Dirigenza pubblica [dir. lav.]

Diritto on line (2014)

Carmine Russo

Abstract

La Voce esamina la dirigenza pubblica sotto il duplice profilo della collocazione organizzativa e del rapporto di lavoro, evidenziando le reciproche influenze tra i due aspetti e ripercorrendo i principali istituti normativi attraverso l’analisi della legislazione, della giurisprudenza e della più accreditata dottrina.

L’assetto delle p.a. e le ripercussioni sul rapporto di lavoro dei dirigenti

Il coinvolgimento della dirigenza pubblica nel processo di contrattualizzazione del rapporto di lavoro riguarda due aspetti che, seppur tra loro autonomi, si intersecano necessariamente nella ridefinizione normativa ed organizzativa del ruolo dirigenziale.

Il primo e più rilevante ai fini della sistematicità del disegno riformatore avviato con la legge delega 23.10.1992, n. 421 e dal d.lgs. 3.2.1993, n. 29 attiene alla natura giuridica dei poteri organizzativi e gestionali: la necessità di una simmetria tra “privatizzazione” del rapporto di lavoro dei dipendenti e potere cui sono subordinati nell’organizzazione, portò il legislatore a individuare una prima linea di demarcazione tra potere gestionale (privatizzato) e potere organizzativo (mantenuto nell’ambito pubblicistico) che comunque si riunificò nella categoria dei poteri del privato datore di lavoro” con la seconda fase della contrattualizzazione portata a termine a cavallo del 1997/1998.

Il secondo aspetto può considerarsi una conseguenza, seppur non necessaria, del primo e attiene al mutamento della stessa natura giuridica del rapporto di lavoro con ripercussioni, come vedremo, sia sulle modalità di reclutamento e attribuzioni di incarichi, sia di responsabilità e estinzione del rapporto di lavoro. Percorso peraltro ritenuto legittimo, in quanto “non irragionevole” dall’ordinanza della Corte costituzionale 30.1.2002, n. 11.

Caposaldo organizzativo delle amministrazioni pubbliche, collocato dal legislatore a base della natura giuridica “privatistica” del rapporto di lavoro pubblico è il principio di separazione tra organo di vertice politico e dirigente; una relazione che la legislazione definisce in termini di separazione, ma che, nello stesso tempo, configura in termini di collaborazione; una schizofrenia di modello solo apparente, utile ad evidenziare la matrice funzionale e non gerarchica della relazione tra soggetti. Una funzionalità direttamente derivante dai principi di imparzialità e buon andamento che determina l’incostituzionalità di qualsiasi ipotesi di spoil system (C. cost., 23.3.2007, n. 103).

Ma l’esigenza della separazione tra politica e amministrazione (organizzazione della funzione) non elimina l’esigenza che organo di direzione politica e amministrazione collaborino in funzione dell’ottimale organizzazione dell’attività amministrativa e della garanzia dell’imparzialità e buon andamento per l’organizzazione dei servizi (responsabilità).

In quest’ultimo caso il rapporto tende a personalizzarsi e, allo scopo di esaltare la differente responsabilità dei soggetti in esso coinvolti, muta anche lo strumento operativo del soggetto politico, che da normativo (legge o comunque atto pubblicistico) si trasforma in indirizzo e controllo.

Tale strumento è individuato nel d.lgs. 30.3.2001, n. 165 nella direttiva (art. 14), che non può che essere intesa che come strumento di orientamento della discrezionalità dei dirigenti.

La direttiva diviene, quindi, nel modello di rapporto tra organi di governo e dirigenza, la modalità principale se non esclusiva prevista dal d.lgs. n. 165/2001 per delineare la competenza dei dirigenti quale competenza esclusiva (artt. 4 e 15-17).

