DIRITTO D'AUTORE E NORMATIVA EUROPEA

XXI Secolo (2009)

Diritto d’autore e normativa europea

Laura Schiuma

Premessa

Il diritto d’autore, come tecnica di protezione di interessi che si appuntano sulla creazione delle opere dell’ingegno, nasce storicamente come diritto esclusivo di sfruttare economicamente l’opera, moltiplicandola in esemplari e vendendoli al pubblico, e – almeno nell’esperienza che si riconosce nel droit d’auteur – come diritto morale al riconoscimento della paternità dell’opera. In tempi recenti il diritto d’autore ha finito tuttavia per corrispondere a una pluralità di modalità giuridiche eterogenee, che spaziano dall’esclusiva (o privativa), atteggiata come diritto soggettivo reale e assoluto, a tecniche variamente riconducibili al diritto di credito a un compenso, diritto talora assoluto (verso qualunque utilizzatore), talora relativo (verso un soggetto predeterminato). L’eterogeneità delle tecniche di protezione in cui si risolve il diritto d’autore odierno è la risultante dell’impatto, sulle strutture economiche e sulle ‘mentalità’ degli uomini (Grossi 2006, pp. 51 e 87), delle sfide poste dall’evoluzione tecnologica alla configurazione del diritto d’autore come diritto esclusivo.

L’evoluzione del diritto d’autore è scandita, in particolare, da due eventi di grande rilevanza sul piano economico e tecnologico, quali l’invenzione della stampa a caratteri mobili prima e la cosiddetta rivoluzione digitale poi, eventi che mettono in secondo piano altri importanti progressi, quali il cinema, la radio e la televisione; e non è un caso che il paradigma originario del diritto d’autore – per quanto atteggiatosi nell’esperienza continentale come droit d’auteur e nell’esperienza anglosassone come copyright – sia stato riconosciuto dapprima nel Gutenberg Model e successivamente, a seguito dell’avvento della tecnologia digitale, nella Software law, se non altro nel senso che il software è la creazione che ha generato (unitamente all’hardware) lo stesso ambiente digitale. Si tratta di eventi che nella cultura giuridica segnano, l’uno, l’inizio dell’assimilazione del diritto d’autore al diritto di proprietà (proprietà intellettuale), l’altro l’accentuazione, se non l’esasperazione, di tale assimilazione; e forse anche il momento stesso della più forte messa in discussione della ‘configurazione dominicale’ del diritto d’autore come regime dell’innovazione (Spada 2007, pp. 439 e sgg.). Sullo sfondo, il passaggio da una visione antropocentrica, modellata sull’osservatorio privilegiato del soggetto e della sua creatività (l’assimilazione è alla ‘propriété’ in quanto il bene è ‘intellectuel’) a una visione mercato-centrica della proprietà intellettuale, incentrata sull’intento di lasciare l’autore libero di decidere le dimensioni di disponibilità e il prezzo della sua opera o, comunque, sulle aspettative reddituali dell’autore, pensato sempre meno come individuo e sempre più come «struttura organizzata che crea innovazioni» (Libertini 2005, p. 64), come impresa culturale.

La configurazione originaria e le nuove sfide

Per comprendere lo specifico delle questioni poste con l’avvento della tecnologia digitale, giova richiamare i presupposti sui quali si fonda il diritto d’autore nel suo paradigma originario. Questo, pensato con riferimento alle opere letterarie – per le quali è particolarmente evidente la distinzione tra opera protetta (per es., romanzo) ed esemplare dell’opera (il libro) – e configurato come diritto esclusivo di riprodurre l’opera in esemplari (cose) e di venderli al pubblico, presuppone tipicamente un’attività industriale volta a rendere l’opera accessibile al pubblico (l’attività editoriale), attività riservata all’autore. In questa temporanea immunità dalla concorrenza nello sfruttamento economico dell’opera consiste, sin dalle origini, il diritto d’autore, inteso «come assoluta libertà» dell’autore di scegliere le modalità attraverso cui sfruttare l’opera, decidendone il numero degli esemplari da immettere sul mercato e il prezzo (Romano 2001, p. 104). Questo modello, pur con qualche adattamen-to, ben si attaglia anche alle opere dell’arte figurativa (pittura, scultura), che sono per lo più in unico esemplare, e vi si attaglia, atteso che la riserva viene in tal caso riferita, non evidentemente alla moltiplicazione in esemplari, bensì alla specifica attività di intermediazione volta a rendere l’opera fruibile al pubblico, e segnatamente all’esposizione al pubblico (cosiddetto diritto di esposizione) e all’attività di scambio professionale delle opere d’arte (cosiddetto diritto di seguito). Ma il paradigma originario, incentrato sulla riserva di fabbricazione e distribuzione di ‘cose’, entra in crisi mano a mano che la tecnologia consente la fabbricazione e distribuzione di esemplari a condizioni che non presuppongono più un’attività di intermediazione industriale, come tipicamente accade nell’era digitale, contrassegnata, come efficacemente si dice, dalla «fine della fabbrica» (M. Ricolfi, Le nuove frontiere della proprietà intellettuale. Da Chicago al cyberspazio, in Diritto ed economia della proprietà intellettuale, a cura di G. Clerico, S. Rizzello, 1998, p. 91).

Ebbene, fintanto che la ‘fabbrica’ è esistita e che il fenomeno della reprografia e della copia privata di videogrammi e fonogrammi si sono avvalsi di una tecnologia, quella analogica, che ha reso imperfette e quindi non completamente succedanee (o concorrenziali) le copie dell’opera protetta, la sfida è stata fronteggiata affiancando, al diritto esclusivo di produzione e vendita degli esemplari, un prelievo sul prezzo di vendita delle fotocopie, dei supporti e delle apparecchiature atte a consentire la riproduzione privata, prelievo finalizzato alla ripartizione del ricavato tra gli autori (diritto a compenso). Ma con l’avvento della tecnologia digitale le cose sono andate diversamente: da un lato la tecnologia ha consentito a chiunque – solo che disponesse di un computer – di riprodurre copie perfette dell’opera a costo zero (o quasi), sì da rendere l’accesso alle opere indipendente dalla loro materializzazione in cose e dalla stessa intermediazione industriale; dall’altro lato, però, la sfida è stata fronteggiata senza mettere in discussione, non il diritto esclusivo, ma l’incentrarsi dell’esclusiva sulla riserva di fabbricazione.

Si deve considerare, infatti, che nel mondo digitale scompaiono le ‘cose’ e con esse: a) cambia il modo di accesso alle opere, che non necessita più dell’intermediazione industriale; b) cambiano le attività sulle quali si esercita il controllo dell’autore, che, non svolgendo più l’attività di riproduzione, non può più controllare il numero di esemplari messi in commercio; c) viene meno l’efficacia dissuasiva delle misure sanzionatorie per le violazioni del diritto d’autore, che non possono più consistere nell’apprensione di cose (da sequestrare, distruggere, assegnare in proprietà); d) viene meno l’efficacia di una regolamentazione che, da un lato, è governata dal principio di territorialità del diritto, ma, dall’altro, deve fare i conti con la fruizione ubiquitaria (nel senso di indipendente dai confini nazionali) di cui sono suscettibili le opere dell’ingegno (tanto più a seguito della diffusione della rete Internet come fenomeno di massa). Viene meno, quindi, tutto ciò, ma resta il diritto d’autore, modellato sempre come assoluta libertà dell’autore di scegliere il numero degli esemplari da immettere sul mercato e il prezzo.

Del resto, mutata la realtà, cambiano anche i bisogni di protezione e di nuovi ne affiorano all’orizzonte: così l’interesse dell’autore non è più disporre di un titolo giuridico verso gli editori (funzione antindustriale, v. Spada 2005, p. 25), che gli consenta di ridurre la subalternità economica nei confronti di chi rende l’opera accessibile al pubblico (l’accesso non presupponendo più l’intermediazione industriale), ma di un titolo giuridico verso i fruitori, tutti potenziali concorrenti nello sfruttamento economico oltreché nell’innovazione. L’interesse del pubblico, dal canto suo, non è più acquistare esemplari, il cui prezzo remunera sì il lavoro creativo, ma anche i costi industriali necessari per fabbricarli, bensì accedere alle opere protette a condizioni rese meno costose dalla tecnologia digitale e dalle economie di scala e, quindi, a condizioni più idonee a stimolare la competitività delle offerte, la circolazione delle opere, la creatività e la concorrenzialità dell’innovazione (tanto ‘per sostituti’, quanto derivata).

Dunque, esistevano due possibili modi di superare le nuove sfide: o ritenere superato il paradigma del diritto d’autore, come diritto esclusivo, e allora cercare un paradigma alternativo (prelievo? diritto a compenso? dominio pubblico pagante?), oppure adattare alla realtà digitale il diritto esclusivo. E, invece, nessuna delle due strade è stata percorsa in modo coerente: non la prima, essendosi preferito sin da subito intervenire direttamente sul diritto esclusivo, per adeguarlo, ma nemmeno la seconda, una volta intrapresa la quale (attraverso la moltiplicazione delle facoltà di sfruttamento), essendosi trovato il modo di adattare al diritto esclusivo la stessa realtà digitale (emblematica è l’apposizione da parte dei titolari delle cosiddette misure tecnologiche di protezione, una sorta di ‘recinto elettronico’ delle opere pensate come res).

