DIONISIO o Dionigi di Alicarnasso

Enciclopedia Italiana (1931)

DIONISIO o Dionigi (Διονύσιος, Dionysius) di Alicarnasso

Plinio Fraccaro

Storico e retore greco del secolo di Augusto. Della sua vita abbiamo poche notizie sicure, riferiteci da lui stesso: che era figlio di un tale di nome Alessandro; che venne a Roma appena terminata la guerra civile tra Ottaviano e Antonio e cioè dopo la battaglia di Azio, nel 30 a. C.; che in Roma rimase almeno ventidue anni, nei quali apprese la lingua latina, preparò e compose la Storia antica di Roma: la quale, finita l'8, fu pubblicata o l'8 o il 7 a. C. (cfr. Ant. Rom., I, 7). Quando nacque non sappiamo: possiamo congetturare, all'incirca, verso il 60. E nemmeno quando morì: ma poiché di una sua attività letteraria posteriore al 7 non abbiamo notizie, se non che compose un estratto della sua storia medesima, oggi perduto, e si sa anche che fu di salute cagionevole; è probabile che dopo il 7 sia vissuto poco tempo, e che dunque sia morto poco più che cinquantenne. Pertanto, il massimo della sua attività si svolse negli anni che egli fu a Roma: dove, oltre la storia antica, compose contemporaneamente le altre sue opere di retorica e critica letteraria. E la sua vita fu una vita di letterato, esclusivamente dedicata agli studî e all'insegnamento. Che egli avesse una vera e propria scuola pubblica non pare: ebbe scolari privati, a taluno dei quali dedicò alcune delle opere retoriche che veniva pubblicando.

Opere retoriche. - Una determinazione cronologica delle opere retoriche di D. è stata più volte e variamente tentata; i resultati più probabili riguardano le relazioni cronologiche di questi scritti fra loro, le quali è possibile argomentare da richiami espliciti o impliciti. In questo senso, la loro serie può essere così costituita:

Lettera prima ad Ammeo (Πρὸς 'Αμμαῖον ἐπιστολή, Epistula ad Ammaeum I). - Un filosofo peripatetico aveva sostenuto che se Demostene era stato così grande oratore, i precetti della Retorica di Aristotele avevano educato il suo ingegno e formata la sua arte. D. vuol dimostrare che ciò è falso e dopo varie argomentazioni conclude che in genere non l'oratore deriva la sua arte dai precetti retorici, bensì derivano questi dallo studio degli oratori. Questo scritto fu e rimane un contributo notevole alla cronologia delle orazioni di Demostene e della vita di Aristotele. Fonte delle notizie storiche è Filocoro, di cui sono citati più luoghi; della vita di Aristotele la cronaca di Apollodoro. Chi fosse Ammeo non sappiamo; probabilmente un greco. A lui è dedicato anche lo scritto.

Sugli antichi oratori (Περὶ τῶν ἀρλαίων ῥητόρων, De antiquis oratoribus). - Era in due libri; il primo, su Lisia Isocrate e Iseo, ci è rimasto intero; del secondo, su Demostene, Iperide e Eschine, certamente scritto e pubblicato (cfr. De Dinarcho,1, pp. 629-30), ma più tardi e con più largo disegno, c'è rimasto solo lo scritto su Demostene. L'introduzione, vivacissima, possiamo dire che è il manifesto dell'atticismo. Seguono tre capitoli su ciascuno dei tre oratori. Lo schema su per giù è il medesimo: dapprima brevi notizie biografiche; poi giudizî sullo stile; infine assai larghe citazioni dall'oratore studiato per meglio chiarirne il giudizio. Si deve a queste citazioni se di Lisia abbiamo per intero l'orazione contro Diogitone, un largo frammento dell'Olimpico, e un altro di un discorso deliberativo sulla restaurazione della democrazia in Atene dopo la cacciata dei Trenta; e di Iseo, oltre frammenti minori, buona parte dell'orazione per Eufileto. Lo scritto intorno a Iseo è condotto, massime per la parte relativa allo stile, su una assai precisa comparazione tra Iseo e Lisia: iniziandosi perciò, nella critica letteraria, quel metodo comparativo, assai lodato anche da D. (Ep. ad Pomp.,1, pp. 753-4) che si sviluppò in seguito così ampiamente. In genere possiamo dire che i giudizî sullo stile muovono da presupposti retorici la cui fonte è principalmente il Περὶ λέξεως di Teofrasto: sono quasi sempre assai fini, come l'analisi delle caratteristiche fondamentali dello stile di Lisia.

