DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Direttore della fotografia

Stefano Masi

Si definisce direttore della fotografia chi assicura una coerenza figurativa all'immagine lungo l'intero arco del film, secondo le necessità del racconto, attraverso la disposizione sul set delle fonti naturali e artificiali di luce, in combinazione con la scelta dei negativi e degli obiettivi, prefigurando infine le risultanze dei processi di sviluppo e stampa. Durante le riprese è il responsabile di un reparto vasto e articolato, al quale fanno capo gli elettricisti, addetti allo spostamento fisico dei corpi illuminanti e ai collegamenti delle linee, i macchinisti, che hanno il compito di montare i carrelli e i supporti fisici della camera, gli assistenti-operatori, che caricano i negativi negli châssis delle macchine, prendono i fuochi e maneggiano gli obiettivi, nonché gli operatori in senso stretto, che ‒ nell'ambito dell'organizzazione del lavoro così come si è venuta configurando a partire dagli anni Trenta ‒ controllano le inquadrature alla loop della macchina da presa, e gli operatori aggiunti, specialisti in riprese particolari, effettuate con macchine da presa e attrezzature di uso non comune come steadicam, sky-cam o riprese speciali di altro genere (riprese sottomarine, aeree, riprese di effetti speciali ecc.).

Nell'esercizio della sua funzione di garante dell'immagine del film, durante la fase di preproduzione il d. della f. partecipa ‒ di solito insieme al regista, allo scenografo e al direttore di produzione ‒ ai sopralluoghi per la scelta delle locations nelle quali sarà ambientata ciascuna scena di esterni o di interni 'dal vero', prefigurando anche l'orario nel quale le riprese dovranno essere effettuate, in ragione dell'altezza del sole e dell'effetto necessario all'andamento della storia. Allo stesso modo il d. della f. viene consultato dallo scenografo al momento della progettazione degli ambienti da ricostruire in teatro di posa, sia per quanto riguarda le necessità spaziali del reparto fotografico, sia per la scelta dei colori da impiegare. Al fine di agire in sintonia con le scelte cromatiche del film, è indispensabile anche un coordinamento con il reparto costumi; tale necessità è divenuta stringente dopo l'avvento del colore, ma comunque era stata già avvertita all'epoca del bianco e nero, allo scopo di governare la gamma dei grigi per evitare il rischio di un appiattimento dei diversi piani all'interno dell'inquadratura.Storicamente la figura del d. della f., così importante nell'economia di un set cinematografico a partire dalla fine degli anni Venti, si è definita soltanto quando la crescita industriale del prodotto film ha richiesto una progressiva moltiplicazione delle specializzazioni sul set. Agli albori della storia del cinema la troupe cinematografica si poteva considerare una one-man-band, un organismo monocellulare, nel quale un unico addetto radunava nella sua persona tutte le responsabilità della costruzione del film: faceva funzionare la macchina da presa trascinando la pellicola con la manovella, dava istruzioni agli occasionali attori, provvedeva allo sviluppo del negativo e magari lui stesso proiettava il film. Non a caso, i primi apparecchi Lumière potevano essere usati sia per effettuare le riprese sia per proiettare il prodotto finito, con una piccola modifica. Con il passare degli anni l'originario organismo monocellulare cominciò a sdoppiarsi, più e più volte, dando vita a una serie di funzioni sempre più specifiche, inquadrate nella catena di montaggio della produzione del film. La divisione delle funzioni del tecnico, colui che aveva il contatto fisico con la macchina da presa (l'operatore), da quelle dell'uomo che si occupava della direzione degli attori (il direttore, cioè il regista, che era spesso un attore lui stesso) si verificò già nei primi anni del Novecento, sulla scorta della tradizionale diffidenza che gli uomini di pensiero nutrivano nei confronti del funzionamento delle macchine e, in genere, nei confronti degli apparati tecnologici.