Questo, in sintesi, quanto avvenuto negli sviluppi della legislazione sul diritto d’autore tra la rivoluzione digitale degli anni Novanta e questo primo scorcio del 21° secolo. Sviluppi il cui significato e la cui utilità rappresentano tuttora le questioni fondamentali e la maggiore sfida per il futuro dell’innovazione culturale e della circolazione delle idee.

La riflessione giuridica si è incentrata sulle scelte compiute dalla legislazione internazionale, comunitaria e nazionale in tema di proprietà intellettuale ed è giunta per lo più alla conclusione che vi sia stata un’espansione del diritto d’autore al di fuori dei suoi confini tradizionali: un’espansione da leggersi come segno, secondo taluni autori, di una deriva ‘iperprotezionistica’ del diritto d’autore (Ghidini 2001, pp. 15 e sgg.; Ricolfi 2002, p. 63).

L’espansione del diritto d’autore

La deriva viene per lo più riferita all’espansione dell’oggetto della protezione, laddove sembra che sia piuttosto da riferirsi all’estensione del contenuto del diritto d’autore, che ha riguardato non solo il passaggio dal controllo dell’attività a quello su ogni singolo atto di fruizione, ma anche l’ampliamento delle attività riservate. Di altro tenore è, invece, la percezione degli sviluppi sul fronte delle tecniche di protezione, dove si è assistito al venire meno dell’unicità del diritto esclusivo (property rule), reale e assoluto, e al suo affiancamento e talora sostituzione a opera di tecniche volte ad assicurare forme di compenso o indennizzo verso utilizzazioni difficilmente arginabili (liability rule): il che, più che come rafforzamento del diritto esclusivo, è stato visto ora come degradazione, ora come affievolimento, ora come «tributarizzazione» del diritto d’autore (L.C. Ubertazzi, Diritto d’autore, in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione commerciale, 4° vol., 1989, p. 367).

L’oggetto

Il valore dirompente che l’espansione avrebbe avuto sul fronte dell’oggetto risiede in ciò: a) che l’esperienza sulla quale storicamente gravitano gli interessi protetti dal diritto d’autore è quella delle ‘forme’ letterarie, plastiche, figurative, in breve dell’arte, non della tecnica (Spada 2005, p. 25) – l’innovazione tecnica essendo affidata al brevetto e non al diritto d’autore; b) che, mentre il diritto d’autore classico aveva per oggetto risultati espressivi finalizzati a un godimento meramente intellettuale o ‘estetico’ nel senso più ampio, il diritto d’autore odierno avrebbe finito per abbracciare risultati di ordine pratico-funzionale, come avvenuto nel caso del software, delle banche dati e dell’industrial design (v. J.H. Reichman, Legal hybrids between the patent and copyright paradigms, «Columbia law review», 1994, 94, pp. 2432 e sgg.; Ghidini 2001, pp. 98 e sgg.; Ricolfi 2002, p. 63; Cornish, Llewelyn 2007, p. 35; A. Lucas, H.-J. Lucas 20062, p.50). L’oggetto del diritto d’autore si sarebbe esteso, in altri termini, al campo delle creazioni tecniche o utili, con l’effetto di affidare al diritto d’autore, «geneticamente privo di anticorpi proconcorrenziali» (Ghidini 2001, p. 15), la protezione di creazioni che il paradigma classico riservava al brevetto, un diritto esclusivo in principio «più ricco di anticorpi proconcorrenziali», stante il suo essere riservato alle innovazioni tecniche che superino una soglia minima piuttosto elevata (altezza inventiva), il suo richiedere la divulgazione per il rilascio della privativa e il suo prevedere una licenza obbligatoria per le invenzioni derivate. Il momento cruciale di questa espansione sarebbe rappresentato dal «formidabile blitz del diritto d’autore nel campo del software, espressione tipica delle moderne tecnologie informatiche» (Ghidini 2001, p. 107), e avrebbe comportato uno ‘snaturamento’ della stessa creatività necessaria per accedere alla privativa, da intendersi come riferita, nel caso del software, non all’espressione della rappresentazione originale e personale della realtà dell’autore, come tipicamente accade nell’esperienza del droit d’auteur, ma al mero bisogno di remunerazione di investimenti industriali.

Si tratta di una lettura non persuasiva perché, enfatizzandone oltre misura la funzione utilitaria, nega al software quei caratteri che lo accomunano alle altre opere tutelate dal diritto d’autore e che rendono la tutela d’autore coerente con le dinamiche dell’innovazione in questo settore e filoconcorrenziale, più di quanto non appaia la tutela brevettuale (v. Schiuma 2007, pp. 683 e sgg.). A ben guardare, infatti, il software non è altro rispetto agli altri beni tradizionalmente tutelati con il diritto d’autore, poiché non è necessariamente un prodotto industriale, non richiede necessariamente investimenti industriali, e il suo sfruttamento, riproduzione e distribuzione non richiedono necessariamente l’intermediazione industriale; esso è invece una creazione dell’ingegno, ‘letteraria o artistica’ nel senso più ampio secondo cui letterarie possono essere considerate le opere scientifiche, che si esprime attraverso il linguaggio: quello di programmazione, fatto di principi scientifici, di formule matematiche, di logica formale, perfettamente intelligibile dall’uomo (ovviamente dall’uomo esperto informatico), non diversamente da quanto possa dirsi da sempre per la musica (la lettura del pentagramma essendo accessibile solo a chi conosca il linguaggio musicale) o possa dirsi oggi per l’arte contemporanea, il cui messaggio non è più, come per l’arte classica, universale, ma indirizzato a una ben precisa comunità intellettuale di iniziati, che condividono con l’artista un comune percorso culturale e che sono i destinatari privilegiati, se non esclusivi, di tale messaggio. E proprio in quanto linguaggio, anche il software poggia sulla distinzione, essenziale per tutte le opere proteggibili con il diritto d’autore (Auteri 20052, p. 493; Cornish, Llewelyn 2007, p. 417; A. Lucas, H.-J. Lucas 20062, p. 31), tra l’idea (l’algoritmo), non tutelata, e la forma d’espressione dell’idea (il software), questa, sì, tutelata, e tutelata tanto sul piano del codice sorgente, quanto del codice oggetto. Dunque, affidare la protezione del software al diritto d’autore è segno che l’ordinamento ha voluto tutelare il software come linguaggio – come opera dell’ingegno – prima ancora che come bene tecnologico, e dunque in sintonia, non in contraddizione, con gli altri oggetti protetti dal diritto d’autore, così facendo salva la concorrenzialità tra una molteplicità di forme di espressione. Non è dunque provando il suo ‘carattere tecnico’, il suo essere legato all’elaboratore, o la sua ‘applicabilità industriale’ che potrebbero conferirsi al software quei caratteri in assenza dei quali la Convenzione di Monaco sul brevetto europeo (1973) – che nega la proteggibilità dei programmi per elaboratore ‘come tali’ – gli avrebbe negato la tutela brevettuale, vero essendo piuttosto che, nonostante il suo carattere tecnico (il suo essere, come tale, per elaboratore), la scelta della Convenzione è stata quella di non considerare il software un’invenzione, e ciò perché opera del linguaggio (per quanto linguaggio mediato da un elaboratore) e quindi opera che sarebbe stato inopportuno – nonostante il carattere tecnico e nonostante l’applicabilità industriale (all’epoca addirittura quella dell’hardware) – in nome dell’interesse collettivo alla libertà del progresso, proteggere conferendo un’esclusiva, come quella brevettuale, estesa a ogni sua possibile futura applicazione pratica. Non è un caso, quindi, che proprio la tutela del software sia stata l’occasione attraverso la quale l’accordo TRIPs del 1994 (Trade Related aspects of Intellectual Property rights) ha esplicitato (all’art. 9, co.) il principio cardine su cui ha sempre poggiato il diritto d’autore, che la protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee (sull’attitudine di questo principio a «ridimensionare», in generale per il diritto d’autore, gli eccessi di protezionismo e gli effetti anticoncorrenziali, v. Romano 2008, p. 663).