Sulla disposizione delle parole (Περὶ συνϑέσεως ὀνομάτων, De compositione verborum). - Di questi scritti retorici è quello che meglio rivela la maturità mentale di D. e insieme dimostra quali sviluppi poteva raggiungere la critica letteraria. È dedicato a un tal Rufo Metilio, suo giovane scolaro. Introduzione (I-V): Premesso che lo stile di uno scrittore deve essere studiato così riguardo al pensiero come riguardo all'espressione, e che l'espressione, a sua volta, deve essere studiata cosi nella scelta delle parole (ἐκλογή) come nella loro reciproca combinazione e disposizione (σύνϑεσις), D. dichiara di limitare a quest'ultima ricerca il suo studio presente. La σύνϑεσις è come l'Atena di Omero, capace di trasformare Odisseo da un vecchio mendico miserando in un principe di meravigliosa e giovanile bellezza. Né il miracolo di cotesta σύνϑεσις si produce, nelle scritture, con un ordinamento logico-grammaticale. Prima parte (VI-XX): Qui comincia la vera e propria teoria della composizione. Primo, bisogna vedere quali parti del discorso (nomi, verbi, ecc.), e in che forma (caso, genere, numero, modo, tempo ecc.), e con quali modificazioni (elisione, iato ecc.) si congiungano più armonicamente tra loro nella proposizione; e poi quali proposizioni, e anche queste in che forma e con quali mutamenti (asseverative, interrogative, ecc., scorciate o allungate ecc.) si congiungano più armonicamente tra loro nel periodo (VI-IX). Ma con che mezzi la composizione letteraria può raggiungere insieme bellezza e piacevolezza (τὸ καλόν, ἡ ἡδονή)? Con questi quattro: melodia, ritmo, varietà e proprietà. Ciascuno di questi elementi è esaminato in sé stesso e in relazione al linguaggio: analizzando e definendo di volta in volta luoghi di poeti e di prosatori (X-XX). Qui nasce un nuovo problema. Seconda parte (XXI-XXIv): Dal diverso uso e dalla diversa scelta e combinazione e prevalenza degli elementi sopra detti, nascono le tre specie di composizione o armonie dello stile: armonia austera (σύνϑεσις o ἁρμονία αὐστηρά): esempî, Empedocle, Pindaro, Eschilo, Tucidide, Antifonte; armonia molle o fiorita (γλαϕυρά ο ἀνϑηρά): esempî, Esiodo, Saffo, Euripide, Eforo, Isocrate; e armonia intermedia (κοινή): esempî, Omero, Alceo, Sofocle, Erodoto, Platone, Demostene. La triplice distinzione è probabilmente di fonte peripatetica. Seguono (XXV-XXVI) alcune considerazioni sui rapporti tra prosa e poesia. Come può la prosa somigliare alla poesia? In quanto sia anch'essa metrica e ritmica e melodiosa, pur senza essere in versi, e cioè senza essere poesia vera e propria. Tale problema fu poi fecondissimo presso gli studiosi moderni di ricerche innumerevoli sul ritmo e sulle clausole della prosa antica (cfr. E. Norden, Die antike Kunstprosa, Lipsia 1898). D. anche si domanda come può la poesia somigliare alla prosa: il che gli dà occasione di esaminare un largo frammento dell'ode a Danae di Simonide. Il quale, come l'ode di Saffo ad Afrodite, il principio di un ditirambo di Pindaro, un frammento di Bacchilide, un altro del Telefo di Euripide, ci sono stati conservati da questo trattato di Dionisio.

