Ciompo, discorso dell'anonimo

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Ciompo, discorso dell’anonimo

Giorgio Cadoni

Il capitolo xiii del terzo libro delle Istorie fiorentine ospita il discorso attribuito dall’autore a un anonimo Ciompo che intende incitare i lavoratori salariati dell’Arte della lana a condurre alle estreme conseguenze la rivolta a cui avevano dato inizio qualche giorno prima. Esperto uomo d’azione, l’anonimo si astiene dall’esprimere un giudizio sull’opportunità dell’iniziativa presa dai suoi consorti. Altro infatti urgeva decidere: come evitare la vendetta che gli offesi stavano preparando. A questo punto, afferma, non restava che commettere nuove violenze e cercare di coinvolgervi «di molti compagni»: «perché dove molti errano niuno si gastiga». Ma il suo appassionato discorso non costituirebbe il punto focale del libro che M. ha in gran parte dedicato al «tumulto», se alla necessità di sottrarsi alla punizione della quale già si apprestavano gli strumenti non intrecciasse l’esortazione a conquistare una più soddisfacente e libera condizione di vita con parole che lasciano intravedere l’intento di trasformare la sommossa in un’autentica rivoluzione: «Il moltiplicare adunque ne’ mali ci farà più facilmente trovare perdono. E ci farà la via ad avere quelle cose che per la libertà nostra di avere desideriamo». A quest’importante tema bisognerà dedicare a suo tempo tutta l’attenzione che merita. Ma, prima, conviene osservare come il Ciompo utilizzi concetti e argomenti schiettamente machiavelliani per trarne conseguenze alle quali mai il grande Segretario avrebbe concesso la sua approvazione, e riconoscere la sostanziale analogia della cruda descrizione dei rapporti sociali da cui trae tali conseguenze con la condizione che, secondo l’autore del capitolo “Dell’Ambizione”, la politica ha il compito di superare indirizzando verso l’«esterna gente» l’insopprimibile «ambizione» che fa di ogni uomo un rivale, e un potenziale nemico, dei suoi simili (vv. 94-102).

Con M. l’anonimo condivide la convinzione che soltanto la praxis diretta ad affermare il predominio del gruppo al quale si appartiene può trasformare in solidale coesione la reciproca ostilità degli individui; ma la coesione che intende promuovere è quella generata dalla lotta contro il nemico interno, come doveva essere considerata la classe agiata dopo le violenze con cui i Ciompi avevano dato sfogo all’odioche i maestri lanaioli si erano procurati. È superfluo ricordare che neppure M. pretendeva che la necessità di sottomettere le potenze rivali ponesse fine alla conflittualità sempre presente in ogni Stato: all’utopico ideale della concordia ordinum aveva contrapposto l’inevitabilità del conflitto sociale, che sarebbe stato impossibile spegnere senza gravissime conseguenze, come dimostrava la storia di Sparta, nei tempi antichi, e di Venezia, in quelli moderni, costrette da un’irrimediabile sconfitta militare a rinunciare all’egemonia fino allora esercitata (Discorsi I vi). Tuttavia, in uno dei più importanti capitoli del commentario liviano, il iv del I libro, aveva spiegato che istituzioni degne di questo nome possono dare ordinata espressione all’insopprimibile antagonismo esistente tra il «popolo» e i «grandi», facendone occasione di libertà e di potenza, e aveva invitato i suoi contemporanei a riflettere, meglio di quanto non fossero consueti fare, sul mirabile esempio che Roma aveva offerto fino al tempo dei Gracchi. Sarebbe però errato semplificare più del dovuto il complesso e non sempre trasparente rapporto tra il discorso dell’anonimo e l’instancabile indagine condotta da M., dimenticando che, dopo aver narrato come neppure Roma fosse riuscita a evitare che la lotta delle classi rompesse gli argini entro cui era stata trattenuta per alcuni secoli, lo scrittore aveva difeso la sua tesi sulla positività del conflitto sociale indicando nell’«ambizione» della plebe l’unica barriera che aveva impedito all’oligarchia senatoria di ridurre «in servitù» i cittadini «molto più tosto» di quanto non avesse fatto la questione agraria (I xxxvii 22-23). Che non appena investì i beni materiali il conflitto dei due «umori» sociali non avesse più trovato mediazione, appare, per altro, inevitabile, quando si consideri che, per quanto desiderosi di «onori», importanza assai maggiore gli uomini attribuiscono alla «roba» (§ 24), al «patrimonio», la cui perdita ricordano più a lungo della morte del padre (Principe xvii 14).