Ai primordi della storia del cinema, comunque, non si parlava ancora di direzione della fotografia, perché non esisteva alcun reparto da dirigere. Chi governava la macchina da presa veniva definito semplicemente operatore. I primi operatori cinematografici, antenati dei moderni d. della f., furono gli agenti che i Lumière stessi inviavano per il mondo, a caccia di immagini suggestive da offrire a spettatori avidi di visioni meravigliose, esotiche e lontane. Quei nomi (Félix Mesguich, Eugène Promio, Perrigot) nel tempo sono stati quasi dimenticati. Attivi a cavallo fra Otto e Novecento, essi erano per lo più ex fotografi, eredi morali dei pittori del Romanticismo, dei ritrattisti e dei vedutisti; legati da un lato alla cultura dei letterati viaggiatori, dall'altro alla prima stagione del giornalismo di reportage.Il salto di qualità avvenne con l'evoluzione del cinema verso il racconto e verso la messa in scena, svolta che complicò fortemente il lavoro fotografico sul set. Ma il primitivo concetto di messa in scena cinematografica era ancora profondamente imbevuto della cultura teatrale ottocentesca, soprattutto del suo approccio naturalistico alla rappresentazione del reale. E del resto la fotografia cinematografica nei primi anni del Novecento era ancora troppo fragile per poter assumere una funzione espressiva autonoma. Così i primi operatori di film a contenuto narrativo non poterono spingersi oltre la pura e semplice visibilità, che all'epoca costituiva già un traguardo di non facile conseguimento. Non bisogna dimenticare che le primitive macchine da presa erano molto rudimentali e prive di quelle forme di controllo sulla qualità delle immagini che successivamente hanno facilitato (troppo, a detta di alcuni tecnici del settore) e reso meno problematico il lavoro fotografico. L'operatore del primo Novecento non poteva nemmeno guardare attraverso l'obiettivo per controllare i margini dell'inquadratura, che venivano stabiliti in maniera approssimativa dagli assistenti (definiti apparecchiatori). La macchina da presa era fissa, talvolta addirittura ancorata al pavimento dello studio: l'idea di spostarla non venne presa in considerazione per molto tempo, almeno fino alla prima metà degli anni Dieci.

I primi grandi nomi della fotografia europea conquistarono la loro fama in seno alla cultura dell'Espressionismo tedesco, che attribuiva grande valore all'elaborazione formale dell'immagine e spinse gli operatori tedeschi della Repubblica di Weimar (1919-1933) verso le acquisizioni delle avanguardie figurative dell'epoca: Guido Sebeer, operatore di film quali Der Golem (1915) di Henrik Galeen e Die Freudlose Gasse (1925; La via senza gioia) di Georg Wilhelm Pabst; Fritz Arno Wagner, che firmò le immagini di Schatten ‒ Eine nächtliche Halluzination (1923) di Arthur Robison, Der müde Tod (1921; Destino), M (1931), entrambi di Fritz Lang, Nosferatu ‒ Eine Symphonie des Grauens (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau; Gunther Rittau, operatore di Asphalt (1929; Asfalto) di Joe May e, insieme a Karl Freund, di Metropolis (1927) di Lang; lo stesso Freund operatore di Der Golem, wie er in die Welt kam (1920; Golem ‒ Come venne al mondo) di Carl Boese e Paul Wegener. Furono loro a scavalcare ‒ sulla spinta della poetica espressionista ‒ il limite della pura e semplice visibilità fotografica delle azioni messe in scena, sprofondando i personaggi nella penombra di minacciose oscurità, difficili da gestire con i negativi dell'epoca. Spinti dalla necessità narrativa di rappresentare in scena la paura e l'angoscia, gli operatori dell'Espressionismo tedesco 'inventarono' il buio, che fino allora era un elemento troppo pericoloso da maneggiare in un film. Essi seppero, inoltre, far interagire talmente bene i loro (primitivi) effetti di luce con le linee di fuga di scenografie a volte semplicemente dipinte, al punto da rendere estremamente difficile distinguere in quei capolavori dove finisca l'opera dello scenografo e dove inizi quella dell'operatore.Dall'altra parte dell'oceano, negli Stati Uniti, il primo grande operatore ad acquisire una certa fama fu Billy Bitzer, in ragione del rapporto privilegiato con il grande regista David Wark Griffith, per il quale firmò le immagini di capisaldi della storia del cinema, da The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione) al mitico Intolerance (1916). Con Griffith e con il grande kolossal storico, che negli anni Dieci si era affermato in Italia a partire dal successo internazionale di Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, si sviluppò il concetto di d. della f., sebbene questa espressione non venisse ancora usata nella nomenclatura tecnica. Ma ormai era chiaro che non bastava più un solo operatore per controllare la complessità dei processi fotografici richiesti a un film di grandi proporzioni: soprattutto nelle scene di massa e d'azione era necessario il lavoro contemporaneo di varie macchine da presa, ciascuna delle quali doveva essere controllata da un operatore. Questo team aveva bisogno di una direzione tecnica. Nacque così l'espressione, che venne usata per la prima volta nel cinema francese, di chef-opérateur, riportata nell'Italia degli anni Trenta come capo-operatore o operatore-capo.