Sullo stile di Demostene (Περὶ τῆς Δημοσϑένους λέξεως, De admirabili Demosthenis dicendi vi). - Scritto ampio, un po' ineguale, ma ricco, e giustamente considerato come uno dei testi più preziosi della critica antica. È mutilo nel principio, che forse conteneva cenni sulla vita di Demostene. Dopo un'introduzione (I-VIII) in cui sono esaminati generalmente i tre diversi generi di stile, D. studia più particolarmente il problema dello stile di Demostene, comparandolo via via con quello degli scrittori che meglio rappresentino ciascuno un diverso genere; e così, per lo stile sublime, paragona Demostene a Tucidide (IX-X); per lo stile piano, lo paragona a Lisia (XI-XIII); per lo stile misto o composito, che è, per l'oratore, il più perfetto stile in quanto si può dirigere egualmente e intelligentemente a tutti gli uditori, colti e non colti (XIV-XV), lo paragona prima a Isocrate (XVI-XXII) e poi a Platone (XXIII-XXXII). Ma Platone è considerato come oratore e guardato specialmente nel Menesseno; e perciò il giudizio su Platone tanto è famoso quanto è ingiusto e parziale. Riassunto il precedente (XXXIII-XXXIV), sono esaminati ora, relativamente a Demostene, i tre modi di composizione che D. aveva già studiati nel De compos. verb., concludendo che Demostene li fonde mirabilmente tutti e tre (XXXV-LII). Questo scritto è probabile fosse il primo del secondo libro del De antiquis oratoribus; ma, più ampio come esso è di tutto intiero quel primo libro, rivela certamente, come dicemmo, un diverso e più maturo disegno. Testi frammentarî notevoli e a noi noti solo per questo scritto di D.: da un'orazione politica di Trasimaco; da un iporchema di Pindaro; da un'orazione di Lisia contro Tiside.

Sull'imitazione (Περὶ μιμήσεως, De imitatione). - scritto in tre libri, oggi quasi del tutto perduto. Del primo libro ci restano cinque frammenti, ai quali è certo da aggiungere il primo capitolo dell'estratto che sarà ricordato più avanti. Trattava dell'imitazione in genere, la quale non ha che far niente con la mimesi, diciamo, aristotelica, principio del poetare; bensì riguarda solo l'imitazione degli scrittori per divenire appunto buoni scrittori e particolarmente buoni oratori. Il secondo libro esaminava quali scrittori e perché si debbano considerare come modelli da imitare. Ce ne rimangono: un lungo brano citato letteralmente da D. nella sua lettera a Pompeo, dal cap. III fino alla fine; un assai largo e fedele estratto, forse di un neoplatonico del sec. IV; e altri pochi frammenti. Qui D., degli scrittori proposti all'imitazione, esaminava prima i poeti, epici lirici tragici e comici; poi i prosatori, storici e oratori. La parte relativa agli storici è quella che ci rimane conservata da D. stesso: vi si definiscono gli uffici dello storico; e alla stregua di queste definizioni sono comparati tra loro Erodoto con Tucidide (dove Tucidide è valutato con spirito assai gretto), Senofonte con Erodoto e con Tucidide, Filisto con Tucidide, Teopompo con Isocrate. Questo libro fu fonte del libro X di Quintiliano; ma non unica; perché questo e quello, e la XVIII orazione di Dione Crisostomo, e altri scritti analoghi, derivano insieme da fonti più antiche e probabilmente dal canone alessandrino. Il terzo libro era ancora incompiuto quando D. lo interruppe per scrivere la lettera a Pompeo: trattava del come si deve imitare. Non se ne ha alcun frammento.

Lettera a Gneo Pompeo Gemino (Πρὸς Πομπήϊον Γέμινον ἐπιστολή, Epistula ad Pompeium). - Questo Pompeo è probabilmente un Greco, e grammatico, affrancato dal grande Pompeo. Costui, insoddisfatto del giudizio che D. aveva dato dello stile di Platone nel secondo libro sugli antichi oratori, ne scrisse a D.; e D. risponde. Nei primi due capitoli D. ribatte, conferma e giustifica codesto suo giudizio. Domandandogli anche Pompeo che cosa egli pensasse di Erodoto e Senofonte, D. gli risponde (cap. 36), riproducendo parte del secondo libro De imitatione.