La difficoltà di distinguere in taluni casi tra la forma e l’idea (si pensi all’arte astratta) o tra la forma e la funzione (si pensi al software che è vincolato alla funzione) non toglie, del resto, che anche per il software, in quanto linguaggio, possa distinguersi tra funzioni appropriabili e funzioni inappropriabili degli enunciati dei quali si compone; sicché, se è vero che nel linguaggio letterario, poetico e scientifico, appropriabile è solo la funzione emotiva (suscitare reazioni di approvazione o disappropriazione fino al piacere o alla sofferenza) e non quella indicativa (raccontare o rappresentare infinite volte lo stesso fatto, la stessa idea), nel caso del software appropriabile non sarebbe né una qualche funzione indicativa (che non c’è), né la sua funzione performativa (realizzare una certa funzione o risultato in termini di immagini, testi o suoni) (P. Spada, Banche di dati e diritto d’autore, «AIDA. Annali italiani del diritto d’autore», 1997, p. 18), ma altra funzione, che, se anche non volessimo chiamare ‘emotiva’, potremmo comunque considerare ‘espressiva’: non, evidentemente, della personalità dell’autore, ma della modalità (creativa) con la quale egli raggiunge, con operazioni diverse o con segni diversi, uno stesso risultato applicativo o funzione o performance. Una performance apprezzabile allora, al pari di quanto accade per le opere della scienza, con sentimento di approvazione o riprovazione per la specifica combinazione di segni – per ‘l’eleganza’, come si dice in gergo informatico – con la quale si perviene al risultato (l’eleganza escludendosi, per es., quando si impiegano venti righe di codice laddove ne basterebbe una sola). Pertanto, tutelabile, nel senso di appropriabile, non sarebbe qualunque banale variazione formale degli enunciati dei quali si compone il programma per elaboratore, ma solo quella ‘creativa’, per tale intendendosi quella capace di realizzare la funzione in modo espressivamente diverso e più ‘elegante’. Del resto, anche sul piano funzionale, si è constatato che la protezione offerta dal brevetto sarebbe, nel caso del software, più limitativa dell’innovazione e della concorrenza di quanto non appaia il diritto d’autore, perché il brevetto copre non solo la forma espressiva ma anche l’idea in sé (e quindi anche i principi scientifici, i metodi matematici e l’algoritmo inclusi nel ‘saper fare’ descritto nel trovato del quale si chiede la protezione – nella misura, almeno, nella quale non siano prospettabili alternative nuove e originali) e perché nel settore del software il progresso si attua solo per innovazioni incrementali, incapaci di operare quel ‘salto’ inventivo che solo giustificherebbe una tutela brevettuale. Con il che, non sarebbe il monopolio d’autore a essere accentuato dalla mancata previsione di una licenza obbligatoria per le opere derivate, ma sarebbe il monopolio brevettuale a essere mitigato dalla licenza obbligatoria, a fronte del suo essere una privativa molto più pervasiva (Schiuma 2007, p. 701); il brevetto sarebbe inoltre inadeguato agli interessi in gioco, stante la natura tipicamente cumulativa e incrementale dell’innovazione in questo settore e stante la sua attitudine a escludere dal potenziale mercato dell’innovazione, non già i meno capaci a innovare, ma i meno capaci a pagare royalties per sviluppare programmi derivati (il brevetto si presta anzi, nel caso del software, allo sviluppo di pratiche deteriori, come gli accordi di licensing e cross-licensing, volti a ridurre la concorrenza tra grandi imprese, ma precludendo sostanzialmente l’accesso al mercato a nuove e piccole imprese).

Il vero problema che si pone non è, allora, remunerare una creatività che si ridurrebbe agli investimenti industriali (eloquente il caso di Linus Torvalds, giovane studente dell’Università di Helsinki, che nel 1991 sviluppò il nucleo del sistema operativo – che da lui prese il nome – Linux o Gnu/Linux), ma quello di assecondare le pressioni della grande industria ad assicurarsi lo sfruttamento esclusivo dei programmi per elaboratore (oltre che a impedire che l’innovazione possa svolgersi al di fuori dei giganti del settore), sfruttamento esclusivo che, tuttavia, non sarebbe pienamente soddisfatto attraverso il diritto d’autore, atteso che il monopolio da questo assicurato, per quanto più lungo (70 anni post mortem auctoris contro i 20 anni del brevetto) ed esageratamente lungo (in entrambi i casi), non escluderebbe che altri possano sviluppare programmi formalmente diversi, pur riferiti alla medesima funzione: farebbe bensì salva, dunque, l’innovazione (derivata e concorrente) in questo settore – ben più di quanto non consentirebbe il brevetto – ma non anche profitti ampi ed esclusivi, come quelli assicurati dal brevetto. Di qui la scelta di tutelare il software con il diritto d’autore si è tradotta nel dettare una disciplina ‘speciale’, che si spiega non in virtù di pretese peculiarità del bene software, ma di un improprio rafforzamento del diritto d’autore con il segreto industriale (v. oltre).

Questo improprio rafforzamento del diritto d’autore spiegherebbe, inoltre, la stessa propensione con la quale, sul fronte del software, si tende a sanzionare gli abusi di posizione dominante ricorrendo al diritto antitrust: se l’impresa titolare del diritto d’autore è anche l’impresa dominante e il suo comportamento determina la cosiddetta standardizzazione (la progressiva emersione di caratteristiche uniformi dei programmi, rispetto alle quali è impossibile trovare forme espressive alternative), l’impresa dominante rischia, se si ostina a tenere segreta una forma necessaria a rendere possibile l’interoperabilità con altri programmi, la condanna per abuso di posizione dominante, per abuso – verrebbe da dire – del diritto d’autore (v. Tribunale CE, 17 sett. 2007, T-201/04, Microsoft corporation).

Non diversa è la situazione con riferimento alle banche di dati: effettuare «investimenti rilevanti» (v. art. 102 bis della l. 22 apr. 1941 n. 633, inserito a opera dell’art. 5 del d. legisl. 6 maggio 1999 n. 169) è condizione per accedere alla tutela solo con riferimento ai diritti connessi, non già con riferimento al diritto d’autore, che presuppone pur sempre, quale condizione di accesso alla tutela, la creatività, per quanto qui intesa come «l’arbitrio valutativo» (P. Spada, Banche di dati e diritto d’autore, «AIDA. Annali italiani del diritto d’autore», 1997, p. 8) di chi opera «la scelta o la disposizione del materiale» (art. 1, co., della l. 22 apr. 1941 n. 633, come modificato dal d. legisl. 6 maggio 1999 n. 169). Il diritto d’autore si traduce inoltre, in punto di protezione, in un’esclusiva sulla sola ‘forma’ espressiva (rectius sulle modalità con le quali i dati sono organizzati e presentati), non sulle idee e neppure sui dati, libero restando chiunque altro di realizzare altra banca dati organizzata in forma diversa (art. 2, co., della l. 22 apr. 1941 n. 633, come modificato dal d. legisl. 6 maggio 1999 n. 169 ). Non si può negare che vi siano comunque dei limiti frapposti dal diritto connesso a questa libertà di forme, avendo il costitutore della banca dati il diritto di vietare la ‘estrazione’ e/o il ‘reimpiego’ dei dati. Ma tali limiti non derivano – di per sé – dall’espansione dell’oggetto del diritto d’autore (solo in questo senso sembra, dunque, da ridimensionare l’idea che tale disciplina avrebbe apportato uno ‘strappo’ al principio generale secondo il quale «la tutela è commisurata alla contribuzione al benessere collettivo, e non alla tutela dell’investimento, apprestando una protezione inaudita alle banche dati»: Ricolfi 2007, p. 224; v. anche Reichman 2002).

Stesso discorso vale – per quanto non interessate dalla rivoluzione digitale – per le opere dell’industrial design, la cui protezione con il diritto d’autore è accordata solo all’opera che presenti «di per sé carattere creativo e valore artistico» (art. 2, 10° co., della l. 22 apr. 1941 n. 633, come aggiunto a opera del d. legisl. 2 febbr. 2001 n. 195) in quanto capace di svolgere una funzione estetica, emotiva, espressiva che va oltre quella utilitaria.

Il contenuto

Più che sul fronte dell’oggetto, la deriva deve essere allora ricercata altrove. I problemi di maggiore rilevanza sembrano, infatti, quelli posti sul fronte del contenuto del diritto d’autore, e ciò non tanto per l’aumento del numero delle facoltà riservate (il «noleggio» e «prestito» potendosi considerare già inclusi nella riserva di sfruttamento per il combinato disposto degli artt. 12 e 19 della citata legge, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale con sentenza n. 53/1997), quanto piuttosto per la sempre maggiore ampiezza di tali facoltà e soprattutto perché il controllo dell’autore ha finito per estendersi «dall’attività ad ogni singolo atto di fruizione dell’opera» (Romano 2001, pp. 162 e 184), il che ha sostanzialmente eliminato nell’ambiente digitale il campo del mero godimento delle opere dell’ingegno.

Dall’attività agli atti di fruizione. L’estensione del controllo dell’autore dall’attività di sfruttamento a ciascun singolo atto di fruizione è stata correntemente, ma non convincentemente, ricollegata, ancora una volta, alla scelta di tutelare il software con il diritto d’autore; e non convincentemente, perché il controllo su ogni singolo atto di fruizione nel caso del software non è dipeso né dal suo (preteso) essere anomalo come oggetto di protezione, né dalla peculiarità del suo diritto d’autore, ma da un’impropria convivenza tra diritto d’autore e segreto industriale, instaurata dagli artt. 64 bis, 64 ter e 64 quater della citata legge, in materia di programmi per elaboratore. Tali disposizioni consentono, infatti, a chi acquista il programma la sola riproduzione finalizzata all’uso («visualizzazione, esecuzione, trasmissione o memorizzazione»: art. 64 ter) e la sola decompilazione finalizzata a rendere possibile l’interoperabilità con altri programmi (già esistenti), non anche a sviluppare programmi sostanzialmente simili nella forma espressiva (art. 64 quater) e, dunque, a rendere possibile l’innovazione derivata. Pongono pertanto l’autore nella condizione di controllare ogni singolo atto di fruizione (diversamente da quanto accade nel mondo delle ‘cose’, dove l’acquirente di un libro può leggerlo, rileggerlo o farlo leggere quanto vuole), in quanto fanno salvo il permanere del segreto industriale sul codice sorgente (e quindi sull’idea alla base del programma protetto con il diritto d’autore), in tal modo rallentando la concorrenza nell’innovazione (l’innovatore potendo esprimere in forma diversa la stessa idea solo dopo avere impiegato energie nella ricostruzione dell’idea, che, a dispetto di quanto accade per un romanzo, un film o una statua, qui rimane segreta) e assegnando all’autore un vantaggio competitivo sull’innovazione maggiore rispetto a quanto gli consentirebbe il (solo) diritto d’autore (ben di più, quindi, dell’artificial lead time assicurato dal diritto esclusivo, v. il già citato Reichman 1994, pp. 2453-500). È solo dal codice sorgente, infatti, che si desume la logica del programma, i problemi che colui il quale l’ha ideato si è posto, il modo in cui li ha risolti ed è quindi dalla sua conoscenza che i terzi potranno essere stimolati a percorrere strade alternative.