Come il suo grande concittadino, anche il Ciompo ritiene l’appropriazione della ricchezza motivo di una violenta competizione che soltanto la forza decide. E con una metafora sottilmente blasfema ne indica la ragione nella scarsità delle risorse che «Iddio e la natura» hanno collocato al centro dell’universo sociale, costringendo gli uomini a tentare d’impossessarsene mediante una lotta spietata nella quale hanno successo coloro che fanno ricorso «più alle rapine che all’industria e alle cattive che alle buone arti»; talché si può ben dire, è la conclusione, che «gli uomini mangiono l’uno l’altro». Ma, come si è accennato, non solo di questo si tratta. Nel capitolo delle Istorie che precede quello recante il discorso dell’anonimo, M. aveva spiegato che i lavoratori della lana a rifiutare di deporre le armi non erano spinti soltanto dal timore dell’inevitabile punizione, poiché a questo «si aggiugneva uno odio che il popolo minuto aveva con i cittadini ricchi e principi delle Arti, non parendo loro essere sodisfatti delle loro fatiche secondo che giustamente credevano meritare». E il conflitto salariale investiva con dirompente energia l’ordinamento stesso della Repubblica. Infatti, essendo sottoposti alla giurisdizione del magistrato eletto dai maestri lanaioli, i Ciompi erano privi della possibilità di far valere le loro ragioni; e

ne nasceva che quando erano non soddisfatti delle fatiche loro o in alcun modo dai loro maestri oppressati, non avevano altrove dove rifuggire che al magistrato di quella arte che gli governava, da il quale non pareva loro fusse fatta quella giustizia che giudicavano si convenisse.

Che questa fosse l’origine dello «sdegno» dei sottoposti, lo aveva riferito Alamanno Acciaioli nella sua nota Cronaca (in Il tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, a cura di G. Scaramella, in RIS, 18.3, fasc. 2, 1934, p. 21, 10-18), liberamente utilizzata da M., che accentua l’autonomia degli insorti omettendo qualsiasi cenno alla presenza di sobillatori (gli «ammuniti», secondo le fonti seguite dagli storici cinquecenteschi). Narra Acciaioli che un certo Simoncino, interrogato dai Signori, aveva detto che i

sottoposti all’Arte della lana non vi vogliono più essere sottoposti; e vogliono in tutto che l’uficiale [forestiero] non sia più, né avere a fare più nulla con lui; imperoché sono molto male trattati, sì dallo ufiziale, che per ogni piccola cosa ci martoria, e sì da’ maestri lanaioli, che gli pagano molto male, e del lavorìo che si viene dodici, ne danno otto.

Per questo, aveva aggiunto sotto tortura, i Ciompi volevano organizzarsi in un’«arte» autonoma e «avere parte nel reggimento della città». Nelle Istorie fiorentine l’anonimo ricorda l’avidità dei padroni e la parzialità dei giudici con una breve esclamazione («Quante volte ho io udito dolervi della avarizia de’ vostri superiori e della ingiustizia de’ vostri magistrati!»). Ma anche nel suo discorso la rivendicazione economica trapassa in quella politica; e non si esaurisce, né, d’altra parte, poteva esaurirsi, nella richiesta di una riforma che offrisse maggiori garanzie contro il dispotismo padronale, perché nella cruda rappresentazione della realtà sociale delineata dalle sue roventi parole non ci sono che sfruttatori e sfruttati, padroni e servi, vincitori e vinti. Per tanto esorta i compagni a non perdere la preziosa e volatile «occasione» offerta dalla «fortuna» (due classici temi machiavelliani, sui quali si vedano, se non altro, i capitoli a essi dedicati) e a rovesciare con decisione il rapporto di dominio. Dominanti o dominati: come si vede, il Ciompo applica con rigore ai rapporti sociali la legge che, secondo M., regola quelli tra gli Stati.

