ARCANO, disciplina dell'

Enciclopedia Italiana (1929)

ARCANO, disciplina dell'

Leone Mattei Cerasoli
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Con questo nome (disciplina arcani) si suol designare l'istituto per cui i primitivi cristiani avrebbero fatto ogni sforzo per non svelare agli estranei i riti e le credenze della loro religione. Durante le ricerche storiche sulle origini cristiane fatte dal sec. XVII in poi, si trovò che di varî dommi, usi liturgici, ecc., mancavano, o erano assai scarse, le testimonianze antiche. Si ritenne perciò che tutto quello che si trovava in vigore nell'uso ecclesiastico a quel tempo risalisse a Gesù stesso; e che gli antichi si fossero astenuti dal parlarne, in omaggio a quella presunta legge. Alcuni scrittori cattolici, tra i quali eccellono Melchior Cano (De locis theologicis, Salamanca 1563, III, 3) e il Bellarmino (De controversiis, Lione 1599, II), ricorsero a tale spiegazione, soprattutto a proposito dell'Eucarestia e del domma della transustanziazione. Ma il primo che usò il termine "disciplina dell'arcano" fu il protestante Jean Daillé, il quale segnalò le reticenze degli antichi Padri della Chiesa, e l'età relativamente tardiva (sec. IV-V) della presunta istituzione (De usu Patrum, ecc., Ginevra 1686). Si esagerò, come suole avvenire; e per alcuni la cosiddetta disciplina arcani divenne addirittura una norma imperativa, emanata dal Cristo e praticata già dagli apostoli. I protestanti reagirono; nel corso poi del sec. XIX, con il nuovo impulso dato alla ricerca storica e allo studio comparativo delle religioni, si pensò che una disciplina arcani esistesse realmente, ma fosse qualche cosa di simile al segreto di cui si circondavano i culti pagani dei "misteri", cui solo gl'iniziati potevano accedere, e dei quali era vietato svelare sia il mito, sia il rito. Ciò avveniva parallelamente ai tentativi d'inquadrare storicamente il cristianesimo fra le correnti di religiosità contemporanee ai suoi inizî. Ma, se anche gli scrittori del Nuovo Testamento (p. es., S. Paolo, Romani, XI, 25; I Corinzî, XIII, 2; e II Pietro, I, 16) usano termini presi a prestito dal linguaggio dei misteri (come μυστήριον, ἐπόπτης), e se anche taluni hanno creduto di poter parlare del cristianesimo come di un "mistero", questo linguaggio si riferisce piuttosto al fatto che il cristianesimo è una religione fondata essenzialmente sopra una soteriologia, non al carattere segreto delle sue credenze o della sua prassi. Né la letteratura cristiana antica, né l'archeologia cristiana, del resto, convalidano la tesi dell'esistenza di una vera e propria disciplina arcani. Alcuni apologisti accennano, senza dubbio, ad alcune ístituzioni assai meno di altri. Ma non è questa una prova dell'esistenza di una vera e propria "legge del silenzio"; come dalle accuse d'immoralità lanciate contro i cristiani non si può dedurre altro se non che grande era l'ignoranza dei pagani a loro riguardo, e che, in ispecie durante le persecuzioni, essi non amavano di proclamarsi tali apertamente di fronte a chicchessia. Il pagano Celso, che scrisse contro i cristiani, conobbe benissimo i loro libri sacri. Alcuni apologisti non solo indirizzarono le loro opere all'imperatore o al senato, ma parlarono anche delle riunioni liturgiche; quel manualetto d'istruzione catechistica ch'è la Didache non ha per nulla il carattere di libro segreto. I simboli usati nelle catacombe, oltre che alla necessità di rappresentare graficamente, cioè concretamente, concetti astratti (quali il battesimo, l'immortalità dell'anima, la vita eterna, ecc.) rispondono piuttosto al desiderio di collegare l'Antico al Nuovo Testamento, di scorgere in Giona, Davide, Isacco, i "tipi" del Cristo. Anzi, gli scrittori ortodossi rimproverano, e talora acremente, il silenzio e il mistero ai gruppi ereticali. Si può concludere che la Chiesa, nei primi tre secoli, non conobbe la "disciplina dell'arcano", per quanto, a causa delle persecuzioni, vivesse talora clandestinamente.

Estesosi e resosi generale, tra il III e il V secolo, l'istituto del catecumenato, per preparare meglio e istruire i neofiti al battesimo, comparve una distinzione nella predicazione e nella partecipazione alla Messa tra i catecumeni e i battezzati. Ai primi si parlava del battesimo e dei principali dommi soltanto, riserbando l'istruzione completa, specialmente circa l'Eucarestia, a dopo che avessero ricevuto il battesimo. Si ebbe quindi la Missa cathecumenorum, cioè la prima parte della Messa fino all'Offertorio, e la Missa fidelium, a cui non partecipavano i non battezzati. I Padri di quest'epoca ripetono spesso che ai catecumeni non si devono spiegare i misteri sacri; ma sembra che ciò sia più misura di prudenza che legge stabilita. S. Giovanni Crisostomo (In I Cor. hom., XL, 1) dice: "vorrei parlar chiaramente, ma non oso a causa dei non iniziati". S. Atanasio rimprovera gli ariani e i meleziani di aver portato in tribunale la causa circa una profanazione avvenuta in chiesa durante la Messa, per cui i sacerdoti avevano dovuto dare al giudice laico non battezzato delle spiegazioni sui misteri, spiegazioni registrate poi nei verbali. S. Agostino pure accenna più volte alla diversità d'intelligenza delle cose sante tra i catecumeni e i fedeli: nessuno però riferisce esservi una legge speciale del silenzio.

Nel sec. V, la lettera d'Innocenzo I a Decenzio vescovo di Gubbio (19 marzo 416) accenna a riguardi e reticenze circa l'Eucarestia, parla di "quelle cose che non debbo manifestare", e termina: "le altre cose non è lecito scriverle, te le spiegherò quando verrai a Roma". Dopo questo tempo, nulla si trova più nei Padri che accenni a segreti o a silenzio sui dommi; solo alcuni ritengono che l'uso nel rito latino di recitare nella Messa il Canone a bassa voce, e in quello greco di velare l'altare durante il Canone, provenga proprio da questa cosiddetta disciplina dell'arcano, come anche la credenza invalsa che fosse proibito tradurre in lingua volgare le parole della consacrazione eucaristica.

Bibl.: V. Huyskens, Zur Frage über sog. Arkandisziplin, Münster 1891; P. Batiffol, in Dict. de théol. cath., I, ii, s. v.

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