La distinzione di funzioni converte il rapporto da gerarchico in «rapporto di direzione», una forma di sopraordinazione più tenue per intensità; e in tale trasformazione acquista una funzione diversa lo stesso istituto dell’avocazione (art. 14, co. 3), non più strumento di sorveglianza con funzioni sostitutive o spoliative delle funzioni dirigenziali, ma, più limitatamente, strumento eccezionale, riferito a singoli atti, da motivare in merito alla sua «necessità» sia nei confronti del dirigente che nei confronti dell’organo politico di cui il politico avocante fa parte: un mutamento che trasforma anche l’avocazione in una funzione di risultato, quale operatività ultima del sistema.

Solo in questo modo si riesce a salvaguardare una coerente e contemporanea distinzione di ruolo, nel senso che mentre gli organi politici organizzano un “servizio pubblico”, la dirigenza organizza un “servizio al pubblico”.

L’autonomia decisionale del dirigente in materia di organizzazione si definisce, in primo luogo, in rapporto alla quota di potere organizzativo che svolgono in maniera vincolante i poteri pubblici in base al principio di riserva di legge e a quello di legalità; tale quota di potere organizzativo opera quale garanzia di imparzialità e buon andamento nel perseguimento degli interessi generali e si fonda, quindi, sulla legittimazione politico-democratica dei poteri pubblici quali rappresentanti dell’intera collettività.

Una prima funzione svolta dalla fonte legislativa è quindi quella limitatrice dei poteri datoriali: in tale ampia categoria occorre distinguere il ruolo svolto dalla riserva di legge ex art. 97 Cost. da quello svolto più in dettaglio da norme legislative lavoristiche.

La funzione limitatrice svolta dalla riserva di legge ex art. 97 della Costituzione può essere più propriamente definita “espropriativa”; per la funzione organizzativa dei servizi conseguente alla legittimazione politico-democratica del soggetto autorizzato a emanare le norme e in base al principio di legalità, alla sola legge è affidato il compito di definire gli aspetti originari e strutturali dell’organizzazione a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento. Alla legge, quindi, e alle fonti da essa autorizzate, va riconosciuta una quota di «fenomeno organizzativo», che espropria il potere del dirigente per la corrispondente parte di competenza.

Accanto alla funzione organizzativa svolta da fonti pubblicistiche si pone, in posizione di autonomia e responsabilità, la quota di potere organizzativo del dirigente che, poggiando sulla predetta base organizzativa di carattere generale, opera con riferimento all’organizzazione delle risorse poste a sua disposizione, perseguendo obiettivi di imparzialità e buon andamento fondati e legittimati da quella parte di collettività (utenza) che concretamente alle diverse amministrazioni si rivolge per soddisfare le proprie esigenze e richieste di servizi.

Questa seconda area di responsabilità organizzativa, necessariamente autonoma rispetto alla prima in ragione del diverso ambito di operatività e del diverso fondamento legittimante, è stata particolarmente evidenziata dalla legislazione che incentivando e moltiplicando le forme di partecipazione ha reso non più accettabile un potere organizzativo fondato esclusivamente su criteri e parametri di carattere generale e pubblicistici, ma ha privilegiato un’organizzazione dei servizi mirata al perseguimento degli interessi degli utenti. È in questa prospettiva che vanno apprezzate le recenti norme riguardanti la lotta alla corruzione e all’illegalità della p.a. (l. 6.11.2012, n. 190) e quelle che estendono gli obblighi di trasparenza e informazione (d.lgs. 14.3.2013, n. 33).

Un potere organizzativo, quindi, che debba tener conto delle differenti realtà organizzative e sociali nelle quali si esercita; ma un potere organizzativo che ricondotto a quello del privato datore di lavoro (art. 4, co. 1) può essere limitato in base a valori e principi dell’ordinamento che attengono al rapporto con i soggetti che a quel potere sono assoggettati (lavoratori e loro organizzazioni sindacali) e al rapporto con i soggetti che da quel potere chiedono di ricevere benefici derivanti dalle modalità di organizzazione dei servizi (utenti e loro associazioni).

