della Crusca. "Accolta dal Muratori fra i monumenti della storia italiana, ristampata dal Manni in servigio del Vocabolario della lingua, la Cronica di Dino avea ricevuto come il doppio suggello della fama alla quale d'allora era destinata" (Del Lungo, Storia esterna …, I, p. 256). Il Manni, che operava "con licenza de' superiori", soppresse parole, frasi e addirittura interi periodi. Nella quarta ed. del Vocabolario (1729-1738), la Cronica è presente con duecentoventinove nuovi esempi. Dopo avere generato tante copie nel sec. XVII, l'Ashburnham. è intanto messo da parte a favore della copia del 1514.

Nei primi decenni del sec. XIX una nuova riscoperta della Cronica avviene a opera di alcuni dei maggiori protagonisti (in particolare, Pietro Giordani e Giulio Perticari) della polemica sulla lingua, che ora ha anche risvolti politico-nazionali. Cominciano a fiorire i paragoni spropositati con gli storici antichi: per il Giordani, il C. è un "italiano Sallustio"; poi sarà la volta di Cesare (autore, per definizione, di "commentari"), di Tacito (il moralista), di Erodoto e, soprattutto, di Tucidide (lo storico di fatti contemporanei). Parallelamente, dopo novant'anni di sosta, riprendono le edizioni: fra le altre, una pisana, nel 1818; una veneziana, a dispense, nel 1833; una napoletana, nel 1845, nel giro di Basilio Puoti; un'altra fiorentina, nel 1848, a cura di Atto Vannucci ("i giovani ... ne ritrarranno copia di elette ed energiche forme a ben dire, e, quello che importa assai più, conforti ed eccitamenti a bene operare"). E così avanti, per tutto il secolo. Ma il D'Ancona, a Pisa, e il Carducci, a Bologna, dichiareranno con onestà che, in mancanza di un commento storico adeguato, non erano in condizione di intendere la Cronica. S'era intanto operato il congiungimento della fortuna del C. con quella di Dante (cfr. il Sismondi il Troya, il Balbo, il Tommaseo, che parla del "secolo di Dino e di Dante"). "Su quei fatti, che ad ambedue i libri [la Cronica e la Commedia] furono comune sorgente d'ispirazione, la luce che dall'uno all'altro si derivava, dall'uno all'altro in pari tempo si rifletteva" (Del Lungo, Storia esterna ... I, p. 340). L'accostamento persiste tuttora, ma si risolve ormai per lo più in un danno per il C.: "la Cronica ci dà quel journal intime di un Bianco sconfitto che la Commedia non volle essere, per nostra fortuna ... Né sentiva in sé [il C.] quella forza di opporsi col verbo al prevalere del male, che aveva il suo concittadino e compagno politico dal quale non è mai ricordato nella Commedia" (Petrocchi). Nel 1954, E. von Roon-Bassermann ha colpito il binomio alla radice, facendo di Dante l'autore della Cronica: ma non ha trovato ascolto. Di recente (1982), G. Bezzola ha rivendicato la legittimità di "leggere il C. come se la Divina Commedia non esistesse".