A incrementare l'importanza del ruolo dell'operatore fu, alla fine degli anni Venti, paradossalmente, l'avvento del sonoro. Con la sua necessità di silenzio assoluto sul set e con il conseguente trasferimento di tutte le lavorazioni all'interno di grandi capannoni completamente insonorizzati, quindi in muratura e senza lucernari (i teatri di posa, così come poi sono stati concepiti), tutto il lavoro fotografico doveva fondarsi sull'utilizzo della luce artificiale. La costruzione dell'immagine partiva dal nero assoluto del teatro di posa. La necessità di maggiori quantità di luce fece lievitare il numero degli addetti agli apparecchi illuminanti, all'epoca pesanti e poco maneggevoli. L'organico delle troupe crebbe, perché ogni cosa doveva essere ricostruita. Tutto era artificio, in primo luogo la luce. Furono gli anni del trionfo della finzione: notti (finte) luminosissime, lune come lampioni, enormi quantità di luce, soprattutto nelle commedie. I primi anni Trenta stabilirono per la produzione corrente uno standard hollywoodiano del 'tutto-in-luce' (cioè un tipo di illuminazione che riduceva al minimo le zone in ombra) che rapidamente si diffuse in tutte le culture cinematografiche, contagiando anche lo stile fotografico del film della Russia sovietica, dove il realismo socialista, con le sue esigenze di popolarità, aveva avvicinato paradossalmente la cultura figurativa dei Soviet a quella del cinema del capitalismo; nonché gli standard figurativi della nascente Cinecittà fascista, dove divenne famoso il gusto gessoso e luminescente dei cosiddetti film dei telefoni bianchi. Si tennero lontani da questo standard il cinema francese e quello della Germania nazista. Da Berlino molti degli operatori dell'Espressionismo fuggirono, trovando accoglienza proprio a Hollywood, dove alcuni tratti dello stile fotografico espressionista furono metabolizzati nella retorica visuale dei generi e acquisiti nel patrimonio visuale del thriller e del noir, generi che sarebbero divenuti importanti soprattutto negli anni Quaranta, dopo il completo assorbimento della lezione fotografica dei tran-sfughi del cinema espressionista tedesco. Il caso più clamoroso fu quello dell'operatore K. Freund, che in Germania aveva firmato classici dell'Espressionismo e della Nuova oggettività (Neue Sachlichkeit), il quale sin dai primi anni Trenta si inserì con successo nel mondo del cinema statunitense, vincendo nel 1938 l'Oscar per le immagini di The good earth (1937; La buona terra), mélo diretto da Sidney A. Franklin.

Il premio Oscar, assegnato per la prima volta il 16 maggio 1929 al Roosevelt Hotel di Hollywood, tenne subito in grande considerazione il lavoro dei d. della f., ai quali si riconosceva così un ruolo di primissimo piano nella costruzione del film, che invece non veniva attribuito ad altre specializzazioni tecniche. Per molti anni, per es., tra gli Oscar non vi fu nessun premio riservato ai montatori. I primi Oscar per la fotografia vennero assegnati ‒ con una decisione che poteva sembrare paradossale ‒ a operatori che lavoravano fuori dalle mura degli studios, nel campo del documentario, o che avevano girato quello che gli statunitensi definivano docu-drama, quale Sunrise ‒ A song of two humans (1927; Aurora), diretto dal tedesco F.W. Murnau, fotografato dagli ex ritrattisti Karl Struss e Charles Roscher con uno stile che citava esplicitamente la pittura di P.-A. Renoir. I votanti della Academy of Motion Picture Arts and Sciences intendevano cercare lo standard del 'bello' fotografico in film che per definizione si ponevano fuori dalla produzione cinematografica più tradizionale. Qualche anno più tardi Murnau e Robert J. Flaherty condussero all'Oscar anche un altro operatore, Floyd Crosby, per le immagini di un altro docu-drama, Tabu (1931; Tabù). Allo stesso modo, nel 1930 era stato premiato con l'Oscar il gusto per la fotografia semidocumentaristica del d. della f. Clyde De Vinna per White shadows in the south seas (1928; Ombre bianche), un mélo diretto da W.S. Van Dyke. In un panorama ancora molto formale i veri tramonti di Tahiti non potevano non far colpo sui membri dell'Acad-emy, abituati ai palmizi finti illuminati dall'alto dei ponti, in una maniera tanto brillante quanto artificiosa.