In questa convivenza – virtuosa o perniciosa, secondo i punti di vista – consiste, dunque, l’anomalia della tutela del software, convivenza che si traduce in un controllo sulle utilizzazioni degli utenti (qui, peraltro, ‘acquirenti’).

L’influenza esercitata dalla disciplina del software sul diritto comune d’autore delle opere fruibili in ambiente digitale consiste, allora, nell’avere offerto un modello per trasfondere nel diritto comune non, evidentemente, l’innesto tra diritto d’autore e segreto industriale (ivi consentito dalla dicotomia codice sorgente/codice oggetto), ma gli effetti deformanti di tale innesto, consistenti nel riservare all’autore il controllo su quegli atti di fruizione che portano a rallentare la concorrenza nell’innovazione, anziché a stimolarla, oltre che a moltiplicare, non tanto i mercati sui quali sfruttare in posizione monopolistica la sua opera (come secondo il modello classico degli artt. 12, 19 e 119, co., della citata legge), quanto piuttosto i mercati dove sfruttare ogni singolo possibile utilizzo di ciascun esemplare digitale alienato: nonostante, quindi, l’acquirente abbia già pagato il prezzo d’acquisto (dell’esemplare digitale, sia on-line, sia off-line) e nonostante l’intervenuto esaurimento del diritto d’autore. Una moltiplicazione dei mercati realizzata, per così dire, ‘occultando’ all’acquirente le diverse utilità che discendono dall’esemplare acquistato, per farle poi ‘ricomparire’ una a una, a seguito di apposita negoziazione. Consiste, in altri termini, nell’avere in qualche modo ‘sdoganato’ l’idea che le ragioni dello sfruttamento economico dell’autore possano essere spinte al punto da prevalere sulle legittime ragioni degli utilizzatori quand’anche acquirenti, e prevalere in nome di un meccanismo che, da remunerativo, sembrerebbe diventare assicurativo: contro il rischio della pirateria, contro il rischio della copia domestica, contro la velocità, cumulatività, incrementalità e volatilità dell’innovazione in tale settore (v. Gille 2005, p. 266, per quanto non riferito al mondo digitale).

Di qui, l’inizio di una stagione normativa che, nell’affrontare le questioni poste dall’avvento della tecnologia digitale e dallo sfruttamento delle opere in rete, ha finito per dare per assodate le seguenti acquisizioni: a) che dietro a ogni utilizzatore si nasconde sempre un potenziale concorrente e un potenziale innovatore; b) che per questo la riproduzione, in cui sempre si risolve la fruizione, è attività da riservarsi all’autore anche nell’ambiente digitale (dove pure non è svolta, né controllata dall’autore, ma rimessa agli utenti), e da riservarsi quand’anche limitativa delle utilizzazioni stesse del bene digitale, una volta acquistato dagli utenti; c) che se questa estensione (‘ultrattività’, verrebbe da dire, della riserva nonostante l’intervenuto esaurimento) è capace di comprimere le ragioni degli utenti finali ed è stata operata nel caso del software già solo con riferimento a legittimi ‘acquirenti’, è a fortiori plausibile sia applicata anche a utilizzatori non paganti. Di qui, l’acquisizione de plano che l’autore di qualunque opera fruibile in rete sia da tutelare con il vantaggio di poter controllare, con il proprio consenso o comunque dietro compenso, ogni singolo atto di fruizione, e ciò sul presupposto che ogni fruizione implica sempre una riproduzione della sua opera: il che ha reso superflua ogni considerazione in ordine alla rilevanza (costituzionale? conformante?) delle ragioni su cui si fonda l’interesse alla fruizione oltreché sull’idoneità del diritto d’autore a fungere tuttora da incentivo alla creazione e alla circolazione delle idee nell’ambiente digitale. Una scelta di campo, questa, che si è tradotta, con riferimento al diritto comune d’autore, anche nella moltiplicazione delle facoltà riservate all’autore e nella compressione delle utilizzazioni libere, le cui implicazioni sul piano economico e giuridico vengono analizzate in seguito.

La moltiplicazione delle facoltà riservate. La moltiplicazione delle attività riservate a) è un’ulteriore occasione di moltiplicazione dei mercati sui quali sfruttare l’opera nell’ambiente digitale e ha riguardato b) ogni forma di riproduzione (parziale, totale, permanente, temporanea, effimera ecc.) e la stessa c) comunicazione al pubblico, anche nella forma on demand, d) non invece la distribuzione, che, presupponendo le ‘cose’, tende a scomparire dal mondo digitale.

La moltiplicazione delle attività riservate, come occasione per moltiplicare i mercati dello sfruttamento dell’opera, si fonda sul presupposto che le facoltà archetipe dell’autore, consistenti nella moltiplicazione in copie (cui va ricondotto oggi lo stesso diritto di distribuzione o messa in commercio di copie) e nella esecuzione, recitazione e rappresentazione in pubblico (cui va ricondotto oggi lo stesso diritto di diffusione attraverso mezzi di comunicazione a distanza), tendono a sovrapporsi nell’ambiente digitale. Così, da un lato «la riproduzione è allo stesso tempo una forma di diffusione e viceversa la diffusione implica sempre riproduzione nella macchina ricevente» (Romano 2001, p. 159) e, dall’altro lato, lo stesso mezzo è allo stesso tempo ‘utilizzazione economica’ da parte dell’autore (e quindi attività riservata all’autore in virtù della privativa) e ‘fruizione’ da parte dei terzi (e dunque atto che nel modo degli esemplari è solitamente sottratto al diritto esclusivo, ma che non è così scontato lo sia anche nel mondo digitale). Questa sovrapposizione è stata vista come un’ingiustificata compressione delle facoltà di sfruttamento dell’opera «in ogni forma e modo» (art. 12 della citata legge) e della proclamata indipendenza tra le diverse facoltà (artt. 19 e 119, co., della citata legge) con le quali l’ordinamento garantisce all’autore non tanto uno sfruttamento monopolistico della propria opera, quanto piuttosto «la realizzazione di una pluralità di mercati sui quali sfruttare in posizione monopolistica il proprio diritto» (Romano 2001, p. 171).

La circostanza, inoltre, che lo stesso mezzo sia allo stesso tempo ‘utilizzazione economica’ da parte dell’autore e ‘fruizione’ da parte degli utenti ha posto le premesse perché potesse ritenersi non più giustificata l’immunità dal diritto esclusivo non solo del mero godimento, ma delle stesse utilizzazioni libere, libere non potendo più essere nel momento che l’atto di utilizzazione è al tempo stesso un atto di sfruttamento, e quindi da riservarsi all’autore.

La fruizione resta, dunque, sottratta al diritto esclusivo nel mondo degli esemplari (dove lo stesso prelievo è funzionale a evitare la soggezione degli utenti al diritto esclusivo) e non anche in quello digitale, non già perché le ragioni della fruizione non meritino di essere tutelate nel mondo digitale, ma perché il legislatore ha ritenuto più ‘debole’ la posizione degli autori nell’ambiente digitale a fronte di quella ‘forte’ degli utilizzatori, in quanto potenziali concorrenti e potenziali innovatori. Di qui, l’ampliamento del catalogo delle facoltà di sfruttamento riservate all’autore, cui, accanto alla comunicazione al pubblico, è riservata ogni altra forma di riproduzione. Il che, tuttavia, non appare il portato ontologico della tecnologia digitale, ma della scelta politica di tutelare (asimmetricamente) le ragioni dell’autore, a prescindere dalla considerazione di ogni altra ragione che interferisse con il suo sfruttamento economico, la sovrapposizione avendo potuto portare, in linea teorica, anche alla scelta opposta (che, a causa della sovrapposizione, ogni riproduzione dovesse essere lasciata alla fruizione, e lo sfruttamento riservarsi ad altre attività, più congeniali all’ambiente digitale).

La situazione attuale

All’esito dell’evoluzione suddetta tutta la riproduzione è riservata, nel senso che qualunque atto deve essere autorizzato dal titolare – salvo che non ricorrano i presupposti per le utilizzazioni libere – e il mero godimento scompare dal mondo digitale. La situazione non è paragonabile a quella verificatasi con l’introduzione del prelievo sulle apparecchiature di registrazione di fonogrammi e videogrammi e relativi supporti, il quale non estende lo ius excludendi oltre le attività di sfruttamento dell’opera dell’ingegno (v. D. Sarti, Copia privata e diritto d’autore, «AIDA. Annali italiani del diritto d’autore», 1992, p. 46) e, soprattutto, presuppone l’esistenza della ‘fabbrica’, assente invece nel mondo digitale.

Le utilizzazioni libere

Contrariamente a quanto accaduto per la riproduzione, nel mondo digitale le utilizzazioni libere subiscono una forte compressione in virtù dell’ evoluzione suddetta, viziata evidentemente dal preconcetto per il quale le ragioni dell’utenza sarebbero attenuazioni, deformazioni o compressioni di un diritto altrimenti pieno dell’autore, anziché elementi ‘conformanti’ di tale diritto. Questa lettura non trova riscontro sul piano storico. L’ispirazione giusnaturalistica del droit d’auteur non toglie infatti che, sin dalle sue origini rivoluzionarie, il diritto d’autore, per quanto presentato come la plus sacré des propriété (e quindi come diritto inalienabile, e inalienabile perché legato all’autore dalla sua stessa creatività), è costruito come propriété (incorporelle) nei limiti in cui la qualificazione non trasformi il diritto in un ostacolo allo sviluppo della cultura (indagini storiche hanno acclarato che questa sarebbe la ragione per la quale lo stesso Napoleone non volle plasmare tale diritto come dotato di perpetuità, almeno in capo agli eredi. Si veda Moscati 2008, p. 436).