Un pericolo ben più grave il C. lo ha corso negli anni '70 del secolo passato. Nel periodo che vide "la più vasta distruzione di false storie, di falsi documenti, di false leggende" e che si inaugurò in Italia "col trasportarvi e rafforzarvi la dimostrazione della falsità di parecchie cronache medievali, che era stata opera della scuola del Pertz", anche "la cronaca del C. andò soggetta a grosso assalto da parte di tedeschi e d'italiani, ma si salvò alla fine, dopo una gran paura, dalle unghie degli assalitori, gagliardamente difesa dal Del Lungo" (B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, Bari 1921, p. 140). La metafora rende senza forzature il clima, in cui la questione - il Dino-Streit, come si disse - fu discussa o, meglio, combattuta, durante gli anni che vanno da Sedan a Vittorio Veneto. Tutto ebbe infatti inizio nell'"anno delle vittorie germaniche preparatrici a noi d'innaturali alleanze" (Del Lungo, Storia esterna ..., II, p. 3); e, ancora nel 1919, recensendo la ristampa della polemica del Del Lungo, apparsa trentotto anni prima, Pietro Silva notava che non era senza significato che il secondo volume di Storia esterna … "che suggella definitivamente questa vittoria della buona e sana scienza nostra", fosse uscito proprio nel 1918. Nel 1870, in un articolo nella Historische Zeitschrift (vol. XXIV), lo Scheffer-Boichorst, nell'atto di dichiarare apocrifa la Cronaca Malispiana, aveva preannunciato che "un giorno lo spirito critico d'un tedesco" si sarebbe esercitato anche sulla Cronica del C., "quello che tu [o Firenze] chiami il tuo Tucidide". Quattro anni dopo, appariva la dotta memoria con cui lo storico tedesco manteneva l'impegno o, se si preferisce, metteva in atto la sua minaccia: La Cronica di D. C. una falsificazione. Gli argomenti usati sono i soliti, in linea di principio validissimi, anche se talora ritorcibili, di cui si serviva la critica storico-filologica di allora. Discutibile era comunque l'assunto basilare secondo cui un autore non poteva né sbagliare, né contraddirsi; altrimenti voleva dire che c'era un sentore d'inganno. E la memoria tradisce spesso il C., che scrive a una certa distanza dai fatti (una trentina d'anni dopo per i capitoli introduttivi), con un animo appassionato e non notarile. Già nel 1858, una voce in questo caso italiana, quella di Pietro Fanfani, si era pronunciata, con motivazioni però di carattere prevalentemente linguistico, contro l'autenticità della Cronica (ilFanfani, nei decenni successivi, ritornerà a più riprese sul tema). Inserendosi nella discussione ormai avviata oltralpe, Giusto Grion nel 1871 lancia l'ipotesi che l'autore della Cronica possa essere stato il cinquecentista Anton Francesco Doni (il suo cognome è l'anagramma di Dino). Per lo Scheffer-Boichorst la falsificazione fu compiuta invece verso il 1640 nell'ambito dell'Accademia della Crusca (ritenendo egli che il manoscritto del 1514 potesse essere di tempi assai più bassi e non conoscendo affatto l'esistenza dell'Ashburnham.). Nellapolemica, il Del Lungo usa per lo storico tedesco e per i suoi emuli italiani toni molto diversi, che solo nel caso dei connazionali (in particolare, nei confronti del Grion) arrivano al dileggio. Non contento di denunciare il vizio di fondo di alcuni dei procedimenti mentali impiegati dallo Scheffer-Boichorst (Storia esterna ..., II, pp. 18, 74 s.), proprio perché persuaso della serietà e della dottrina dell'avversario, adotta la tattica della replica punto per punto, con la conseguenza di dare talvolta l'impressione di arrampicarsi sugli specchi, come, peresempio, a proposito del "disfacimento, nel 1293, delle case dei Galigai, che erano invece le case dei Galli (cfr. Cronica, I, 12, e Storia esterna..., pp. 34 ss.).