Un altro evento che rivoluzionò il lavoro del d. della f. fu l'avvento del colore, introdotto in fasi successive nel corso degli anni Trenta con i vari brevetti rigidamente custoditi dalla società leader del settore, la Technicolor. In un primo tempo la società lanciò sul mercato il cosiddetto sistema tripack: una stessa macchina da presa dotata di un triplo châssis di pellicola in bianco e nero. All'interno di ciascun magazzino venivano impressionate, separatamente, le sagome dei tre colori fondamentali, ciano, magenta e giallo, scomposti in sede di ripresa e poi ricomposti in fase di stampa, usando le tre pellicole in bianco e nero come matrici per la ricomposizione dell'immagine a colori. Il primo lungometraggio interamente realizzato con il Technicolor tripack fu Becky Sharp (1935) diretto da Rouben Mamoulian, fotografato da Ray Rennahan e mai uscito nelle sale italiane per il suo altissimo costo di noleggio. Il sistema, pesantissimo e costosissimo, impiegò vari anni per affermarsi nella produzione media e ciò avvenne soltanto quando la Technicolor lo rese più maneggevole con l'introduzione del cosiddetto monopack, una pellicola unica con tre strati sovrapposti di emulsione a colori. Ma l'affermazione definitiva del colore poté avvenire soltanto con la diffusione del più economico negativo a colori Eastmancolor della Kodak.Nel 1940, per la prima volta il premio Oscar per la fotografia fu sdoppiato in due categorie, una per il bianco e nero e una per il colore. A trionfare tra i film a colori fu Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming, fotografato da Ernest Haller e dallo specialista del colore Rennahan. In Italia il primo lungometraggio a colori fu Totò a colori, (1952) di Steno e Mario Monicelli con la fotografia di Tonino Delli Colli.Per quel che concerne il lavoro del d. della f., l'avvento del colore venne accettato con un certo rammarico. Alcuni vecchi maestri fotografi della più conservatrice Europa non lo accettarono affatto, perché venivano rimessi in discussione i criteri stessi della tecnica di illuminazione. La tavolozza cromatica presentava diversità molto più marcate della più ricca gamma di grigi e questo conferiva una stereoscopia intrinseca all'immagine, rendendo obsoleto l'uso del controluce, che però costituiva una fondamentale 'figura retorica' della fotografia del film. Nei primi tempi della sua applicazione il colore riportò indietro la qualità del lavoro luministico del d. della f., costretto a inondare il set di luce, a causa della scarsissima sensibilità dei negativi. La grande quantità di luce necessaria a impressionare quei primitivi negativi a colori mortificò tutte le ricerche fatte dai d. della f. per creare effetti e atmosfere particolari. Già dagli anni Trenta il ruolo del d. della f. si era ben definito rispetto a quello dell'operatore alla macchina ed erano pochi ‒ almeno nelle culture cinematografiche più avanzate ‒ i casi di sovrapposizione delle competenze tecniche di questi due ruoli. Ma con le complicazioni legate all'avvento del colore il ruolo dell'operatore si distaccò definitivamente da quello del d. della f., responsabile di un sempre più vasto reparto fotografia. Contemporaneamente le troupe cinematografiche avevano conosciuto il loro stato di massima espansione. La nascita dei sindacati dei tecnici e delle associazioni di categoria cristallizzò l'immagine professionale del d. della f., che risultò una sorta di supertecnico il quale aveva però abdicato al contatto fisico con la macchina da presa, salvo situazioni eccezionali.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta si stava consumando, soprattutto a Hollywood, il trionfo del cinema più magniloquente, che sembrava proiettato sempre più verso le grandi dimensioni, verso i kolossal, verso i grandi investimenti, verso l'espansione stessa dello schermo (il Cinemascope, il Cinerama ecc.). Però, contemporaneamente, si andava materializzando un processo uguale e contrario: l'avvento della televisione stava cominciando a erodere i margini degli utili delle majors. Questo processo si accentuò anno dopo anno, per tutta la seconda metà degli anni Cinquanta. Tanto che si avvertiva ormai una diffusa esigenza di abbassare i costi delle produzioni. Furono i giovani cineasti della Nouvelle vague a lanciare un nuovo standard delle competenze del d. della f., affidando le immagini dei loro film a operatori provenienti dal reportage e dalla cine attualità. Il caso più eclatante fu quello di Raoul Cou-tard, braccio destro di Jean-Luc Godard; ma si possono citare casi analoghi in Gran Bretagna e in Italia. Con la Nouvelle vague il d. della f. ritrovò il contatto fisico con la macchina da presa e ridivenne anche operatore alla macchina, in un'ottica di riduzione degli organici delle troupe e di riscoperta di uno 'sguardo' più autentico verso la realtà. Del resto il cinema cominciava a uscire dalla prigionia del teatro di posa e a riguadagnare le strade. Nestor Almendros, creatore delle immagini dei film di François Truffaut e di Eric Rohmer, fu negli anni Settanta un teorico di questa riscoperta del rapporto diretto con la macchina da presa e ‒ una volta scritturato dai produttori-autori statunitensi per i film di Terrence Malick, Alan Pakula, Robert Benton, Mike Nichols ecc. ‒ portò perfino nelle grande produzioni di Hollywood questa personale convinzione poetica prima che organizzativa, impegnandosi in una dura battaglia con le Unions statunitensi per affermare il diritto al cosiddetto camera-work, considerato un oltraggio dai sindacati degli operatori alla macchina.