L’anonimo non ignora la gravità del rischio, ma, attento lettore del Principe e dei Discorsi, ricorda agli insorti che «dove la necessità strigne è l’audacia giudicata prudenza», perché «di uno pericolo mai si uscì sanza pericolo». La materialistica impostazione del suo discorso non deve tuttavia trarre in inganno. Infatti, se la si considera attentamente, ci si accorge che non si distingue dalla volontà di perseguire, con i mezzi richiesti dalla «realtà effettuale», un progetto di liberazione sociale e politica. Prima ancora che una condizione di benessere, la ricchezza è infatti uno strumento di potere; e impadronirsi del potere è indispensabile per respingere l’oppressione esercitata da coloro che ne sono in possesso; talché ricchezza, potere e libertà dall’oppressione sono, in analisi estrema, un’unica cosa. Ai suoi consorti l’anonimo spiega che essere un «ciompo» significava appartenere a una comunità di destino: non avendo saputo impadronirsi delle «fortune» che «Iddio e la natura» così avaramente concedevano agli uomini, i Ciompi erano stati asserviti da coloro che avevano avuto maggior successo. Come ricchezza e dominio, anche povertà e «servitù» sono infatti inseparabili: quelli che, «o per poca prudenza o per troppa sciocchezza», si astengono dall’impiegare gli unici mezzi che consentono di appropriarsi degli scarsi beni disponibili,

nella servitù sempre e nella povertà affogano; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti.

Il proposito di liberare la società dalla violenza e dal servaggio, o di mitigarne le conseguenze, non è preso in considerazione dall’anonimo, perché, a suo avviso, è possibile solo scambiare i ruoli, invertire, se così ci si vuole esprimere, i rapporti di classe.

E parmi che noi andiamo a uno certo acquisto, perché quelli che ci potrebbono impedire sono disuniti e ricchi: la loro disunione ci darà la vittoria, e le loro ricchezze, quando fieno diventate nostre, ce la manterranno.

Ma in quale maniera debba essere organizzata la produzione dopo l’espropriazione degli abbienti, il Ciompo non dice, e il proposito che aveva enunciato resta in realtà astratto e condanna all’astrattezza il suo rivoluzionario progetto di liberazione politica ed economica.

Come M., il Ciompo sa che la politica esiste in quanto esistono interessi contrastanti: il suo errore consiste nel credere che essa si riassuma interamente nello sforzo di vincere e sottomettere gli antagonisti. Per tanto si era innanzi tutto sforzato di distruggere i deterrenti ideologici diffusi da coloro che si erano impossessati della ricchezza e del potere. Il disprezzo ostentato verso chi esitava a percorrere fino in fondo la via della violenza («se gli è vero, voi non siete quelli uomini che io credevo che voi fusse») rinvia al grave e irrisolto problema della necessità di «non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato» (Principe xviii 15), e trova un puntuale riscontro nella spietata critica a cui viene sottoposta l’ideologia dominante. A chi sosteneva che l’«antichità del sangue» conferisce diritti ai quali gli altri uomini non possono né dovrebbero aspirare, il Ciompo obietta che tutte le famiglie hanno un’origine ugualmente remota e nessuna sostanziale diversità vi è tra gli umani: «perché tutti gli uomini, avendo avuto uno medesimo principio, sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a uno modo».

Spogliateci tutti ignudi – continua –, voi ci vederete simili; rivestite noi delle vesti loro ed eglino delle nostre: noi senza dubbio nobili, ed eglino ignobili parranno, perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano.