Il valore dell'opera, in tre volumi e quattro tomi, che, fra il 1879 e il 1887, il Del Lungo ha dedicato a D. C. e la sua Cronica, non si esaurisce certo nella polemica contro lo Scheffer-Boichorst e gli altri negatori dell'autenticità. Lo aveva preceduto, in anni ancora calmi e con molto minori ambizioni, K. Hillebrand (1862), che si proponeva, da un lato, di dimostrare l'importanza della storia di Firenze nell'età di Dante, come esempio di quello sviluppo particolaristico di cui nel sec. XIX si era portati a disconoscere i meriti (mentre era stato lo smembramento dell'Italia del secoli XIV e XV a consentirle di porsi alla testa della civiltà europea); dall'altro, di "rivelare un talento storico di prim'ordine". Nei primi due tomi dell'opera (1879-80), il Del Lungo delinea il quadro storico-ambientale entro cui il C. ha vissuto, ne ricostruisce la biografia, analizza la Cronica e anche le rime (di queste dà pure l'edizione), indaga la fortuna della Cronica fino ai suoi giorni. (Il materiale di I, 1 e 2, sarà parzialmente riutilizzato dallo studioso in Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII e, come si è detto, in Storia esterna ...). Il vol. II (1879) comprende l'edizione critico della Cronica, fondata sulla collazione di venti manoscritti, fra cui quello del 1514. A quest'epoca il Del Lungo sa dell'esistenza dell'Ashburnham., ma non può utilizzarlo, perché è a Londra. Il testo è corredato da un ricchissimo commento storico, che consente per la prima volta di leggere la Cronica con conoscenza di causa (sarà ristampato nei Rer. Ital. Script., 2ed., IX, 2 [1907-1917]).Riservato in partenza ai due indici, storico e filologico, il vol. III (1887)contiene anche la trascrizione della Cronica secondo l'Ashburnham. 443, resosi nel frattempo disponibile a Firenze. È questo nuovo testo della Cronica che in Rer. Ital. Script., 2 ed., si accompagnerà al commento, disgiunto così dalla precedente, ormai superata edizione del 1879, e che il Del Lungo riproporrà di lì a poco, insieme con la Canzone del pregio, in una fortunata editio minor (1889), pervenuta nel 1939 alla decima ristampa. Di questo stesso testo si è servito anche G. Luzzatto per la sua edizione commentata della Cronica (Milano 1906;ristampa: Torino 1968) e, recentissimamente, G. Bezzola (Milano 1982), che a p. 26 dà l'elenco delle edizioni della Cronica esistenti nelle biblioteche milanesi.

Il Dino-Streit è da ritenersi definitivamente concluso. Lo stesso Scheffer-Boichorst, nel 1888, dopo la ricomparsa dell'Ashburnham., riconobbe il suo errore in una lettera al Davidsohn, che questi rese pubblica in un necrologio del collega, apparso sull'Arch. stor. ital. del 1902. Non altrettanto può dirsi del problema linguistico-filologico dell'edizione della Cronica. Probabilmente, il fatto di avere potuto prendere visione dell'Ashburnham. 443 solo così tardi indusse poi il Del Lungo a prestargli una troppo cieca fiducia. Sta di fatto che in alcune postille all'edizione del 1907-17, apparse sull'Arch. muratoriano (II [1913-22], pp. 582 s.), il Del Lungo, in riferimento a tre passi di Cronica, II, 4, 7 e 9, dichiara di preferire alle corrispondenti lezioni dell'Ashburnham. la lezione, rispettivamente, di uno del molti trascrittori secenteschi nonché delle edizioni del 1726 e del 1728; di tutti gli altri codici, tranne quell'uno; e del manoscritto del 1514. Beninteso, il Del Lungo non sembra per nulla intenzionato a rimettere in discussione, per così poco, la radicata convinzione che l'intera tradizione faccia capo all'Ashburnham., ivi indirettamente ribadita (p. 259). Ma questi suoi ripensamenti unidirezionali (in un senso, cioè uniformemente contrario alle lezioni attestate da quel manoscritto), congiuntamente al dato di fatto per cui, quando effettuò la collazione dei venti manoscritti che gli servirono di base per l'edizione del 1879, non disponeva ancora dell'Ashburnham., portano a concludere che qualche ulteriore sondaggio sulla tradizione potrebbe anche riservare delle sorprese. Infine, più di recente (1961), muovendosi su tutt'altro piano, G. Folena ha avvertito che "un esame attento [del testo tradito dall'Ashburnham.] mostra che gli interventi sulla lingua debbono essere stati assai marcati", dal momento che "alcuni fenomeni sintattici" testimoniati dalla Cronica appartengono "all'usus fiorentino piuttosto quattrocentesco che due-trecentesco; spicca fra questi la giustapposizione di dichiarative e comparative e di relative completive (o ellissi del nesso che)". In conclusione, "non sarà temerario sospettare interventi del copista dell'archetipo". Il problema del testo della Cronica rimane, dunque, almeno in parte, ancora aperto. Ma ha certamente torto chi, come il Larner (1980), confondendo una cosa con l'altra, ritiene che le riserve avanzate dal Folena possano anche indurre a riaprire la questione dell'autenticità così come l'aveva sollevata lo Scheffer-Boichorst nel 1874. In sostanza, questi non ha fatto che cercare di convalidare, con gli strumenti di cui disponeva, un sospetto che la singolarissima vicenda - da fiume carsico - della tradizione e della fortuna della Cronica rendeva più che legittimo, prima della sistematica esplorazione del Del Lungo. Oggi quel sospetto non ha più nessun fondamento razionale.

