DIONE Cassio Cocceiano

Enciclopedia Italiana (1931)

DIONE Cassio Cocceiano (Δίων ὁ Κάσσιος ὁ Κοκκηϊανός; Cassius Dio Cocceianus)

Gaetano Mario Columba

Senatore e storico greco di Roma, del sec. II-III d. C. Apparteneva a una nobile famiglia della Bitinia, forse quella stessa da cui era uscito Dione Crisostomo, che aveva portato per primo il cognome di Cocceiano, dal suo protettore Cocceio Nerva. Il nostro D. nacque a Nicea (Isnik), intorno ai primi anni dell'impero di Marco Aurelio, e certo non dopo il 165 d. C. Suo padre, Cassio Aproniano, era uno di quegli asiatici che sotto Marco raggiunsero le più alte cariche dell'Impero: fu proconsole della Cilicia, ed ebbe anche il governo della Dalmazia. D., dopo di essere stato col padre in Cilicia, passò a Roma, dove iniziò la sua carriera politica. Tutto fa credere che egli fosse già entrato in Senato nel 180, quando Commodo tornò a Roma, come successore del padre; certo è tra i senatori qualche anno dopo, e assiste con essi agli spettacoli e alle feste date da questo imperatore. Prese parte alla seduta del Senato in cui venne condannata la memoria di Commodo ed eletto a successore Pertinace. Questi gli era amico, e lo designò alla pretura. Negli avvenimenti che seguirono,D. parteggiò per Severo, ed ebbe forse da lui il primo consolato, da sostituto. Nel 216-217 fu con Caracalla in Nicomedia, e da Macrino, succeduto a Caracalla, fu incaricato di reggere l'amministrazione di Pergamo e di Smirne (218-219). La carriera di D. fece un balzo sotto Severo Alessandro: egli ebbe successivamente il proconsolato di Africa, il governo della Dalmazia, come il padre, e quello della Pannonia superiore (tra il 224 e il 227). In ultimo, nel 229, ottenne l'onore di rivestire per la seconda volta il consolato, e da ordinario, insieme con l'imperatore. Fu il culmine e a un tempo il termine della sua carriera. Egli era stato tra quelli che dopo le riforme di Alessandro avevano creduto sul serio alla ristabilita preminenza del potere civile sul militare, e per la sua severità si era attirata l'ira dei soldati. L'uccisione di Ulpiano era stata un ammonimento. D. non si sentì il coraggio di trascorrere l'anno del consolato a Roma, e, dopo breve soggiorno in Campania, essendo anche sofferente di podagra, ottenne il permesso di tornare alla nativa Bitinia.

A D. vengono attribuite nel lessico di Suida opere che certamente non gli appartengono: due di esse, almeno (la Storia dei Persiani e la Storia dei Geti) gli sono manifestamente attribuite per un equivoco di nome; così probabilmente è per altre due (la Storia di Traiano e la Biografia dî Arriano). L'opera a cui è legata la fama di D. è la sua Storia di Roma (‛Ρωμαϊκὴ ἱστορία), opera che si componeva di 80 libri, divisi per decadi, e dall'arrivo di Enea nel Lazio giungeva sino al 229 d. C., anno del secondo consolato dell'autore. Sventuratamente, quest'opera subì, al pari di altre, la conseguenza della sua mole, e andò in gran parte perduta. Già nel sec. XI non era facile trovarne un esemplare completo. A noi sono pervenuti più o meno interi 25 libri (XXXVI-LX) che vanno dal 69 a. C. al 47 d. C., oltre a una parte degli ultimi libri (LXXVIII e LXXIX ovvwo LXXIX e LXXX), che parlano degli anni 216-219. Di tutto il rimanente, non ci restano che frammenti, conservati principalmente fra gli Estratti costantiniani e in altri florilegi medievali. A compensarci almeno in parte della perdita, valgono i compendî che furono fatti nel sec. XI da Sifilino (da Pompeo a Severo Alessandro), e nel secolo seguente da Zonara (parte dell'età repubblicana e l'età imperiale).