E non trova riscontro neppure sul piano di una lettura costituzionalmente orientata del diritto d’autore, le utilizzazioni libere fondandosi sugli stessi articoli, 9 e 33 della Costituzione (Pennisi 2005, p. 185), nei quali si riconosce il fondamento del diritto d’autore (peraltro riconducibile anche ad altre disposizioni, quali l’art. 35, l’art. 41, l’art. 42, l’art. 21, l’art. 3), segno inequivocabile della volontà dell’ordinamento di attribuire una funzione conformante essenziale alla libertà di talune utilizzazioni delle opere dell’ingegno (e segnatamente alla libertà di fare copia), ove motivate da superiori ragioni d’insegnamento, di ricerca, di critica, di discussione, di cronaca (politica o d’attualità, non mondana o calcistica), che si appuntano in quelle norme costituzionali. Le stesse disposizioni in tema di proprietà e di iniziativa economica, sulle quali pure si fonda il diritto d’autore, trovano un limite nella ‘funzione sociale’ e nell’‘utilità sociale’, l’utilità sociale non significando mera utilità economica, ma «valore comprensivo» anche di altrui «libertà» (art. 41 Cost.), oltreché «del dovere di solidarietà, anche economica (art. 2 Cost.)» (Oppo 2001, p. 7). Che dunque «il diritto d’autore promuove la cultura con strumenti coerenti al principio costituzionale di libertà di iniziativa economica» (L.C. Ubertazzi, Le utilizzazioni libere della pubblicità, «AIDA. Annali italiani del diritto d’autore», 1994, p. 69), non esclude affatto – e anzi significa proprio – che tali strumenti devono essere coerenti con il limite dell’utilità sociale, comprensiva anche delle altrui ‘libertà’ che dovessero essere riconosciute da altrettanti valori di rango costituzionale. Un limite che resta fermo, nonostante la prevalenza, «nei possibili conflitti tra ordine comunitario e ordine interno, del primo sul secondo», tale prevalenza non comportando, di per sé, che «l’utilità economica comunitaria prevalga anche sull’utilità sociale quando vi sia contrasto tra le due» (Oppo 2001, pp. 9, 13): l’inderogabilità da parte dell’ordinamento comunitario dei principi fondamentali della Costituzione italiana non è stata posta in discussione, infatti, né dagli artt. 10 e 11, né dal rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» di cui all’art. 117 della stessa Costituzione (nel testo modificato rispettivamente dalla legge costituzionale nel 2001 e nel 2003), i quali ultimi si aggiungono e non si sostituiscono al «rispetto della Costituzione».

Di qui, in virtù del limite costituzionale dell’utilità sociale, stimolare l’innovazione con l’attribuzione della privativa significa dare alla privativa un valore strumentale e non finale, non già limitare lo sviluppo del progresso a quello che si genera consentendo al titolare di trarre il massimo profitto dalla privativa. Un progresso della cultura, che si realizzasse nella limitata misura nella quale si arricchisca l’autore, non spiegherebbe né come mai l’ordinamento abbia previsto, sin dall’origine, che talune utilizzazioni restino libere nonostante siano mancate occasioni di guadagno per l’autore, né come mai il diritto d’autore sia stato incluso tra i diritti dell’uomo – sia nella Dichiarazione universale (1984), sia nel Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali (1966) –, il cui scopo precipuo è proprio quello di promuovere l’interesse pubblico alla crescita culturale.

Le utilizzazioni libere, già disciplinate dalla citata legge italiana sul diritto d’autore, da ‘libere’, che erano, diventano, in forza della direttiva 2001/29/CE e poi degli artt. 65-71 decies della novellata legge italiana sul diritto d’autore, ‘eccezioni’ e ‘limitazioni’, che si applicano in casi determinati. La loro portata conformante ne giustifica l’applicabilità estensiva e analogica e non esclude siano sempre da sottoporre a rigoroso Three-step test, vere ‘forche caudine’ da ragguagliarsi ora, a seguito della direttiva 2001/29/CE, non solo all’interesse dell’autore, ma anche degli altri ‘titolari’ di diritti connessi (editori, produttori, artisti interpreti ed esecutori; v. Ricolfi 2001, p. 466); la loro previsione diventa, inoltre, quasi sempre legata a un prelievo o a un equo compenso, nel senso che sono libere (dal consenso) ma paganti (Spada 2002, p. 593). Nel mondo digitale, diversamente da quanto accaduto circa le facoltà riservate all’autore, che sono state moltiplicate, i ‘casi determinati’ delle utilizzazioni libere non sono stati aggiornati (e semmai la direttiva indicava che la loro ‘portata’ potesse essere ‘ulteriormente limitata’: v. considerando n. 44); queste sono poi, di fatto, vanificate da tecniche contrattuali (licenze) o dall’apposizione, da parte dei titolari, di misure tecnologiche di protezione, atteso che a) contrattualmente le eccezioni e limitazioni sono correntemente escluse – licenze shrink-wrap – (v. Ricolfi 2000, p. 463; Lessig 2006, p. 202; Caso 2004, pp. 109, 170); b) la legge vieta, per quanto in sé non sanzioni, l’elusione delle misure tecnologiche di protezione apposte dai privati e vieta, con sanzione anche penale, la produzione, distribuzione, detenzione per scopi commerciali di dispositivi funzionali alla rimozione o elusione; c) la legge non previene, né reprime l’apposizione abusiva; d) l’apposizione (sia quella abusiva – su materiali non proteggibili o che superi la durata del diritto – sia quella lecita) impedisce gli accessi abusivi, ma anche le utilizzazioni libere, atteso che la legittimazione a esercitare un’utilizzazione libera è più declamata che non dotata di effettività: esige un comportamento positivo di chi appone la misura, tale comportamento può essere richiesto solo da soggetti già dotati (come possono esserlo?) di ‘possesso legittimo’ o ‘accesso legittimo’ al materiale protetto e non conduce necessariamente (attraverso una macchinosa procedura, che passa per la stipula di appositi accordi con non meglio qualificate ‘associazioni di categoria rappresentative dei beneficiari’, in mancanza dei quali si deve procedere a ‘tentativo obbligatorio di conciliazione’) alla rimozione delle misure, ma solo all’adozione di ‘misure idonee’ per consentire l’esercizio delle eccezioni.

Ancora più restrittiva è la situazione con riferimento alle opere fruibili on demand (art. 71 quinquies, co.) perché per esse non si applicano nemmeno le disposizioni che obbligano ad «adottare idonee soluzioni» (art. 71 quinquies, co.). Il risultato è che per tali opere, e in generale per quelle fruibili on-line, in presenza delle misure tecnologiche di protezione, non esistono più le utilizzazioni libere (Pennisi 2005, p. 193); ciò che rende più conveniente per autori ed editori pubblicare le opere on-line, evitando lo stesso esaurimento (non dandosi distribuzione, ma solo riproduzione e comunicazione delle opere on-line). Questa situazione pone seri ostacoli alla diffusione della cultura, perché il non essere incorporate in un oggetto materiale determina la ‘perdita di fissità’ delle opere digitali (v. Romano 2001, pp. 153 e sgg.) e questo significa anche perdita della memoria (sia per ragioni economiche, che dovessero interrompere la messa a disposizione del pubblico, sia per l’obsolescenza dei supporti o dei programmi che fissano le opere, rispetto alle apparecchiature con le quali verranno lette in futuro). Non si tratta di un problema esclusivamente tecnico: «la persistenza delle memorie coinvolge l’essere stesso della civiltà; […] è infatti la condizione fondamentale per la permanenza nel tempo di una civiltà e di una cultura, è condizione perché esista la storia» (T. Gregory, Introduzione a L’eclisse delle memorie, a cura di T. Gregory, M. Morelli, Roma-Bari 1994, p. XIII).

Il problema dell’adattamento del diritto d’autore all’ambiente digitale è stato risolto, in definitiva, non già trovando un nuovo equilibrio tra le ragioni dello sfruttamento e le ragioni della fruizione – equilibrio che conforma sin dalle origini il diritto d’autore (si vedano in partic., gli artt. 68 e 70 , che pongono il solo limite generale del divieto di «utilizzazione in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all’autore») – ma solo moltiplicando le occasioni di sfruttamento dell’autore, nonostante che la tecnologia digitale avesse reso obsoleto il modello economico presupposto dal diritto d’autore (riproduzione intermediata) e al contempo reso più agevole ed economico l’accesso alle opere protette (accesso disintermediato). L’accesso disintermediato è visto, infatti, solo come pericolo di pirateria, non anche come nuova opportunità di accesso legale in un ambiente concorrenziale. Di qui il timore che il diritto d’autore, da premio/incentivo dell’innovazione possa tradursi oggi in una misura fine a sé stessa, capace più di ostacolare che non di incentivare l’innovazione e la circolazione delle idee (o il «progresso culturale», «quella finalità di progresso che poi giustifica la tutela», come sosteneva Tullio Ascarelli in Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, 1960, p. 308).