L'indubbio rilievo che le parti autobiografiche assumono nel contesto della Cronica e anche, in una certa misura, l'importanza che le veramente notevoli pagine dedicate al C. dal De Sanctis nella Storia della letteratura italiana hanno avuto nell'orientare il giudizio critico dal 1870 ai giorni nostri, fanno sì che, risolta una volta per tutte la questione dell'autenticità, al centro dell'attenzione campeggi il "buon Dino", narratore delle vicende di cui, nelle vesti di militante "popolano", era stato protagonista da una a tre decine di anni innanzi. Per il De Sanctis, il C. "peccò per soverchia bontà d'animo". Vedeva la realtà "da un aspetto puramento morale e religioso, come negli ascetici": ma "la realtà riesce al buon Dino altra che non pensava". Nonostante questo diaframma ideologico, "uomo d'impressione più che di pensiero" com'era, si dimostra però in grado di "intuire uomini e cose a prima vista, e ne rende la fisionomia che non la puoi dimenticare".

Dove il De Sanctis, per dirla con altre parole anche sue, vedeva il conflitto fra "la morale de' libri e la morale del mondo", i critici e gli storici venuti dopo hanno intravisto altri conflitti, tutti però in qualche modo esemplati su quello: per il Del Lungo, il contrasto base è fra aspirazioni comunali e reliquie feudali; per il Sapegno (1934), nella Cronica si coglie il conflitto fra etica astratta e pratica accorta e spregiudicata di un mondo politico in via di assestamento, ma è un errore insistere sull'"ingenuità di Dino"; per il Del Monte (1950), il C., che era "consapevole del dualismo esistente fra lui e la realtà circostante", rappresenta, da un lato, il dualismo fra coscienza comunale e ambizione alla signoria, e, dall'altro, quello "fra un mondo religioso e un mondo areligioso"; per il Morghen (1958), "l'ispirazione religiosa domina tutta l'opera", dove si avverte un "contrasto profondo" fra "la coscienza religiosa e morale dell'autore" e "la triste realtà della vita politica della sua città", ch'egli vede "con lo stesso occhio disincantato del Machiavelli", "con un risalto tutto suo ed un peso che mai prima d'allora sembrava aver avuto", ma pur sempre "come il regno del Maligno"; per il Tartaro (1974), che corregge la lettura tutta in chiave politica del Pirodda (1967: "libro di polemica politica", scritto come "un contributo alla lotta che i Bianchi, appoggiandosi all'imperatore, conducevano per riconquistare la supremazia nella loro città"), "può accadere... che nella testimonianza del fatti "occorrenti" s'incontrino le linee più lunghe del provvidenzialismo con quelle, più brevi ma non meno marcate, che rintracciano gli umori, i problemi empirici del politico... e i dati più minuti della situazione fiorentina"; per il Bezzola (1982), la "conclamata ingenuità" del C. "si riscatta ogni tanto nel giudicare a posteriori certe azioni o nel mettere in rilievo talune sottigliezze politico-psicologiche, a cui aveva dovuto per forza avvezzarsi".