Da un lato le industrie produttrici di apparecchiature avevano messo a disposizione delle troupe tecnologie molto più flessibili (macchine da presa più leggere, proiettori maneggevoli); dall'altro il vertiginoso aumento del costo del lavoro imponeva un alleggerimento degli organici delle troupe. Sembrava proprio che le funzioni del d. della f. e dell'operatore dovessero tornare a sovrapporsi. Ma non fu così. Troppe e troppo forti erano le posizioni consolidate. Del resto alcuni produttori ritenevano che questo sdoppiamento delle figure professionali accelerasse la lavorazione. Nacque un doppio binario di definizione delle competenze del d. della f.: nei film di grande budget, questi si limitava al vero e proprio lavoro sulla luce, nelle produzioni low-budget (e in quelle televisive) svolgeva spesso anche le mansioni di operatore alla macchina.Questa distinzione agli inizi del 21° sec. continua a esistere. All'occorrenza il d. della f. può comunque liberamente svolgere le funzioni di operatore alla macchina, soprattutto in un panorama di produzione a basso budget. Del resto in questa stessa direzione spinge l'avvento delle leggerissime camere digitali, maneggevoli, sempre più simili ‒ in quanto a prestazioni e incisione dell'immagine ‒ alle classiche cineprese dotate di pellicola. Il passaggio dalla pellicola al digitale non può essere considerato una vera rivoluzione dal punto di vista del lavoro del direttore della fotografia. Quel che cambia è la possibilità di effettuare riprese con una sempre minore quantità di luce, anche con le telecamere. Dagli anni Settanta del 20° sec. agli inizi del 21° le società produttrici di pellicola non hanno mai smesso di rincorrersi offrendo emulsioni sempre più sensibili; esattamente come hanno fatto i costruttori di lenti, sempre pronti a fornire ottiche più luminose, capaci di catturare fino all'ultimo filo disponibile di luce. Ma anche se un giorno la sensibilità dei negativi (o delle nuove camere digitali) dovesse uguagliare ‒ o superare ‒ la capacità visiva dell'occhio umano, lo scopo del d. della f. resterà lo stesso, quello di conferire una forma all'immagine della realtà. Una forma apprezzabile dal punto di vista estetico e coerente con gli obiettivi scelti dal regista.

Bibliografia

Ch. Higham, Hollywood cameramen: sources of light, London 1970.

L. Maltin, The art of the cinematographer, New York 1971.

S. Masi, La luce nel cinema. Introduzione alla storia della fotografia nel film, L'Aquila 1982.

S. Consiglio, F. Ferzetti, La bottega della luce, Milano 1983.

K. Malkiewicz, Film lighting, New York 1992.

P. Ettedgui, Cinematography screencraft, Boston 1998.

D. Maillet, En lumière. Les directeurs de la photographie vus par les cinéastes, Paris 2001.

S. Masi, Gli operatori, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 5° vol., Teorie, strumenti, memorie, Torino 2001, pp. 563-625.

CATEGORIE
TAG

Academy of motion picture arts and sciences

Friedrich wilhelm murnau

Repubblica di weimar

Georg wilhelm pabst

David wark griffith