Su Dinarco (Περὶ Δινάρχου, De Dinarcho). - Sappiamo solo che, cronologicamente, è posteriore ad ambedue i libri sugli antichi oratori. A Dinarco erano attribuite, nei cataloghi alessandrini e pergameni, orazioni ragionevolmente sospette. Dalla orazione contro Prosseno (la quale è strano che a questo proposito non fosse mai stata esaminata prima) D. determina alcuni dati cronologici sulla vita e l'attività oratoria di Dinarco; esamina quindi, in sé stesso e in relazione a oratori precedenti, il suo stile: da questi due punti procede a una quadruplice classificazione: orazioni pubbliche, autentiche e non autentiche; private, autentiche e non autentiche. Risultano autentiche 60 orazioni; non autentiche 27: ma l'ultima lista delle orazioni private non autentiche, con cui finisce lo scritto, è mutila e non sappiamo quante ce ne fossero ancora. È scritto di speciale importanza: né solo per lo speciale contributo che reca alla conoscenza di Dinarco; ma anche perché ci scopre quale era, prima di D., questa critica dell'autenticità; e ci induce a guardare con molta cautela i cataloghi alessandrini e pergameni, massime degli oratori e delle orazioni.

Su Tucidide (Περὶ Θουκυδίδου, De Thucydide). - E dedicato a Quinto Elio Tubezone, il noto storico e giureconsulto. Parrebbe scritto di seguito al De imitatione. E in verità anche qui la preoccupazione di D. è di vedere fino a che punto l'imitazione di Tucidide possa essere utile agli oratori; tanto più considerando la fama di Tucidide allora grandissima, e la smania d'imitarlo largamente diffusa. Perciò l'argomento era di grande interesse e motivo di vivaci dispute nella critica contemporanea. I capitoli introduttivi ci descrivono appunto questo atteggiamento di difesa di D. verso coloro ai quali i suoi giudizî in proposito erano sembrati troppo severi (I-IV). Divide il suo scritto in due parti: una relativa al contenuto (V-XX), una relativa allo stile (XXI-XLIX). Per il contenuto, dopo discorso genericamente degli oratori precedenti (importante il cap. V sui logografi), la sua critica muove da tre punti: distribuzione dei fatti (διαίρεσις), cioè quella distribuzione annalistica per estati e per inverni che raccoglie insieme fatti diversi e lontani e toglie al racconto chiarezza e unità (IX); ordinamento (τάξις), per cui, tra l'altro, la storia di Tucidide incomincia e finisce dove non bisognerebbe, e si confondono e si spostano della guerra peloponnesiaca cause vere e cause non vere ecc. (X-XI); sviluppo del racconto (ἐξεργαρια), ora sovrabbondante ora scarso, onde, p. es., non è giustificata la famosa orazione funebre di Pericle, e altri difetti di proporzione tra le varie parti (XII-XX). Per lo stile, dopo considerazioni generali già note (XXI-XXIV), distingue ed esamina lo stile dei racconti (XXV-XXXIII), dei dialoghi (XXXIV-XLI), delle orazioni (XLII-XLIX); osservando che spesso Tucidide è oscuro, arcaicizzante, sforzato, ineguale, non facile a intendersi. Conclude sulla difficoltà d'imitarlo, e che l'unico oratore che abbia saputo trarne qualche profitto è Demostene (L-LV).

Seconda lettera ad Ammeo (Πρὸς 'Αμμαῖον ἐπιστολή, Epistula ad Amameum II) su certe caratteristiche dello stile di Tucidide. - vi si studiano più minutamente alcuni particolari dello stile tucidideo.

Scritti retorici perduti. - Di taluni già fu fatto cenno. Uno scritto sulla scelta delle parole (Περὶ τῆς ἐκλογης ὀνομάτων), promesso da D.; se poi sia stato scritto realmente o si sia perduto, non sappiamo. Un altro Sulle figure (Περὶ σχημάτων) è attestato da Quintiliano. Uno Sulla filosofia politica contro coloro che la offendono ingiustamente (Περὶ τῆς πολιτικῆς ϕιλοσοϕίας πρὸς κατατρέχοντας αὐτῆς ἀδίκως) è attestato da D. (De Thucyd, 2, p. 814): filosofia politica è la retorica nel più compiuto senso isocrateo; e la polemica è diretta contro gli Epicurei, più particolammente, pare, contro Filodemo. A Dionigi fu anche attribuita a torto una Τέχνη ῥητορική in sette capitoli, tarda compilazione di un retore non anteriore al sec. III d. C.M.V.