In precedenza abbiamo sottolineato come il d.lgs. n. 165/2001 individui nel rapporto tra organo di governo e dirigente basato sulla direttiva il momento di diversificazione del doppio potere organizzativo; con la direttiva si interrompe la catena di vincolatività e gerarchia delle fonti basata sul principio di legalità e si evidenzia un’autonoma sfera di potere basato sulla responsabilità delle decisioni; inoltre, a valle della direttiva (ma sarebbe meglio dire con la direttiva stessa) si interrompe la necessità di una fonte pubblicistica legittimante il potere organizzativo e la stessa necessità di un fondamento pubblicistico del potere stesso.

Sotto il profilo lavoristico, il potere datoriale è fondato sul contratto che colloca il lavoratore in posizione subordinata al potere stesso nella circoscritta area tecnico-funzionale dell’organizzazione: proprio per questo, il potere del datore di lavoro, nel momento in cui si esprime, è esso stesso organizzazione, espressione della volontà organizzativa del dirigente: ed è per questo che il potere organizzativo non può essere scisso dalla persona del lavoratore e dalla sua responsabilità individuale; ed è anche per questo che quel potere va limitato in presenza di diritti della persona che siano coinvolti nel suo esercizio.

Va però a questo proposito ricordato che con il d.lgs. 27.10.2009, n. 150 il legislatore ha limitato l’autonomia e la discrezionalità del potere datoriale del dirigente: a) riassorbendo nelle fonti pubblicistiche importanti aspetti sostanziali e procedurali della valutazione individuale e organizzativa e della responsabilità disciplinare; b) cercando di ridimensionare – con dettato non sempre limpido sul piano tecnico e sistematico – il confronto organizzativo derivante dal ruolo partecipativo e negoziale delle rappresentanze dei lavoratori.

Accesso e incarichi

Nella fase di reclutamento dei dirigenti occorre distinguere tra accesso alla qualifica e conferimento dell’incarico: attraverso l’acquisizione della qualifica si valuta il possesso dei requisiti professionali idonei all’esercizio della responsabilità e si instaura il rapporto di lavoro; ma l’effettivo esercizio della funzione e del potere dirigenziale, la concreta responsabilità di un segmento dell’organizzazione (settore amministrativo o progetto operativo) si consegue solo attraverso il conferimento di un preciso incarico dirigenziale.

Nel comparto delle amministrazioni dello Stato, l’accesso alla qualifica dirigenziale si consegue attraverso due percorsi selettivi: il concorso per esami direttamente gestito dalle singole amministrazioni, il corso-concorso bandito e organizzato, trasversalmente a più amministrazioni, dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione. L’acquisizione della qualifica dirigenziale comporta l’inserimento nella seconda fascia dirigenziale del ruolo istituito presso ogni amministrazione. In realtà, il testo originario del d.lgs. n. 165/2001 prevedeva un ruolo unico dei dirigenti per tutte le amministrazioni centrali dello Stato, ma la l. 15.7.2002, n. 145, ha modificato questo assetto e ha previsto ruoli di singola amministrazione. La scelta di istituire un ruolo unico era riconducibile all’esigenza di garantire una maggiore mobilità dei dirigenti e a quella di attenuare il legame del dirigente con una sola amministrazione e con il suo responsabile politico. La scelta del legislatore del 2002 è, invece, riconducibile a una visione dell’amministrazione come corpo professionale specializzato e all’esigenza di mantenere legate le professionalità dirigenziali all’amministrazione all’interno delle quali siano state acquisite.

Per l’individuazione delle funzioni dirigenziali occorre precisare il ruolo attribuito agli organi di direzione politica. La funzione di direzione politica si sostanzia nella definizione di obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare; nell’emanazione delle direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione; nell’assegnazione ai dirigenti preposti ai centri di responsabilità delle rispettive amministrazioni delle risorse assegnate agli uffici di direzione generale. Terminata questa fase di approntamento della macrostruttura, l’organo di direzione politica, durante l’esercizio delle funzioni da parte del dirigente, si limita a svolgere un ruolo di controllo, intervenendo solo in casi specifici e gravi, non essendo le funzioni dirigenziali derogabili se non espressamente da specifiche disposizioni legislative. Si ricava da queste previsioni, quale rilevante elemento organizzativo, la possibilità di intervento diretto del responsabile politico nella sola ipotesi di pregiudizio imminente per l’interesse pubblico; negli altri casi, anche attraverso l’intervento del commissario ad acta, le funzioni restano di esclusiva competenza dirigenziale.