Dell'occasione che indusse D. a dedicarsi alla composizione di questa opera, parla egli stesso in un luogo che ci è conservato nell'epitome di Sifilino, e ha dato luogo a interpretazioni diverse. Sappiamo in ogni modo che D. scrisse da prima un opuscolo, in cui erano raccolti i sogni e i portenti che avevano preannunziato l'impero a Settimio Severo; indi compose la storia dei rivolgimenti e delle guerre che seguirono la morte di Commodo. Poiché anche quest'opera, come già la prima, ebbe l'approvazione dell'imperatore, egli prese animo a comporre una grande storia di Roma, che dalle origini scendesse sino ai suoi tempi. Questa opera gli richiese dieci anni per la raccolta dei materiali, e dodici per la compilazione. La seconda opera scritta da D. comprendeva, a quanto si può arguire, gli avvenimenti degli anni 193-197, sino alla disfatta di Albino: essa dovette essere composta rapidamente, in pochi mesi, cosicché Severo poté vederla prima di partire per l'Oriente. Nulla si oppone pertanto a credere che il disegno di scrivere la grande storia fosse già concepito verso l'inizio del 198; non si può andare, in ogni modo, oltre il 199. L'opera fu così compiuta nel 219, o, al più tardi, nel 220. Essa giungeva allora sino alla morte di Severo (211). Ma D. aveva il proposito di continuare il suo lavoro sin dove gli era concesso, e sotto Alessandro, nel 222 o 223, lo riprese per portare la narrazione sino alla morte di Elagabalo. In ultimo, quando tornò in Bitinia, aggiunse una narrazione sommaria dell'impero di Alessandro, sino al 229, l'anno in cui aveva lasciato Roma e l'Italia. In quel che ci resta di quest'ultima parte non si fa alcun accenno alla fine di Alessandro; ma vi si parla della minaccia di Artaserse contro i territorî romani d'Asia come di cosa già passata; il che mostra che D. scriveva nel 233, o, al più presto, sul finire del 232. In Bitinia, per altro, D. non pensò semplicemente ad aggiunger la storia degli ultimi anni, ma a rivedere tutto quanto il suo lavoro. La distribuzione dell'opera in 80 libri dev'esser nata allora, in seguito a questo ultimo rimaneggiamento. Ciò risulta da indizî sicuri. Che la parte relativa all'impero di Alessandro non fosse che una specie di appendice, attaccata in coda all'opera, come si è anche supposto, non riesce molto verosimile. E d'altra parte, è ovvio che D. deve aver ritoccati i suoi giudizî e i suoi colori dove parlava degl'imperatori del suo tempo, specialmente di Settimio Severo.

D. ha seguito nella narrazione l'ordinamento annalistico, che però non viene sempre osservato, e in qualche libro della quinta decade è anzi gravemente sconvolto. Quali siano state le fonti di cui egli si valse nel corso del lavoro, è difficile ad accertare per varie ragioni, ma principalmente perché si ha da fare in gran parte con testi frammentarî o abbreviati, così da parte del nostro autore come degli altri scrittori da mettere a confronto. Secondo l'uso più comune fra gli antichi, D. non s'è curato d'informarci degli autori a cui attingeva; e in due casi, in cui si trova allegata l'autorità di Plutarco, non è sicuro che la citazione provenga da lui. Due scrittori romani furono di certo largamente compulsati: Livio e Tacito. Ma oltre a essi, D. ne tenne sott'occhio altri e forse anche qualcuno di cui Livio e Tacito si erano giovati. È notevole tuttavia che nell'ampia narrazione delle guerre galliche di Cesare, D., anzi che attingere direttamente ai commentarii, mostri di seguirle sulle orme dell'opera di Livio. A partire dalla morte di Marco Aurelio (180), D. non ha più bisogno di affidarsi ad altre fonti: egli diventa testimonio diretto degli avvenimenti, ed entra nel campo della storia contemporanea, con la quale aveva cominciato. E non ha lasciato di avvertirlo: "narro queste cose e quelle che seguono - ha scritto a principio dell'età di Commodo - non più per tradizione altrui, ma per conoscenza mia personale". L'ultimo mezzo secolo della sua storia è formato perciò di memorie, e ha in questo un carattere che la distingue da tutta la parte precedente.

Nell'introduzione dell'opera D. dichiarava che avrebbe, sì, cercate le eleganze dello stile e le frasi ornate, ma rassicurava che questo non sarebbe avvenuto a spese della verità storica. Le eleganze, D. le ha cercate principalmente nell'imitazione di Tucidide, il canone della prosa storica della seconda sofistica. Egli è purista, ma come e finché può, senza metterci soverchio zelo. Conserva denominazioni geografiche antiche, usa la voce Celti per dire i Germani, ma scrive Germania quando deve indicare le due provincie romane, e segue in tutto la nomenclatura amministrativa dell'Impero; non esita a introdurre forme latine, quando deve designare istituzioni che non trovavano il vocabolo rispondente in greco. Così parimenti, segue anche nella nomenclatura dei mesi il calendario romano, che per altro andava facendosi strada sempre più anche nei paesi ellenizzati.

Date le idee che correvano fra gli antichi in materia di storiografia, D. non poteva essere accusato troppo di non aver mantenuta la promessa che aveva fatta riguardo alla fede storica. Promesse di quel genere stavano regolarmente a capo d'ogni opera di storia in cui si mirava a fare sfoggio di bello stile. D. usò i calamistri come gli altri e non meno degli altri, e mise in opera gli amminicoli e i tecnicismi chê erano norma riconosciuta per chi volesse comporre una storia che avesse pregio letterario. Foggia a suo modo i discorsi dei varî personaggi, ora togliendo qualche spunto dalle fonti, ora creandoli di sana pianta; descrive battaglie manipolando i dati della tradizione con concetti convenzionali e luoghi comuni; schiva, sin dove gli è possibile, i nomi e le date, sebbene registri scrupolosamente, sino ai mesi e ai giorni, la durata di ciascun impero; e col proposito d'illustrare, com'egli dice, gl'intenti coi fatti e di risalire dai fatti agl'intenti, cerca spiegazione di tutto, anche di ciò che non ne ha bisogno, con un pragmatismo arbitrario e affaticante.