L'opera storica. - Andato nel 30 a. C. a Roma, D. si accinse a scrivere una grande opera storica, che fosse un modello di stile classico e nello stesso tempo un manuale completo di storia insieme e di sapienza politica, o filosofia pratica come egli diceva (cfr. I, 8; XI,1), e non, come l'opera di alcuni (Tucidide), solo una storia di guerre, o di altri (Aristotele, Polibio nel VI libro), solo una esposizione di costituzioni politiche, o di altri ancora (gli Attidografi), pura cronaca annalistica (I, 8). Egli scelse per argomento la storia romana dalle origini all'anno 264 a. C., in cui ebbe inizio la prima guerra punica, dalla quale si rifacevano le storie di Polibio: nessuna grande storia greca esisteva per questo periodo (I, 5). L'argomento poi, come voleva la sua teoria retorica (I,1-3), era nobilissimo, degno di storia. Così, dopo ventidue anni di permanenza a Roma e di continue ricerche storiche (I, 7), D. pubblicò nell'anno 7 a. C. i venti libri della sua ‛Ρωμαικὴ ‛Αρχαιολογία (Storia antica di Roma). Secondo i suoi principî teorici sulla storiografia, che egli aveva svolto in scritti di critica, come quello su Tucidide, e nella lettera a Pompeo (v. sopra), l'essenziale in un'opera storica era per D. l'elemento retorico; ma egli non risparmiò fatiche per dare alla sua storia ricchezza di contenuto, e studiò o consultò un numero rilevante di autori greci e latini (egli aveva imparato a Roma il latino: I, 7), considerò con particolare interesse la storia della costituzione e della legislazione romana (I, 8) e approfondì le questioni cronologiche, alle quali dedicò uno scritto speciale, da lui stesso citato a I, 74. Della sua storia giunsero a noi i primi dieci libri interi e l'undecimo con lacune; degli altri abbiamo solo gli excerpta che ne fece fare Costantino Porfirogenito e frammenti d'un compendio scoperti da A. Mai in un codice dell'Ambrosiana.

Il primo libro espone la preistoria e la fondazione di Roma, e in esso D. si sforza di provare che i progenitori dei Romani erano Greci, e semigreca, in gran parte identica al dialetto eolico, la loro lingua (cfr. I, 5, e 89-90). A torto quindi alcuni Greci (egli si riferisce a quegli storici greci che videro con dolore e sdegno l'ellenismo soverchiato dalla potenza romana e della cui voce ci è giunto l'eco nelle storie di Trogo) consideravano il dominio di Roma sul mondo come un dominio di spregevoli barbari e un'opera della Fortuna malvagia (τύχμ ἂδικος) a danno dei Greci (I, 4.). A sostegno della sua tesi, D. arreca, e combina a modo suo, una grande quantità di elementi attinti a svariatissimi autori greci (Ellanico, Ferecide, Xanto, Antioco di Siracusa, Timeo, ecc.) e latini, fra questi ultimi specialmente a Catone e a Varrone: è il libro più dotto dell'opera.

La storia dei re è narrata nei libri II-IV (ai quali corrisponde il solo libro I di Livio) sulla scorta degli annalisti romani, con qualche citazione però ancora di fonti greche; lo schema annalistico è evitato, e di ogni re si narrano prima le imprese guerresche, poi le opere di pace. Col libro V comincia la storia repubblicana (i libri V-IX, 58 corrispondono al II di Livio, IX, 59-XI, 52 al III; gli altri 9 libri circa di D. corrispondevano ai 12 libri IV-XV di Livio, cioè il rapporto fra l'estensione data alle loro opere dai due storici tende in modo caratteristico ad invertirsi venendo alla storia più recente): e per essa D. non poté liberarsi dallo schema annalistico connaturato ormai nella storia romana. Come sue fonti, Dionisio (I, 7 e in varî altri punti) cita i seguenti annalisti romani: Catone, Fabio Massimo, Valerio Anziate, Licinio Macro, Elio (Q. Elio Tuberone, elogiato anche in I, 80; pare che questo annalista sia lo stesso al quale D. dedicò lo scritto su Tucidide), Gellio e Pisone; egli ricorda (I, 6) anche i due antichissimi annalisti Fabio Pittore e Cincio Alimento, che avevano però, per lui, trattato troppo sommariamente la storia antica. Raramente egli attinse per questo periodo a fonti greche, come a Prosseno per la guerra epirotica (XX, 10). L'ampiezza stessa del racconto di D. mostra che degli annalisti romani egli usò di preferenza i più recenti, e probabilmente più che altri Anziate; gli annali di Licinio Macro erano troppo concisi per servirgli da fonte principale, e così pure quelli di Tuberone, almeno per l'età regia; ma può darsi ch'egli abbia usato inoltre altri annalisti a noi sconosciuti senza citarli. Ma poiché egli elaborò profondamente le sue fonti, le contaminò fra di loro, diede al materiale che da esse derivò l'impronta uniforme del suo stile e dei suoi criterî razionalisti e pragmatici, non è possibile per mezzo delle poche citazioni che egli fa e con gli scarsi frammenti degli annalisti giunti a noi, determinare punto per punto la fonte che egli segue. Quello che egli sa di monumenti antichi, sembra derivare dalla lettura degli eruditi antichi, non da diretta conoscenza dei monumenti stessi.