Il richiamo alla fondamentale uguaglianza degli uomini ha una funzione precisa: evitare che il prestigio dei dominanti paralizzi la rivolta dei dominati, ricordando loro che la presunta diversità di alcuni era una fallace apparenza, dipendente dal sontuoso abbigliamento che la sistematica rapina occultata dai ricchi «sotto falso titolo di guadagno» permetteva loro di ostentare. E chi dubiti che il Ciompo sia – come è stato giustamente definito – un autentico intellettuale, non si lasci sfuggire il rapido e preciso affondo con cui, nel dichiarare il profitto ricavato dall’esercizio dell’attività economica frutto di rapina e di violenza, consapevole della funzione sociale del lessico, invita a non cadere nell’inganno con cui gli imprenditori celavano, sotto il nome di «guadagno», «la bruttezza dello acquisto». Gennaro Sasso ha recato alla luce, con sottili ed efficacissimi argomenti che non sarebbe possibile riassumere, la profonda irreligiosità anticristiana dell’asserto sull’identica «antichità» degli uomini. Qui sia sufficiente coglierne le conseguenze estreme, allorché, con l’invito a non preoccuparsi dell’eterna dannazione, diviene del tutto esplicita: «E della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». È una decisa negazione della fede nella vita ultraterrena, un consapevole rifiuto del mito religioso del quale si serviva l’aristocrazia mercantile e finanziaria per assicurarsi l’acquiescenza dei lavoratori salariati. L’ateismo del Ciompo è innanzi tutto un’arma di lotta e di liberazione. E, a questo proposito, la sua lontananza dal Segretario fiorentino – che, pur condividendolo, considera la religione indispensabile ai fini del buon ordine politico e sociale – non avrebbe potuto essere maggiore. Ma, ben sapendo che, per l’anonimo, quel buon ordine (mai esistito a Firenze) significava sottomissione e sfruttamento, l’autore del Principe e dei Discorsi ha costruito con coerenza questo straordinario personaggio. Coerenza davvero mirabile che trova conferma quando l’anonimo avverte che neppure gli scrupoli morali e la laica minaccia dell’«infamia» dovevano trattenere dall’impiegare i mezzi necessari per ottenere successo: «voi non siete quegli uomini che io credeva che voi fusse: perché né coscienza né infamia vi debba sbigottire, perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riporto-no vergogna». Il ragionamento è filato con logica rigorosa e dissacrante: nel mondo di prevaricazione e di violenza descritto dall’oratore nessun criterio diverso da quello del successo era ragionevole adottare per giudicare le azioni degli uomini, come suggeriva, in un ben diverso quadro teorico e progettuale, la massima appartenente a una delle più note e ‘scandalose’ pagine dell’opuscolo De principatibus.

M. sottolinea l’efficacia del discorso con cui l’anonimo aveva infiammato «i già per loro medesimi riscaldati animi al male»; e qualora si decidesse di scacciare l’inquietudine che esso provoca considerandolo una sorta di riuscito tentativo di coinvolgere i Ciompi, mediante una magniloquente retorica, nel progetto di condurre all’estremo la rivolta, non se ne comprenderebbe la vera ragione. Infatti, se l’autore delle Istorie attribuisce a quell’incendiario discorso la capacità di trovare pronto ascolto, è perché le parole dello spregiudicato oratore non fanno che rivelare ai compagni di lavoro e di lotta le convinzioni e i sentimenti impliciti nella violenza con cui avevano messo a sacco, e incendiato, lo si noti, le case dei ricchi e depredato le chiese (probabilmente dei tesori che quelli avevano tentato di celarvi) senza alcun rispetto per la sacertà del luogo. Persuaso che l’originario e non modificabile rapporto tra gli individui è il conflitto e che solo la comune volontà di sottomettere e dominare impedisce la disgregazione di un gruppo sociale, il Ciompo ne aveva tratto la conseguenza che occorreva perseverare nel «male», per non lasciarsi sfuggire l’occasione di esercitare sugli abbienti, «avanti che si unischino e fermino l’animo», prima, cioè, che il proposito di vendicare le gravissime offese subite consentisse loro di ritrovare coesione, la medesima violenza alla quale costoro, con l’ausilio delle leggi da essi stessi emanate, sottoponevano gli operai della lana:

donde o noi rimarremo al tutto principi della città, o ne aremo tanta parte che non solamente gli errori passati ci fieno perdonati, ma aremo autorità di poterli di nuove ingiurie minacciare.