In tutta la fase di predisposizione della macrostruttura (predisposizione ed adozione del Piano della performance e del piano triennale per la trasparenza, individuazione degli obiettivi, predisposizione degli strumenti di misurazione e valutazione della performance organizzativa), organo di vertice e dirigente sono tenuti a raccordarsi tra loro (collaborazione, supporto, consultazione) anche sulla base delle indicazioni emanate dalla Commissione nazionale per la valutazione e l’integrità (Civit) o di analoghi organismi di orientamento per le diverse tipologie di autonomia delle amministrazioni.

Il principio di separazione funzionale delle responsabilità tra organo di direzione politica e dirigente trova fondamento operativo nel provvedimento di conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale che, precisa l’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo. In tale provvedimento, infatti, sono individuati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo (art. 14) e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell’incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni.

La previsione di un tempo minimo e di uno massimo rappresenta un’ulteriore attuazione del principio di autonomia e responsabilità organizzativa: infatti, un periodo minimo è necessario per consentire al dirigente di esprimere la sua professionalità in un lasso di tempo sufficientemente lungo da poter essere valutato nel suo complesso, mentre il limite massimo è posto con lo scopo di evitare posizioni di rendita e per facilitare anche il principio di rotazione; è evidente che quest’ultimo principio non è assoluto e lo stesso art. 19 si occupa di prevedere che gli incarichi sono rinnovabili.

Il conferimento di incarichi di funzione dirigenziale è regolamentato dall’art. 19, con disposizioni non derogabili dalla contrattazione collettiva (co. 12-bis) e include tra i criteri di conferimento quello della necessità di tener conto delle condizioni di pari opportunità.

La previsione dell’art. 19, introdotta dalla l. n. 145/2002, per la quale «al provvedimento di conferimento dell’incarico accede un contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico» ha posto problemi interpretativi: il testo originale dell’articolo prevedeva infatti che il contenuto dell’incarico fosse definito contrattualmente, in coerenza con il processo di contrattualizzazione del lavoro dirigenziale pubblico e garantendo, in questo modo, la chiara competenza del giudice ordinario; l’innovazione introdotta con la legge del 2002 complica il quadro normativo, poiché l’incarico con la nuova disciplina è conferito con provvedimento al quale accede un contratto individuale per la sola definizione del trattamento economico nel rispetto dei principi definiti dall’art. 24.

Questa moltiplicazione di fonti (provvedimento più contratto individuale) ha posto in un primo tempo dubbi sulla natura giuridica del provvedimento di conferimento e, di conseguenza, per l’individuazione del giudice competente, soprattutto considerando la coesistenza di un contratto individuale dall’indubbia natura privatistica. Il dubbio appare risolto dalla giurisprudenza nel senso di ritenere l’intera materia degli incarichi dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche retta dal diritto privato e l’atto di conferimento regolato dal diritto comune e quindi assoggettato ai principi fondamentali dell’autonomia privata, non soggetti alle disposizioni sui procedimenti amministrativi, né ai vizi propri degli atti amministrativi; di conseguenza il giudice di merito, che può accertare solo la loro conformità ai principi di correttezza e buona fede, è il giudice ordinario e non quello amministrativo: in questo senso si è espressa la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con le sentenze 20.3.2004, n. 5659, e 22.2.2006, n. 3880, che richiama anche l’irrilevanza della motivazione e l’inapplicabilità della l. 7.8.1990, n. 241.