Quanto al valore storico dell'opera sua, D. fu dai critici moderni alle volte esaltato per la sua diligenza e abbondanza, più spesso vituperato. Naturalmente D., al pari di tanti altri storici antichi, non dubitò della realtà, nelle linee essenziali e nei particolari, dei fatti che sulla storia antichissima di Roma trovava nelle sue fonti; lo stesso tenue scetticismo di Livio era lontano dalla sua mente, e la magrezza dei più antichi annali era per lui un difetto, non un argomento per dubitare sull'origine di tanta parte della tradizione stessa. A questo non contrastavano le varianti e le contraddizioni che egli poteva constatare nelle sue fonti e che ebbe spesso cura di riferire. Gli faceva poi difetto il senso della leggenda e quello della storia; e perciò nella sua opera le leggende romane, anche le più poetiche, vengono ridotte a prosaiche e prolisse narrazioni dominate da un razionalismo che offende, mentre d'altra parte per difetto di senso storico egli commette i più ridicoli anacronismi e mette per esempio in bocca ai re di Roma le dottrine filosofiche e politiche dei suoi tempi. Per quanto poi D. dimostri il più grande interesse per la storia costituzionale di Roma, egli manca di ogni idea esatta sullo svolgimento storico di questa stessa costituzione ed è come Greco e come retore assolutamente incapace di pensare giuridicamente, come facevano gli annalisti romani anche tardi, i fatti che egli ricostruisce e racconta. Sotto questo aspetto, se egli meglio di ogni altro ci dà un'idea dell'annalistica romana del sec. I. a. C., ha però peggiorato gravemente le sue stesse cattive fonti. La retorica trionfa nella sua storia, specialmente con gl'innumerevoli e interminabili discorsi ai quali egli naturalmente molto teneva e che metteva insieme con imitazioni dai classici greci. Ciò non toglie però che alcune osservazioni sulla storia della costituzione e alcuni raffronti con fatti e usi della Grecia non colgano nel segno; né piccolo merito suo è di averci conservato, specie nei primi libri, materiali preziosi tratti da opere per noi perdute.

Manoscritti ed edizioni: Edizione generale di tutte le opere, J. J. Reiske, Lipsia, 1774-77, voll. 6 (è quella di cui anche gli editori moderni riproducono la paginazione). Delle opere retoriche: Usener-Radermacher, 2 voll., Lipsia 1899-1904. Edizioni parziali: Delle tre lettere letterarie (prima e terza ad Ammeo, seconda a Pompeo) W. Rhys Roberts, Cambridge 1901; del De compos. verborum, W. Rhys Roberts, Londra 1910 (l'una e l'altra con un prezioso glossario di termini retorici e grammaticali). I due codici principali dei libri I-X della 'Αρχαιολογία sono il Chisianus 58 e l'Urbinas 105; il libro XI è conservato in codici del sec. XV, i frammenti Ambrosiani sono nel cod. Q 13 sup. del sec. Xv. Edizione critica di C. Jacoby, D. Hal. Antiquitatum romanarum quae supersunt, voll. 4, Lipsia 1885-1905, l'indice a parte, Lipsia 1925.

Bibl.: Sulle opere retoriche: F. Blass, De Dionysii Halicarnassensis scriptis rhetoricis, Bonn 1863; M. Egger, Denys d'Halicarnasse. Essai sur la critique littéraire chez les Grecs au siècle d'Auguste, Parigi 1902; L. Radermacher, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, coll. 961-71. Sull'opera storica è fondamentale l'articolo di E. Schwartz, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 934 segg.; v. inoltre G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 40; A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921, p. 157; E. Pais, Storia di Roma, 3ª ed., I, Roma 1926, p. 133.

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