Una lettura alternativa della riserva di riproduzione

Di qui l’importanza di verificare se vi siano correttivi che possano, almeno sul piano interpretativo, ridimensionare quella portata (iper)monopolistica del diritto d’autore che si ricava dal diritto scritto: si pensi a una lettura alternativa, in chiave restrittiva della riserva di riproduzione nel mondo digitale, volta a riconoscere uno spazio al mero godimento dei terzi – il che è speculare a quanto insegnava lo stesso Ascarelli, nella sua Teoria della concorrenza e dei beni immateriali (1960), là dove diceva che «l’interesse tutelato» dal diritto d’autore «non è quello al godimento delle utilità della cosa materiale […] ma quello di una probabilità di guadagno costituita dalla possibilità di utilizzare la creazione intellettuale e anzi utilizzarla in un’attività con i terzi» (p. 310).

Gli argomenti che depongono per una lettura alternativa saranno esposti nei paragrafi che seguono.

Il fondamento economico. Il primo argomento è che ‘la fine della fabbrica’ rende non più giustificato sul piano economico incentrare lo sfruttamento dell’opera sull’attività di riproduzione, che è disintermediata, svolta dagli utenti e non più controllabile dall’autore, decidendo il numero di esemplari da mettere in circolazione e il prezzo.

Riservare la riproduzione all’autore si giustifica storicamente, infatti, nel mondo degli esemplari, in quanto è l’autore che procede, per il tramite dell’editore, all’attività di fabbricazione e ne sostiene i relativi costi di produzione, costi da remunerarsi attraverso la vendita degli esemplari, il cui prezzo tiene conto, non solo del lavoro creativo, ma anche dei costi di produzione dei medesimi. Nel mondo digitale, invece, la riproduzione dell’opera è svolta direttamente dai singoli fruitori: la riserva di riproduzione in capo all’autore non è più lo specchio di un’attività svolta dall’autore (o dall’editore) e nemmeno di un’attività che l’autore è più in grado di controllare; è lo specchio di un archetipo che non corrisponde più alla realtà delle cose.

Viene spontaneo domandarsi allora – volendo tenere ferma la configurazione del diritto d’autore come diritto esclusivo nell’ambiente digitale – se non sarebbe stato più coerente far dipendere la remunerazione degli autori (e quindi l’incentivo stesso alla ‘creazione’ e alla realizzazione di economie di scala nello sfruttamento dell’opera) dall’incentrare la riserva di sfruttamento, anziché sull’attività di riproduzione, su altra attività che, nell’ambiente digitale, permane in capo dall’autore e che questi è in grado di controllare. Forse che questo interrogativo non abbia meritato di essere posto perché incoerente con la stessa parola copyright?

Rifuggendo dall’uso sostanzialistico delle parole, ci si deve interrogare sulle ragioni per le quali gli ordinamenti giuridici hanno continuato a incentrare il diritto d’autore sulla riserva di riproduzione nello stesso ambiente digitale, nonostante che il vantaggio offerto dalla funzione normativa (richiamare un foltissimo apparato di regole di origine legislativa, anche di rango internazionale, e giurisprudenziale ricollegate al diritto di riproduzione) sia accompagnato, se non addirittura neutralizzato, da non trascurabili inconvenienti capaci di compromettere la funzione stessa del diritto d’autore come regime dell’innovazione.

Gli inconvenienti funzionali della riproduzione digitale. Innanzitutto, dal punto di vista degli interessi in gioco, la riserva di riproduzione digitale non solo non è più necessaria per rendere accessibili le opere, ma finisce piuttosto per contrastare l’accesso alle stesse (il che non sarebbe di per sé un problema, se non fosse che il diritto d’autore, come la proprietà intellettuale, non si trova allo stato di natura; è una creazione artificiale, funzionale anche alla promozione culturale e alla circolazione delle idee). In secondo luogo, il venire meno della fabbricazione degli esemplari, come medium per accedere alle opere nell’ambiente digitale, rende palese che altro è il problema di remunerare i costi per la (ri)produzione, tutt’altro quello di remunerare i costi per la creazione, legittimando così un’aspettativa del pubblico di accedere alle opere a prezzi inferiori rispetto a quelli richiesti nel mondo degli esemplari (almeno per le opere diverse da quelle multimediali e cinematografiche, i cui costi industriali sono elevati e necessari già per realizzare l’opera). E invece l’indiscriminata (rispetto alla natura delle opere) moltiplicazione delle occasioni di sfruttamento (stante il mantenimento e la dilatazione della riserva di riproduzione oltreché l’estensione delle altre facoltà) funge proprio da moltiplicatore del prezzo per accedere alle stesse: sicché, anche in una prospettiva di analisi costi/benefici, non è del tutto superabile la natura non rivale del bene protetto (opere dell’ingegno come commons), atteso che, anche passando da una parziale escludibilità (privativa) a una totale escludibilità dell’accesso (overstretching della privativa) – se non pagando il maggior prezzo richiesto dall’autore –, resta il problema del costo sociale di un’informazione venduta a un prezzo superiore al costo marginale (zero o quasi), quand’anche ‘spacchettata’ e venduta sotto forma di un uso alla volta. Più in generale, non è detto che i consumatori, che hanno accesso a informazioni attraverso sistemi come il fair use o le utilizzazioni libere, siano disposti a pagare il prezzo, superiore al costo marginale, connesso a un maggior potere di mercato così artificialmente conseguito, e tanto più artificialmente rinforzabile attraverso il ricorso al contratto e alle misure tecnologiche di protezione (v. Caso 2004, p. 179, con riferimento al «controllo tecnologico-contrattuale assoluto»; ma anche Lessig 2006, p. 175, con riferimento al «controllo perfetto»); per non parlare di quanto accade quando lo Stato mette a disposizione il suo «braccio armato», trasformando il diritto d’autore nel «trionfo della forza d’autore» (Spada 2002, p. 603).

A fronte di tali inconvenienti, la riserva di riproduzione nel mondo digitale (oggi mantenuta e anzi amplificata fino a coprire ogni singolo atto di fruizione) sembra allora assegnare al diritto d’autore, nato in funzione antindustriale (per compensare la subalternità economica degli autori verso gli editori), una funzione che non è né anti, né filoindustriale, ma piuttosto pseudoindustriale (nel suo prendere il posto di una fabbrica che non c’è), che rischia di diventare finanche antisociale, nel suo vanificare, attraverso un opportuno dosaggio di contratto e autotutela presidiata dallo Stato, le ragioni della fruizione (quand’anche fondata su altrettanti valori costituzionali e legittimata da eccezioni e limitazioni conformanti lo stesso diritto d’autore).

Il bisogno di adattamento del diritto esclusivo al mondo digitale. L’ambiente digitale suggerisce piuttosto di incentrare il diritto esclusivo di sfruttamento economico – ove non si voglia mettere in discussione la stessa opportunità del diritto esclusivo – su altra facoltà che realmente è svolta dall’autore (o da intermediari della fruizione) e soprattutto da questi controllabile: penso alla immissione in rete, alla comunicazione al pubblico di cui all’art. 16 della citata legge, oggi intesa anche come «messa a disposizione del pubblico […] in maniera che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente» (comunicazione interattiva, on demand). La realtà economica reclama, in altri termini, una ridefinizione del core business dell’esclusiva dell’autore nel mondo digitale e questo potrebbe rintracciarsi nella comunicazione al pubblico (v. anche P.B Hugenholtz 1996, p. 101), come mezzo per consentire all’autore di realizzare economie di scala nello sfruttamento, negoziando l’opera sul mercato e cedendola a intermediari della fruizione (biblioteche digitali, cui si accede per abbonamento, parte del ricavato del quale sia destinato a essere ripartito tra gli autori in proporzione agli accessi registrati per ciascuna opera, secondo un modello di distribuzione detto pay-per-subscription, antitetico al modello pay-per-item, dove l’utente paga per ogni copia che ottiene dalla rete; v. Zamparelli 2005, p. 142).

Si liberalizza la riproduzione digitale, dunque, e si riserva la comunicazione, il che significa controllare l’accesso, non alle opere, ma ai magazzini dove sono le opere. Sennonché, il catalogo è questo!

Riservata è non solo la ‘comunicazione al pubblico’, di cui all’art. 16, ma anche la ‘riproduzione’, e riservata nella misura così ampia da ricomprendere la moltiplicazione in copie «diretta o indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte […] in qualunque modo o forma, come la copiatura a mano, la stampa, la litografia, l’incisione, la fotografia, la fonografia, la cinematografia ed ogni altro procedimento di riproduzione» (art. 13). Le due riserve si cumulano, dunque, e in tal modo si estende a macchia d’olio la realtà monopolizzabile con il diritto d’autore.

Il vincolo testuale e l’opportunità di una lettura restrittiva. Il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera «in ogni forma e modo […] nei limiti fissati da questa legge, ed in particolare con l’esercizio dei diritti esclusivi indicati negli articoli seguenti» (art. 12) e la proclamata ‘indipendenza’ tra le diverse facoltà (artt. 19; 119, co.), se da un lato garantiscono all’autore la realizzazione di una pluralità di mercati sui quali sfruttare in posizione monopolistica la propria opera, dall’altro lato indicano che il catalogo delle facoltà riservate è suscettibile di essere continuamente aggiornato alla luce dello sviluppo tecnologico: il che non significa necessariamente ‘ampliato’, potendo anche essere soltanto ‘ricontestualizzato’, ‘risemantizzato’, ‘ridimensionato’.