Anche con riferimento al comparto sanitario, in tema di conferimento di incarichi dirigenziali, le sezioni unite della Cassazione con la sentenza 16.4.2007, n. 8950, hanno affermato che la procedura di selezione avviata da un’azienda ospedaliera per il conferimento dell’incarico di dirigente di secondo grado del ruolo sanitario – prevista dall’art. 15 ter, co. 2-3, del d.lgs. 30.12.1992, n. 502 – non ha carattere concorsuale, in quanto si articola secondo uno schema che prevede non lo svolgimento di prove selettive con formazione di graduatoria finale e individuazione del candidato vincitore, ma la scelta di carattere essenzialmente fiduciario di un professionista a opera del direttore generale dell’azienda unità sanitaria locale nell’ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei da un’apposita commissione per requisiti di professionalità e capacità manageriali. Pertanto, l’impugnazione del provvedimento, emanato dallo stesso direttore generale, di esclusione di uno dei partecipanti alla selezione inserito nella rosa dei candidati già dichiarati idonei, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto adottato in base a capacità e poteri propri del datore di lavoro privato, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 165/2001.

La retribuzione

Coerentemente al processo che ha portato alla completa contrattualizzazione anche del rapporto di lavoro dei dirigenti, la retribuzione del personale dirigenziale è determinata dai contratti collettivi di area, correlando il trattamento accessorio alle funzioni attribuite e alle responsabilità esercitate.

La fonte legislativa è ancora una volta rappresentata dal d.lgs. n. 165/2001: la previsione dell’art. 24 si colloca, in questo senso, nella scia tracciata per tutto il pubblico impiego dall’art. 45; ed entrambe rispondono al principio generale definito dal quinto comma dell’art. 7, che dispone che le pubbliche amministrazioni non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano a prestazioni effettivamente rese. Proprio per poter raccordare ai parametri suddetti il trattamento economico, ogni amministrazione dovrà graduare funzioni e responsabilità in modo da consentire di individuare con precisione a quale livello retributivo definito dalla contrattazione collettiva farà riferimento nella determinazione del salario accessorio dei dirigenti.

Per le sole funzioni dirigenziali previste dal terzo e dal quarto comma dell’art. 19, l’art. 24 dispone che si tratta comunque di funzioni rientranti nel livello retributivo accessorio più elevato definito dai contratti collettivi: si tratta comunque di riferimenti base, suscettibili di incremento sulla base delle caratteristiche degli incarichi attribuiti e comunque compatibili con i vincoli di bilancio.

Il trattamento economico delle qualifiche dirigenziali ha carattere omnicomprensivo, dal momento che remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o comunque conferito dall’amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa. Si tratta di una previsione mirante da un lato a razionalizzare la spesa e dall’altra a rendere trasparente i compensi e i redditi della dirigenza pubblica, tutelandola da rischi di corruzione e collusione. Infatti, il criterio è rafforzato dall’obbligo imposto ai terzi di corrispondere i compensi dovuti direttamente all’amministrazione che provvederà a farli confluire nelle risorse destinate al trattamento economico accessorio di tutta la dirigenza; analoga funzione svolge la disciplina dettata dal settimo comma dell’art. 24, quando stabilisce che i compensi spettanti in base a norme speciali ai dirigenti dei ruoli di cui all’art. 23 o equiparati sono assorbiti nel trattamento economico attribuito ai sensi dei commi precedenti.

Al criterio di omnicomprensività sfugge il solo trattamento economico da corrispondere al personale contemplato dal sesto comma dell’art. 19: per essi il trattamento economico può essere integrato da un’indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali.

L’art. 24 si conclude con una previsione di armonizzazione e perequazione dei trattamenti economici da corrispondere al personale dirigenziale non contrattualizzato.