Il provvidenzialismo del C. non è senza crepe: Dio (cfr. Cronica, III, 23-24 e 37), e talvolta il Diavolo (cfr. I, 22 e III, 28), nei momenti cruciali sono soggetti attivi di storia; ma troviamo anche tracce di spiegazioni naturalistiche: "Sì come nasce il termine nel saldo pome, così tutte le cose che sono create a alcun fine, conviene che cagione sia in esse che al lor fine termini" (III, 19: sono audacie da scuole di arti). I valori morali affermati sono genericamente cristiani, e non c'è da stupirsene perché erano quelli correnti. Ma, allo stesso modo che l'etica cavalleresca rappresentava un'evidente deformazione e forzatura del messaggio evangelico, anche l'etica "popolana" - pacifista, compromissoria, legalistica e rinunciataria -, che si riflette nella Cronica, è un'involontaria caricatura di quello, il frutto di una scelta altrettanto parziale. Si è detto che il C. "identifica la sua moralità con la moralità dello stato democratico... La moralità del C. non è individuale attitudine a giudicare e drammatizzare ..." (Luzi). Per questo, la famosa "ingenuità di Dino" ha spesso qualcosa di affettato. Ha piuttosto l'aria di venire esibita come un atteggiamento che qualifica il C. e la sua parte nei confronti dei loro avversari, che di essere intimamente condivisa e vissuta: quando, al profilarsi del pericolo, frate Benedetto consiglia ai priori in carica dal 15 ottobre 1301 di fare indire dal vescovo una processione espiatoria e propiziatoria, "seguitammo il suo consiglio; e molti ci schernirono, dicendo che meglio era arrotare i ferri" (II, 13); qualche giorno dopo, il C. in persona riceve dal cancelliere e dal marescalco di Carlo di Valois il giuramento che impegna il loro signore a custodire la città e a rispettare l'autorità dei Priori, "e mai credetti che uno tanto signore, e della casa reale di Francia, rompesse la sua fede" (II, 17). Ma, altra volta, in contesti meno direttamente impegnativi, soprattutto quando si trattava di rappresentare il mondo antagonistico delle "famiglie" (le consorterie, i magnati), la regola del gioco cambia e viene invece affettata una rude e sana spregiudicatezza. Così, senza battere ciglio (Dante, almeno nel primo caso, si regola altrimenti), il C. racconta i casi degli Uberti, che, venuti a conoscenza del proposito dei loro consorti Amidei di dare una lezione a Buondelmonte de' Buondelmonti, "dissono voleano fusse morto: ché così fia grande l'odio della morte come delle ferite; cosa fatta capo à" (I, 2); del consorte del vescovo di Arezzo, che, dovendosi deliberare in merito alla proposta di fare uccidere il vescovo medesimo, "disse che sarebbe stato molto contento l'avessono fatto, non l'avendo saputo; ma essendo richiesto, non lo consentirebbe, ché non volea esser micidiale del sangue suo" (I, 8); del figlio di Boccaccio Adimari, che "tagliò la mano" a Gherardo Bordoni, dopo che era stato ucciso, "e portossela a casa sua. Funne da alcuno biasimato ..." (III, 20); di Paffiera Cavalcanti, che, raggiunto con alcuni compagni Pazzino de' Pazzi, "con una lancia gli passò le reni, e caduto nell'acqua gli segorono le vene, e fuggirono verso Val di Sieve. E così miseramente morì" (III, 40).