L’art. 13 della citata legge, pertanto, menziona la riserva di riproduzione, ma la menzione non esclude che la riproduzione digitale possa ritenersi esclusa, ove non sia più giustificata dal nuovo contesto tecnologico; un elemento testuale che conforta tale lettura potrebbe cogliersi nell’art. 68 bis, co., che esclude la riserva di riproduzione temporanea quando finalizzata «all’unico scopo di consentire la trasmissione in rete tra terzi con l’intervento di un intermediario», la trasmissione in rete rappresentando, evidentemente, l’attività per eccellenza che si svolge nella rete.

Una lettura meno radicale potrebbe condurre invece a ritenere, bensì riservata anche la riproduzione digitale, ma senza estendere la riserva fino a esaurire tutto l’ambito del mero godimento; la riserva estendendosi, allora, fin tanto che corrisponde a ‘un mercato’ il cui sfruttamento sarebbe sottratto all’autore; fuori da tale mercato, non c’è la riserva, ma il libero godimento dell’opera protetta.

L’estensione del ‘mercato’ dell’opera protetta. Il problema diventa allora definire l’estensione di tale mercato. Giova al riguardo considerare che «anche l’elementare distinzione di ‘mio’ e ‘tuo’, dalla quale procede ogni atto di scambio, implica rinvio a un criterio determinativo»: il mercato «non crea, ma postula» quella distinzione, e dunque «presuppone gli istituti giuridici» (v. Irti 2004, p. VII). Pertanto l’estensione appare da ragguagliarsi alla circostanza che con il diritto esclusivo l’ordinamento non vuole attribuire all’autore ‘una’ qualsiasi remunerazione, ma ‘il’ compenso che il titolare ritiene più conveniente in seguito all’attività di negoziazione dell’opera sul mercato (v. F. Denozza, Licenze di brevetto e circolazione delle tecniche, 1979, in partic. pp. 81 e sgg.), essendo solo dallo sfruttamento inteso come attività che l’autore è in grado di conseguire economie di scala. Con il che, non s’intende misconoscere che ragioni di ‘approccio pragmatico’ al problema della copia privata domestica abbiano talora indotto gli ordinamenti ad adottare modalità succedanee al diritto esclusivo per la protezione degli interessi economici degli autori, come accaduto nel caso del prelievo. Si vuole solo negare che il prelievo costituisca – di per sé, senza il bisogno di altra dimostrazione – un precedente valido per attribuire una remunerazione all’autore anche nel caso della riproduzione disintermediata digitale, il prelievo essendo a carico dei produttori industriali (di apparecchiature e relativi supporti di riproduzione) e non degli utenti, e presupponendo il permanere – non già il venir meno – del mero godimento in capo agli utenti a fronte del diritto esclusivo (o, ciò che è lo stesso, presupponendo la non ulteriore estensione del diritto esclusivo. Si veda D. Sarti, Copia privata e diritto d’autore, «AIDA. Annali italiani del diritto d’autore»,1992, pp. 37 e sgg., p. 56; D. Sarti, Diritti esclusivi e circolazione dei beni, 1996, p. 366).

La stessa onerosità delle utilizzazioni libere, oggi data per assodata dal legislatore comunitario come da quello nazionale, appare solo un effetto collaterale – ma non dimostrato – dell’estensione del controllo dall’attività agli atti di fruizione, estensione che trasforma la remunerazione derivante dallo sfruttamento del diritto esclusivo in una rendita da posizione, che prescinde da ogni ‘attività’ di sfruttamento del titolare: una sorta di manomorta in funzione assicurativa, non remunerativa, contro i rischi della riproduzione disintermediata e quindi incontrollata. Sicché la stessa premessa che all’autore spetti non qualunque compenso, ma il compenso che il titolare ritiene più conveniente in seguito all’attività di negoziazione dell’opera sul mercato, diverrebbe, ove applicata anche alle negoziazioni con i fruitori delle utilizzazioni libere, una mera ipocrisia (perché non sarebbe a fronte di un’attività di diffusione svolta dall’autore, ma degli atti di fruizione compiuti dagli utenti).

Alla luce di questa premessa, l’estensione del mercato appare da ragguagliarsi allo sfruttamento che possa dirsi normale nell’ambiente digitale e che non arrechi ingiustificato pregiudizio ai titolari dei diritti, la giustificazione essendo, nell’ipotesi ricostruttiva che qui si propone, mantenere alla privativa la funzione incentivante che le è propria. Pertanto, muovendo da una lettura rovesciata del Three-step test (dettato dall’art. 5, co., della direttiva 2001/29/CE per ‘applicare’ le disposizioni sulle utilizzazioni libere e qui impiegato, invece, per rintracciare il ‘nocciolo duro’ della riserva di riproduzione, il test indicando i parametri del giudizio di legittimità di qualsiasi norma – nel nostro caso interpretativa – che limiti i diritti d’autore e connessi), si ritiene siano da considerarsi esclusi dalla riserva di riproduzione:

1) gli atti di riproduzione digitale ‘dipendenti’ dall’utilizzazione del diritto trasferito, stante il disposto dell’art. 119, co., della citata legge, a norma del quale «l’alienazione di uno o più diritti di utilizzazione non implica, salvo patto contrario, il trasferimento di altri diritti che non siano necessariamente dipendenti dal diritto trasferito, anche se compresi, secondo le disposizioni del Titolo I, nella stessa categoria di facoltà esclusive». Viceversa, nel caso del software, la scelta di riservare la riproduzione del programma anche per ciò che concerne «la visualizzazione, l’esecuzione, la trasmissione o la memorizzazione» (art. 64 bis, co., lett. a della legge), nonostante che si tratti di prerogative necessariamente dipendenti dal diritto trasferito con la vendita del programma, resta una regola speciale, nel senso di eccezionale, dipendente della tutela del segreto accordata all’industria del settore (pure a fronte del diritto d’autore): una regola eccezionale, che conduce a ‘occultare’ le singole modalità d’uso del programma (art. 64 bis, co., lettere a, b della legge) per farle poi ‘riapparire’ una a una, a seguito di apposita negoziazione, salvo poi concedere al legittimo acquirente, come fa l’art. 64 ter, co., che singole facoltà non debbano essere autorizzate ove «necessarie per l’uso». Nel diritto d’autore vale, infatti, l’opposto principio (per quanto derogabile) che l’alienazione di uno o più diritti di utilizzazione implica il trasferimento degli altri diritti necessariamente dipendenti da quello trasferito (diversamente orientati Auteri 20052, p. 505; Ricolfi 2001, p. 419, che, seppure con soluzioni diverse, s’interrogano sulla possibilità di estendere la disciplina ‘di settore’ del software, in quanto più permissiva, al diritto comune d’autore);

2) gli atti di riproduzione «temporanea privi di rilievo economico proprio che sono transitori o accessori e parte integrante ed essenziale di un procedimento tecnologico, eseguiti all’unico scopo di consentire la trasmissione in rete tra terzi, con l’intervento di un intermediario» o «un utilizzo legittimo di un’opera o altri materiali», come espressamente previsto dall’art. 68 bis della legge. Si tratta di una delimitazione del diritto esclusivo prevista espressamente per la riproduzione on-line (onde consentire il cosiddetto instradamento o routing e l’immagazzinamento o caching, intesi come strumentali al funzionamento del sistema e non al godimento) e ritenuta applicabile anche alle opere off-line per l’assenza di un «rilievo economico proprio» (Musso 2008, p. 211). In realtà nel mondo degli esemplari non c’è bisogno di questa applicazione analogica per sfogliare un libro prima di (o anche senza) acquistarlo, e non vi è ragione perché anche il browsing (sfogliare) non sia compreso nelle riproduzioni temporanee consentite nel mondo digitale. La ratio della disposizione è quella di rendere possibile la ‘trasmissione in rete’, e l’assenza di ‘rilievo economico proprio’ vale a sottolineare che nella rete non sarebbe né normale, né coerente con la funzione incentivante del diritto d’autore la formazione di un mercato delle riproduzioni temporanee, capace di impedire la trasmissione digitale e lo stesso ‘curiosare’ durante la navigazione in rete. Se pertanto è utopistico distinguere tra fruizione strumentale (alla consultazione o al funzionamento della rete) e fruizione finale (funzionale al godimento dell’opera), appare realistico sottrarre entrambe alla riserva. Nulla esclude peraltro l’applicabilità analogica della disposizione, anche se l’analogia sarebbe per lo più non necessaria, stante l’applicabilità diretta della disposizione anche a ‘un utilizzo legittimo di un’opera o altri materiali’;

3) le riproduzioni digitali ‘occasionali’, le quali, per quanto espressamente previste all’art. 5, par. 3, lett. i della direttiva 2001/29/CE sulla società dell’informazione ma non anche dalla disciplina italiana di recepimento, attengono alla riproduzione, non tanto nel contesto di un altro processo (la visualizzazione e la memorizzazione durante la navigazione nella rete essendo già consentite sotto forma di browsing), quanto piuttosto nel contesto di un’altra opera digitale, e sono prive di significato in sé: si pensi alla facciata del palazzo di un architetto famoso o alle immagini di una televisione accesa che compaiono casualmente sullo sfondo della scena di un film (commerciale) o si pensi alle immagini attinte dalla rete per realizzare un filmato amatoriale (per es., per abbellire un filmino delle vacanze); in entrambi i casi, nulla dovrebbe urtare contro lo sfruttamento normale dell’opera da parte dell’autore;