La responsabilità dirigenziale

Come abbiamo accennato, il rapporto tra organo di governo e dirigente non si basa tanto sulla distinzione dei ruoli, quanto piuttosto sulla loro integrazione; tanto da prevedere forme “fisiologiche” di collaborazione, miranti a garantire l’opportuna fattibilità amministrativa dei programmi predisposti dal responsabile politico (art. 14, co. 1). Si tratta di una collaborazione basata anche sulla capacità di proposta del dirigente e che riguarda l’intera area di competenza organizzativa politica. Questa collaborazione ha motivo di essere proprio in quanto si sia precedentemente affermata la distinzione di responsabilità e competenze tra politica e amministrazione e, pertanto, di essa è ulteriore conferma e riconoscimento normativo: modalità di integrazione tra ruoli distinti e, contemporaneamente, strumento di evidenziazione delle rispettive responsabilità; presupposto necessario per l’attività di verifica dei risultati e, nello stesso tempo, di autotutela delle capacità dei dirigenti. La partecipazione tecnica alla definizione dell’attività di indirizzo, quindi, è in grado di salvaguardare l’autonomia dei due soggetti, ma anche di responsabilizzarli reciprocamente in merito alle rispettive sfere di competenza, con particolare riferimento alla responsabilità di risultato del dirigente.

Sembra contraddire quanto detto a proposito della collocazione nel nostro ordinamento della direttiva, l’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 che prefigurare una sua vincolatività quasi assoluta, tale da poter negare l’intero modello di “rapporto di direzione” tra organo politico e dirigente. Per evitare un’interpretazione che annullerebbe la logica riformatrice del decreto, il termine «inosservanza» non va interpretato in maniera tale da negare il “modello di direzione” voluto dal legislatore, ma valutato in ragione della capacità dimostrata dal dirigente, nel caso in cui decidesse di discostarsene, di aver opportunamente tenuto in conto le ragioni dell’organizzazione cui è preposto e dei risultati da conseguire. Con ciò non si intende affermare che i due elementi sanzionabili a norma dell’art. 21 («inosservanza delle direttive e risultati negativi») debbano essere considerati sinonimi, ma piuttosto che la sanzionabilità dell’inosservanza delle direttive dipende anche, se non soprattutto, dai risultati negativi ottenuti.

Con queste precisazioni deve leggersi la previsione contenuta nell’art. 21 che gradua il meccanismo sanzionatorio derivante dal mancato raggiungimento degli obiettivi o dall’inosservanza delle direttive per cause imputabili al dirigente; che non si tratti di responsabilità disciplinare ma di responsabilità organizzativa e gestionale si ricava dall’esplicito riferimento contenuto nello stesso art. 21, che considera cumulabile responsabilità disciplinare e responsabilità dirigenziale.

Le conseguenze della valutazione negativa operano in modo distinto sull’incarico o sul rapporto di lavoro che, come già detto, devono essere mantenuti distinti nell’analisi del lavoro dirigenziale; e infatti, la prima e immediata conseguenza riguarda l’impossibilità del rinnovo dello stesso incarico e, lungo la gradazione di gravità, la revoca dell’incarico con collocazione a disposizione dei ruoli, il recesso dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del contratto collettivo. Quest’ultimo riferimento al contratto collettivo rende possibile ricostruire l’ipotesi del licenziamento come ipotesi tout court disciplinare, riconducibile alle più gravi fattispecie di inadempimento contrattuale.

In altri termini, nel caso di responsabilità meno gravi, la dimensione della responsabilità dirigenziale resta distinta da quella eventuale della responsabilità disciplinare (conservativa); mentre nell’ipotesi di gravità estrema, le due fattispecie si fondano in una fortemente connotata disciplinarmente, determinando la risoluzione definitiva dell’incarico e del rapporto.

Ma anche nelle ipotesi non direttamente riconducibili alla responsabilità disciplinare, l’art. 22 appronta un meccanismo di tutela, prevedendo che i provvedimenti siano adottati previo parere conforme di un comitato di garanti che, per le amministrazioni centrali dello Stato, provvede anche a individuare nella composizione.

In ogni caso, si tratta di competenza dirigenziale che, anche nelle ipotesi di funzioni dirigenziali di livello generale è svolta da un dirigente sovraordinato di diretta emanazione politica.

Va comunque considerato che in caso di revoca illegittima di un incarico dirigenziale, il risarcimento del danno non patrimoniale presuppone la sua dimostrazione in giudizio, anche in via presuntiva, di una complessità di elementi quali le ragioni dell’illegittimità del provvedimento di revoca, le caratteristiche, durata, gravità e conoscibilità nell’ambiente di lavoro del demansionamento subito, la frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione, le eventuali reazioni poste in essere che provino l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale (Cass., 21.3.2012, n. 4479).