Un senso vago della politica come forza - come "vigore", per usare una parole che ricorre in alcuni punti nodali della Cronica - non è estraneo al C. (cfr. I, 17: "Scacciato Giano della Bella... il popolo minuto perdé ogni rigoglio e vigore"; II, 9: dopo l'entrata in Firenze del Valois, "la gente comune perdé il vigore"; II, 15: "I Neri, conoscendo i nimici loro vili e che aveano perduto il vigore, s'avacciorono di prendere la terra"). E, quando se ne dà il caso, il "buon Dino" si compiace anche di lucide analisi, serratamente politiche, del comportamenti altrui (cfr. I, 27, a proposito dei Cerchi, accusati dai loro avversari di essere pro ghibellini; e III, 39, su Betto Brunelleschi, ex ghibellino passato ai guelfi neri ormai vincitori), arrivando al punto di ascrivere a sé e ai suoi colleghi il merito di avere fatto in un caso ricorso, sia pure senza successo, al metodo, né evangelico né legalistico, del dire e disdire (cfr. II, 14 e 21: per l'avviso, fatto pervenire dai Priori ai Cerchi, di non tenere conto del generale divieto di "mettersi gente in casa" e di apparecchiarsi invece alla difesa).

Un'indicazione del De Sanctis consente di superare il punto morto delle citazioni addotte per dimostrare che nel C. non c'é solo questo o quello, ma anche dell'altro: "Dino fu il Pier Soderini di quel tempo, e fu a se stesso il suo Machiavelli". Il Del Lungo (Storia esterna..., II, pp. 379 s. e 382) ha per tempo polemizzato contro il "falso criterio" che infirma il paragone. Ma, dato per scontato che il C. non fu né, prima, un Pier Soderini, né tanto meno, poi, un Machiavelli, l'utilità dell'indicazione rimane. Essa serve ad attirare l'attenzione sulle distanze che - se non altro per il tempo che è trascorso fra il 1282-1301 e il 1310-1312 - il C. non poteva non avere preso - nel momento in cui scriveva - rispetto alle sue azioni di dieci, venti, trent'anni prima e, ancora più, rispetto all'insieme di sentimenti giudizi valutazioni pregiudizi, che le avevano ispirate. Il C. era convinto che col 1301 il suo mondo fosse crollato. Si sbagliava di grosso, ma questo non ha nessuna importanza. Come non importa, ora, lo stabilire fino a che punto contasse davvero su un suo prossimo ripristino. Si era portato dentro, per anni, il peso di quei ricordi e, se ora si decideva a scrivere il resoconto di ciò che aveva operato o visto, non era certo per fare una palinodia. Al contrario, egli intendeva ribadire la validità di una filosofia politica, che, sola, avrebbe potuto preservare Firenze dal perpetuarsi e dal ripetersi delle tribolazioni presenti. Ma, contro il suo proposito, o forse meglio, di là di ciò che si riprometteva, per il solo fatto di ripercorrere a posteriori la materia, gli accade di evidenziare una serie di controsensi, da cui gli arcani dei "popolani" e dei bianchi rischierebbero di uscire addirittura ridicolizzati, se il vigore della rappresentazione non garantisse al racconto una persistente tensione drammatica. "Il tono della cronaca", osserva a ragione il Sapegno, "non è mai comico, neppure inconsciamente". Talvolta, il C. cede alla tentazione di trarre dall'accaduto una morale universalmente valida. Come quando, registrato il fallimento degli sforzi compiuti dagli ultimi priori bianchi per difendere "la città dalla malizia de' loro adversari", conclude: "niente giovò, perché usoron modi pacifici, e voleano essere repenti e forti. Niente vale l'umiltà contro alla grande malizia" (II, 13). Ma per battere questa strada ci voleva dell'altro. Il C. è molto più efficace quando si presenta per quello che è, per quello che è restato. La sua testimonianza involontaria sulla mentalità dei "popolani" fiorentini nei decenni fra i due secoli ha un valore eccezionale. Se il Machiavelli avesse conosciuto la Cronica, i capitoli 12-24 del libro II delle Istorie fiorentine avrebbero avuto un diverso mordente (cfr. Arnaldi).