Non pare, da quel che ci rimane, che D. abbia avuto senso per il movimento religioso del suo tempo. Apollonio di Tiana, cui la casa di Severo tributava onori di semidio, rimaneva per D. un mago. Un altro mago, l'egiziano Arnufi, avrebbe procurato all'esercito romano assetato una pioggia miracolosa, dovuta invece, secondo la tradizione cristiana, alle preghiere dei legionarî credenti. È dubbio che D. abbia nominato mai nella sua storia i cristiani, nonostante un passo che gli editori si ostinano a pubblicare come proprio del nostro autore. Egli crede, come tutti, oltre che alla magia, all'astrologia, ai portenti e ai ogni. E ci crede a occhi aperti. La sua attività letteraria si era iniziata, come s'è veduto, con una raccolta di portenti e di sogni, di cui era manifesto lo scopo politico. E tutta quanta la sua opera storica avrebbe avuto origine da incitamenti che D. riceveva in sogno dal suo daimonion, che gli prescrisse persino i versi di Omero da porre alla chiusa del lavoro.

Da senatore qual era, D. doveva possedere la preparazione necessaria a cogliere il lato politico dei fenomeni storici, e la sua opera, in effetto, ce ne dà buone prove. Tuttavia, bisogna tener conto anche in questo della parte che va dovuta alle fonti. Se dobbiamo giudicare dall'epitome che ci rimane, negli ultimi libri in cui D. raccoglie mezzo secolo di memorie, non c'era più che la cronaca di Roma, o meglio, della corte imperiale. Forma eccezione, in qualche modo, l'età di Severo; e questo potrebbe far credere che l'aridità della cronaca fosse anche nell'epitomatore. Certo D. aveva coscienza che le descrizioni di spettacoli su cui si dilungava, offendevano la dignità della storia, ma se ne giustificava osservando che si trattava di cose in cui era protagonista la persona dell'imperatore, e di cui egli stesso era stato testimone. Ed è una cronaca che non rifugge dal raccogliere anche l'ignominioso e il turpe. Dell'attività del Senato stesso, noi troviamo principalmente menzionato quello che toccava le persone, e troviamo poco di quel che riguarda lo stato. È da notare comunque che l'epitome di D. ci dà un quadro della vita di Roma, che non potrebbe essere altronde ricostruito in modo più efficace e sicuro. E da queste memorie appunto si rivela principalmente la personalità politica e morale di D.; personalità che non si solleva gran fatto da quella mediocrità che da lungo tempo appare come la caratteristica della maggioranza del Senato romano. D. era partigiano di un impero in toga, come quello che Pertinace aveva fatto sperare e Alessandro cercò di attuare. Dinnanzi all'ostilità minacciosa degli altri imperatori, D. si confonde nella folla dei colleghi, non dissimula la paura, applaudisce con loro e con loro ingiuria e condanna, secondo l'occasione. Deplora nella sua opera la degradazione della maestà imperiale, e soprattutto in Nerone, perché ivi riprende la parola delle sue fonti; ma nel suo linguaggio c'è ben poco che ci faccia sentire l'anima romana, come la sentiamo negli scrittori latini, anche meno grandi di Livio e di Tacito. L'opera di D. fu il testo massimo della storia di Roma nel mondo bizantino; e, data la perdita di tanta parte dell'antica letteratura storica, riesce preziosa.

Manoscritti ed edizioni: Il manoscritto più antico è quello che contiene gli avvenimenti del 216-219 (Vaticano greco 1288, del sec. V o VI); gli altri, contenenti i libri XXXVI-LX, sono di molto posteriori.

Edizioni critiche recenti: (Dindorf) Melber, Lipsia 1890-1928, voll. 3 (incompiuta); U. Ph. Boissevain, H. Smilda, W. Nawijn, Berlino 1895-1931, voll. 5. Il cod. vat. fu riprodotto in fac-simile a Lipsia nel 1908.

Bibl.: H. S. Reimarus, De vita et scriptis Dionis, nella sua edizione di D. C., Amburgo 1750-51, II, p. 1533 segg.; lavoro degno sempre di essere ricordato; E. Schwartz, Cassius Dio Cocceianus, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, col. 1684 segg.; A. Wirth, Quaestiones Severianae, Lipsia 1888 (cronologia degli scritti); R. Ferwer, Die polit. Anschauungen d. C. D., Gross-Glogau 1878; I. B. Ullrich, Über die Latinismen d. C. D., Norimberga 1912; G. Vrind, C. D. Vocabulis quae ad ius pubblicum pertinent, L'Aia 1923; C. Wachsmuth, Einleitung in d. Studium d. alt. Gesch., Lipsia 1895, p. 596 segg.; Litsch, De C. D. imitatore Thucydidis, Friburgo in B. 1893; E. Kyhnitzsch, De contionibus quas C. D. historiae suae intexuit cum Thucydideis comparatis, Lipsia 1894.

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