Il licenziamento del dirigente

La libera recedibilità ex art. 2118 c.c., che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale privato, non si applica al dirigente pubblico, a garanzia dei principi di imparzialità e buon andamento che rischierebbero di essere compromessi se il dirigente fosse eccessivamente legato alle sorti o alla volontà dell’organo politico.

Proprio per questo il meccanismo di spoils system non è riuscito a trovare spazio nel nostro ordinamento nel rispetto del principio costituzionale di autonomia dell’amministrazione dalla politica che la disciplina emanata agli inizi degli anni Novanta ha enfatizzato.

Secondo la sentenza della Corte costituzionale 23.3.2007, n. 103, «la contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto stesso (sentenza n. 313/1996). Se così fosse, è evidente, infatti, che si verrebbe a instaurare uno stretto legame fiduciario tra le parti, che non consentirebbe ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria. Di qui la logica conseguenza per la quale anche il rapporto di ufficio, sempre sul piano strutturale, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, debba essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongano che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. Ciò al fine di consentire che (anche) il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell’incarico – in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 della Costituzione)”. In tale prospettiva, è, dunque, indispensabile (sentenza 16.5.2002, n. 193 e ordinanza 30.1.2002, n. 11), che siano previste adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e dell’osservanza delle direttive ministeriali finalizzate all’adozione di un eventuale provvedimento di revoca dell’incarico per accertata responsabilità dirigenziale» (cfr. più di recente: C. cost., 11.4.2011, n. 124; C. cost., 25.7.2011, n. 246).

Ed è sulla base di queste considerazioni che la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del meccanismo di spoils system di cessazione automatica, ex lege o per mancata conferma allo scadere di un termine definito (tra le tante, cfr. C. cost., 7.5.2008, n. 161; C. cost., 24.2.2010, n. 81, e più di recente C. cost., 22.7.2011, n. 228).

Gli stessi principi sono stati applicati a tutte le amministrazioni pubbliche e a tutti i livelli dirigenziali con le sentenze 19.3.2007, n. 104, e prima ancora con la sentenza 5.6.2006, n. 233: con queste sentenze è stata esaminata la posizione dirigenziale nel comparto del Servizio sanitario, così come regolato da legislazioni regionali. Nella stessa scia interpretativa, e con espliciti richiami alla sentenza n. 104/2007, si pone la sentenza della stessa Corte, 7.5.2008, n. 161, che ha esteso il divieto di spoils system anche agli incarichi a dirigenti esterni appartenenti a ruoli di altre amministrazioni e ha accomunato l’automatismo di legge alla mancata conferma entro un termine determinato.

Anche la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 1.2.2007, n. 2233, argomenta per la diversità di regime giuridico tra licenziamento del dirigente privato e quello del dirigente pubblico per concludere che in caso di recesso illegittimo per mancata osservanza delle procedure e delle ipotesi di cui agli artt. 21 e 22 del d.lgs. n. 165/2001, trova applicazione la reintegrazione nel posto di lavoro a norma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, applicabile anche al pubblico impiego per espressa disposizione dell’art. 51 dello stesso d.lgs. n. 165/2001.

Questa interpretazione appare eccessivamente estensiva della volontà del legislatore: l’estensione del campo di applicazione della l. 20.5.1970, n. 300, infatti, è disposta dal secondo comma dell’art. 51 espressamente per superare il requisito di un numero minimo di occupati, ma non può riferirsi anche all’ambito categoriale di applicazione delle singole disposizioni dello Statuto.

Fonti normative

l. delega 23.10.1992, n. 421; d.lgs. 3.2.1993, n. 29; d.lgs. 30.3.2001; 165; l. 6.11.2012, n. 190; d.lgs. 14.3.2013, n. 33; d.lgs. 27.10.2009, 150; l. 15.7.2002, n 145.

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