Gli storici di Firenze due-trecentesca (cfr. Salvemini, Davidsohn, Ottokar ecc.) si sono serviti e continuano a servirsi ampiamente del C. come fonte di primaria importanza per questo periodo, anche se la scelta che sta alla base della Cronica, fatta per piacere ai dantisti, non incontra, di norma, il gusto storiografico dei moderni. Una riserva al riguardo è già implicita nel proemio alle Istorie fiorentine del Machiavelli, il quale, da parte sua, come si è detto, non conosceva la Cronica. Accennando alle "notabilissime" e molteplici "divisioni", interne, che caratterizzarono Firenze nei confronti delle altre repubbliche ("Firenze, non contenta d'una, ne ha fatte molte"), il Machiavelli, infatti, crea una sequenza e opera una selezione ("in prima si divisono infra loro i nobili [guelfi e ghibellini] dipoi i nobili e il popolo [magnati e popolani] e in ultimo il popolo e la plebe [tumulto dei Ciompi]"), rispetto e in base alla quale le residue "divisioni", anche quella fra bianchi e neri, sono relegate in un canto ("molte volte occorse che una di queste parti, rimasa superiore, si divise in due").

Nel 1899, nel suo prodigioso Magnati e popolani, G. Salvemini attribuisce agli anni 1280-1295 un'"importanza fondamentale" nella storia fiorentina, capovolgendo l'impostazione del C., e dei dantisti, che tendevano a ridurli a prologo della "divisione" del 1300. Significativamente, nell'ultima pagina del libro, il Salvemini accenna al "sospetto" che, secondo la testimonianza della Cronica pseudolatiniana, gli altri magnati cominciarono a nutrire verso "la casa di Cerchi", perché costoro non erano scesi in piazza al loro fianco durante il tentativo insurrezionale del 5 luglio 1295 (una notizia che avrebbe fatto gioco al C.); "ma a questo incidente ci basti l'aver accennato; il compito assuntoci di narrare le lotte fra i partiti dal 1280 al 1295 è oramai esaurito" (Salvemini, p. 193). Assai più di recente (cfr. Raveggi-Tarassi ecc., p. 320), con una punta di dogmatismo scolastico che sarebbe certo dispiaciuta al Salvemini, si è arrivati a scrivere che "la cruenta serie di faide tra Bianchi e Neri è di fatto un conflitto "arretrato" rispetto alle lotte fiorentine che avevano caratterizzato gli anni 1280-1295".

È certamente vero che, se non fossero esistiti Dante Alighieri e il C., "l'interesse della storiografia per questo conflitto cittadino sarebbe stato molto più tepido" (ibid., p. 309). Ma viene fatto di domandarsi se la riserva espressa nella stessa sede (p. 306) a proposito dell'"egocentrismo" dei cronisti contemporanei i quali - con il C. alla testa (cfr. I, 22: "Divisesi di nuovo la città negli uomini grandi, mezani e piccolini") - vorrebbero far credere che "tutto il mondo cittadino" fosse implicato nella divisione fra bianchi e neri, mentre a dividersi fu solamente "tutto il loro mondo cittadino... cioè tutto il mondo degli aristocratici, dei ricchi mercanti, ecc.", non debba essere fatta valere anche per il quindicennio 1280-1295, salvo, beninteso, la parentesi costituita dal biennio 1293-94, la cui peculiarità il C., per conto suo, non manca di sottolineare, con animo di spettatore, entro certi limiti, anche partecipe e solidale (cfr. I, 11-18).