4) né diretta, né analogica, ma semmai tipologica, potrebbe dirsi, infine, l’interpretazione volta a ritenere esclusi dalla riserva di riproduzione anche gli atti di riproduzione digitale permanente, che, vuoi per la dimensione, vuoi per la qualità della copia, non tolgono mercato all’opera protetta: così non soggette a riserva appaiono non solo le riproduzioni funzionali alla vendita on-line, volte a soddisfare esigenze di trasparenza della merce offerta in rete (v. Musso 2008, p. 208), ma anche la riproduzione e pubblicazione in rete di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, oggi peraltro prevista espressamente dall’art. 70, 1° bis co. (la portata precettiva della disposizione appare invero pressoché nulla, se non fosse che, limitando la pubblicazione ‘all’uso didattico o scientifico’, finisce per degradare le stesse finalità didattiche o scientifiche a utilizzazioni libere di second’ordine; per non parlare del degrado che subiscono i diritti morali degli autori, le cui opere sono oggetto delle riproduzioni in parola) e infine i filmati amatoriali, quand’anche messi in rete (si pensi al fenomeno YouTube), fintanto che la riproduzione non svolge una funzione sostitutiva dell’opera protetta e quindi non toglie mercato all’autore, quanto meno un mercato riconducibile allo sfruttamento normale dell’opera. Normale, non solo alla luce delle aspettative economiche che l’opera viene solitamente o verrebbe ragionevolmente a essere commercializzata dall’autore (sicché basterebbe il ripetersi di qualunque sfruttamento nuovo per renderlo ‘normale’), ma anche alla luce delle finalità giuspolitiche perseguite dal diritto d’autore, come mezzo per incentivare la diffusione delle opere e la stessa innovazione (sicché non sarebbero ‘normali’ sfruttamenti volti a rendere impossibile la telecomunicazione globalizzata o la navigazione in rete, ogni volta che si incontrino materiali protetti). Il discorso si riannoda sempre, infatti, alla decisione politica, «alla presa di posizione sugli interessi in gioco», onde gli ordinamenti determinano «il protetto e il rifiutato» (si veda Irti 2004, p. XII) e quindi si ritorna al valore strumentale e non finale della protezione che viene offerta con il diritto d’autore.

Conclusioni

La deriva iperprotezionistica del diritto d’autore, cui abbiamo assistito dalla seconda metà degli anni Novanta ai nostri giorni, ha messo a dura prova la funzione stessa del diritto d’autore, come regime incentivante dell’innovazione. Una deriva che si fonda non già sulle innovazioni intervenute sul fronte dell’oggetto, ma su quelle concernenti il contenuto del diritto d’autore, il cui adattamento alla realtà digitale e della rete è consistito nel moltiplicare artificiosamente le occasioni di guadagno dell’autore, ignorando che il diritto d’autore, come diritto esclusivo, presuppone non il conseguimento di profitti a qualsivoglia titolo in capo all’autore (o altri titolari di diritti connessi), ma di profitti derivanti dell’intermediazione industriale nella fruizione delle opere e soprattutto la predisposizione di un ambiente, di un humus, dove le opere siano fatte circolare, innescando un circolo virtuoso di creazione - fruizione - nuova creazione, che la realtà della rete potrebbe addirittura propiziare. E invece, a fronte dei pericoli di vanificare le chances di remunerazione degli autori per essere la fruizione delle opere disintermediata nell’ambiente digitale, il legislatore, anziché rispondere ai nuovi bisogni di protezione ingenerati dalla rete, ha propiziato un rafforzamento ‘sensounistico’ della protezione degli autori, basato sull’intervento stesso dello Stato per garantire un regime di opere ‘sotto chiave’. Con il che, non solo si priva il diritto d’autore dei suoi stessi anticorpi filoconcorrenziali, atteso che l’esclusiva finisce per estendersi dalla forma espressiva anche alle idee, ma si rende sterile e narcisistica la cultura, perché non facendola circolare, le si toglie anche quanto di più le è proprio: il suo essere per ‘comunicare’.

Viceversa, per conservare una perdurante utilità al diritto d’autore, come diritto esclusivo, nella stessa realtà della rete, non sembra si possa prescindere, de iure condendo, da una sua conformazione network-oriented, che ci sembra potersi trovare nel sostituire la riserva di riproduzione con la riserva di comunicazione al pubblico.

Non si ignora e si condivide il timore (Lessig 2006, p. 186) che dal copyright si passi al ben più temibile accessright; ma se ben si coglie lo spirito di questo timore, esso si fonda sull’intollerabilità del divieto di accesso alle opere, in quanto estensione surrettizia del diritto d’autore ai contenuti delle stesse. Quella che appare ragionevole, invece, secondo l’ipotesi prospettata in questo lavoro, è una riserva di accesso, non alle opere – liberamente accessibili e riproducibili – ma ai server provider (biblioteche, discoteche e cineteche virtuali) dove stanno le opere, il che è tutt’altra cosa, visto che l’utente paga un canone per accedere al sito, ma poi può scaricare senza limiti, e che gli autori, da un lato, negoziano l’opera con il server provider, dall’altro lato ricevono un compenso – dalla ripartizione degli incassi dei canoni pagati – commisurato al numero di accessi alla propria opera. Il che sembrerebbe a un tempo meritocratico e democratico: meritocratico, perché la remunerazione dell’autore sarebbe pur sempre correlata alla negoziazione e al successo dell’opera, democratico, in quanto sarebbe conseguita la libertà di riproduzione. Ma soprattutto sarebbe un meccanismo concorrenziale, tanto sul fronte della comunicazione al pubblico e dell’accesso alla cultura (la concorrenza instaurandosi tra i server provider incentivati a offrire le opere migliori verso il pagamento del canone più invogliante), quanto sul fronte dell’innovazione, non essendo più le opere sotto chiave. Il problema sarebbe, allora, la determinazione del prezzo d’accesso alla biblioteca virtuale e il suo effettivo pagamento, problema tanto più agevole da risolvere, quanto più il canone sia reso appetibile a tutti: se tutti pagano poco per accedere ai magazzini della cultura, tutti gli accessi si traducono in un guadagno per l’autore (e altri titolari) e viene meno lo stesso interesse alla trasgressione; più si paga, più si incoraggiano i ‘pirati’ a collocarsi nel remotistan (v. Ricolfi 2002, pp. 449 e sgg.) per appropriarsi dei profitti spettanti agli autori (e altri titolari), fornendo le copie a un prezzo inferiore (v. Gille 2005, p. 263, secondo cui «il rincaro dell’originale invita alla copia» e «l’abbassamento del prezzo […] permette di allargare il mercato»).

Da notare, infine, che a fronte dei pericoli della ‘pirateria’, un minore peso nella riflessione giuridica e nell’evoluzione normativa hanno ricevuto altre possibili ricadute materiali dell’avvento dell’era digitale e dell’accesso ‘disintermediato’ alle opere protette.

Mi riferisco alla «globalizzazione delle idee, delle forme espressive e dell’informazione, che costituisce il più entusiasmante ricavo antropologico della telecomunicazione globalizzata» (Spada 2002, p. 603) e al venire meno, con la soppressione della fabbrica di cui si è detto, del primato del modo di produzione proprio dell’economia industriale, cui corrisponde il progressivo affiancarsi di un nuovo modo di produzione, basato sulla tecnologia che consente a ciascun utente della rete di fare da solo attività che, in precedenza, a partire dalla seconda metà circa del sec. 19° e per tutto il 20°, avevano costi di ingresso e di gestione insostenibili e che, pertanto, ponevano il problema dell’innovazione come un problema di remunerazione degli investimenti necessari per realizzarla (si pensi alla realizzazione di un cortometraggio, di un documentario, di un telegiornale). La realtà della rete pone, invece, le basi di un nuovo modello di produzione dell’innovazione, radicalmente diverso da quello su cui si è fondata la legittimazione giuspolitica dei diritti di proprietà intellettuale: quello della produzione «decentrata, collaborativa e non proprietaria; basata sulla condivisione delle risorse e degli out put tra individui dispersi nello spazio e variamente connessi, che cooperano senza dipendere né dal mercato, né dagli ordini dei manager» (v. Benkler 2006; trad. it. 2007, p. 76, a proposito della cosiddetta «produzione orizzontale basata sui beni comuni»).

La stessa nascita del software libero e dell’open source e il loro imprevedibile successo mettono in luce l’importanza crescente che sta assumendo questo nuovo modello di produzione dell’innovazione: ciò nondimeno, per quanto possano apparire la maggiore sfida al diritto d’autore nell’era digitale, mettono in luce anche che il diritto d’autore, di per sé, non sarebbe un ostacolo all’innovazione, neppure a fronte di un modello di produzione così radicalmente diverso, atteso che la filosofia dell’open source non contraddice i principi propri del copyright, ma li corregge, facendo leva sul cosiddetto copyleft, inteso come rinuncia a valersi dei diritti d’autore sull’opera in nome dell’interesse superiore alla condivisione delle conoscenze e alla cooperazione tra autori. Ed è proprio in questa possibilità di declinare il diritto d’autore, non solo secondo le logiche proprietarie, ma anche secondo le logiche, opposte, della condivisione, la riprova che il diritto d’autore, in quanto esclusiva che copre solo la forma espressiva, e non le idee, è dotato di quegli anticorpi filoconcorrenziali, che lo rendono adattabile a qualunque sfida tecnologica.

L’importante, guardando verso il futuro, è adattare il diritto d’autore alla realtà delle cose, non adattare la realtà delle cose agli archetipi del passato, quand’anche inadeguati a soddisfare gli interessi meritevoli di protezione nel nuovo contesto.

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