Abbastanza vicino al C., non certo nell'attenzione rivolta in prevalenza alla divisione del 1300, bensì per ciò che concerne i due punti tutt'altro che marginali della continuità della storia fiorentina della fine del sec. XIII e dell'inizio del XIV e della straordinarietà, rispetto a questo periodo preso nel suo insieme, del "movimento popolare degli anni 1293-1294", inteso come "reazione delle masse anonime delle Arti (maggiori come minori) contro i costumi politici e la pratica di governo dell'oligarchia dirigente", è invece Nicola Ottokar (p. 285), di là delle enormi differenze di impostazione e consapevolezza storiografica, così ovvie che non mette conto parlarne. Ma è evidente che la cura impiegata dal C. nel precisare, caso per caso, i motivi che spinsero i maggiori magnati e popolani a schierarsi con i Cerchi o con i Donati, e l'importanza data alle strategie matrimoniali dei grandi casati (I, 3 e 20) o alla fenomenologia, in genere, delle unioni matrimoniali stipulate nel caldo dei conflitti, venendo a costituire altrettante indicazioni concrete a favore della bontà di quel metodo prosopografico che all'Ottokar sembrava essere la chiave che apriva tutte le porte, erano fatte per conciliare al cronista trecentesco le simpatie dello storico russo. Questi poteva rimproverargli di peccare di "anacronismi" nel considerare gli anni 1282-1292 "colla mentalità di un uomo dei tempi di Giano della Bella", col risultato di vedere "nella realtà fiorentina di quel decennio una mutilazione dell'idea stessa del Priorato", ma, a parte questo suo senso di delusione che sarebbe stato ingiustificato, riconosce che il C. rappresenta le cose com'erano o, se si preferisce, come a lui, Ottokar, sembrava che fossero, in contrasto con gli schematismi di chi si ostinava a ipotizzare i "magnati" e i "popolani" schierati costantemente nell'intero periodo su due fronti contrapposti: "L'impotenti non erano aiutati, ma i grandi gli offendevano, e così i popolani grassi che erano negli ufici e imparentati con grandi... Onde i buoni cittadini popolani erano malcontenti, e biasimavano l'uficio de' Priori, perché i Guelfi grandi erano signori" (I, 5; Ottokar, pp. 25, 66).

Il C. è anche autore di rime: 1) un sonetto semplice a Guido Guinizzelli (casistica amorosa); 2) un sonetto doppio a Lapo Saltarelli (quesito, per burla, di diritto matrimoniale); 3) un sonetto doppio a un maestro Gandino (soggetto naturalistico: ottica); 4) un sonetto semplice (soggetto amoroso); 5) un sonetto doppio a Guido Cavalcanti (il più interessante: il C. lo spinge a valersi della nuova norma del 6 luglio 1295, che, correggendo gli Ordinamenti del 1293, stabiliva che, per essere considerato come artefice e venire, quindi, ammesso al godimento dei benefici connessi con tale qualifica, non era più necessario l'esercizio reale e personale di un'arte, ma bastava iscriversi nella matricola di una qualsiasi delle arti); 6) una "canzone morale" sul modo in cui gli uomini acquistano pregio (il pretz dei provenzali, inteso come perfezione del valore e della lode) nei diversi stati e gradi sociali: il "pregio" non si acquista per retaggio ma per sforzo di perfezione individuale; gli stati illustrati sono undici (imperatore, re, barone, rettore [podestà], cavaliere, donzello [aspirante cavaliere], giudice, notaio, medico, mercante, orafo); la canzone è incompiuta: mancano altre condizioni umane; notevole, in ogni modo, l'assenza degli ecclesiastici (cfr. l'edizione della Canzone del pregio ["Amor mi sforza e mi sprona valere"], a cura di N. Sapegno, in Poeti minori del Trecento, Milano-Napoli 1952, pp. 282-288). Le rime del C., che risalgono al periodo precedente al 1300 (per la canzone, 1300-1302), sono giudicate di scarso valore, perché di stretta imitazione provenzale. Esse si situano comunque ancora al di qua della svolta del "dolce stil nuovo". Di diverso avviso risulta essere stato il contemporaneo Francesco da Barberino, che, nel 1296, in una delle chiose ai Documenti d'amore, pone il C. accanto a Jacopo da Lentini, Guittone d'Arezzo, Cino, Dante e Cavalcanti. A sostegno dell'attribuzione al C. del poema in nona, rima l'Intelligenza (trecentonove strofe), attestata da una postilla, oggi illeggibile, in uno dei due manoscritti che lo tramandano, non è stato finora addotto "nessun argomento veramente persuasivo" (Sapegno, in Poeti minori..., pp. 633 s.; cfr. ibid., pp. 635-655, per excerpta del poema, e p. 1150, per la bibliografia).

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