Sono parole chiare, che nella loro brutale radicalità rendono evidente come la rinuncia a concepire una nuova struttura economica e istituzionale si risolva nel proposito di concludere il «tumulto» ripristinando, a parti invertite, mediante la conquista del potere politico, l’asservimento subito dai lavoratori salariati. «Ora è tempo, non solamente da liberarsi da loro, ma da diventare in tanto loro superiore, ch’eglino abbiano più a dolersi e temere di voi che voi di loro», dirà l’anonimo mentre il suo discorso sta per concludersi con l’esortazione a riprendere per primi le armi. Per quanto «accesi» dalle appassionate parole che avevano ascoltato, i Ciompi non agirono con il disperato estremismo da queste suggerito. A respingere l’equilibrata riforma escogitata da Michele di Lando furono indotti dalla diffidenza ispirata loro dalla quotidiana e dolorosa esperienza che aveva trovato compiuta espressione teorica nel discorso dell’abile eversore:

Parve alla plebe che Michele nel riformare lo stato fusse stato a’ maggiori popolani troppo partigiano; né pareva loro avere tanta parte nel governo quanta, a mantenersi in quello e potersi difendere, fusse di avere necessario.

Ma averlo compreso non sembrò a M. sufficiente per giustificare la minacciosa richiesta delle «nuove cose» che i Ciompi pretendevano di ottenere «a proposito della sicurtà e bene loro», considerate dallo scrittore manifestazione di irresponsabile «arroganza» (Istorie fiorentine III xvii). Che M. dovesse condannare i propositi degli insorti, è del resto ovvio. E l’elogio che dedica nel xvi capitolo al ‘traditore’ Michele di Lando lascia intendere quale fosse, a suo avviso, la maniera di porre rimedio alla drammatica condizione in cui versavano i Ciompi. Con una soddisfazione dalla quale traluce l’ostilità di classe che il loro rifiuto della mediazione aveva risvegliato in lui, egli osserva che dall’edificio costituzionale disegnato da Michele i Ciompi dovevano essere espulsi e furono espulsi. Ma quell’edificio non si mostrò per questo più solido. Ben presto la tradizionale faziosità fiorentina, l’universale pretesa di esercitare un potere illimitato sui concittadini, tornò a prevalere. E M. avrà considerato che non meno delle inaccettabili richieste dei Ciompi, anche la volontà di escluderli dal corpo vivo della Repubblica, per farne puro strumento dell’altrui «avarizia», costituiva una tragica testimonianza della miseria politica di Firenze, incapace di dare espressione legale a tutte le forze sociali esistenti nel suo seno. Probabilmente per questo colse l’occasione di esporre, per bocca dell’anonimo, le non infondate considerazioni da cui quello aveva tratto devastanti conseguenze che potevano soltanto accelerare la rovina della città.

Bibliografia: Fonti: Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, a cura di N. Rodolico, in RIS, 30.2, fasc. 1-2, 1903, pp. 318-22; A. Acciaioli, Cronaca, in Il tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, a cura di G. Scaramella, in RIS, 18.3, fasc. 2, 1934, pp. 14-22; Aggiunte anonime alla Cronaca, in Il tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, a cura di G. Scaramella, in RIS , 18.3, fasc. 2, 1934, pp. 35-42.

Per gli studi critici si vedano: V. Fiorini, commento a N. Machiavelli, Istorie fiorentine, Firenze 1894; A. Doren, Le arti fiorentine, trad. it. di G.B. Klein, 1° vol., Firenze 1940, pp. 205-13; R. de Roover, Labour conditions in Florence around 1400: theory, policy and reality e G.A. Brucker, The Ciompi revolution, in Florentine studies, ed. N. Rubinstein, London 1968, rispettiv. pp. 277-313 e 314-56; N. Badaloni, Natura e società in Machiavelli, «Studi storici», 1969, 10, pp. 698-708; V. Rutenburg, Popolo e movimenti popolari nell’Italia del ’300 e ’400, trad. it. Bologna 1971, pp. 50-76; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980, p. 213; A.M. Cabrini, Interpretazione e stile in Machiavelli. Il terzo libro delle Istorie, Roma 1990, pp. 89-97; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., Bologna 1993, pp. 312-30; E. Screpanti, La politica dei ciompi: petizioni, riforme e progetti dei rivoluzionari fiorentini del 1378, «Archivio storico italiano», 2007, 165, pp. 3-57; E. Screpanti, L’angelo della liberazione nel Tumulto dei Ciompi, Siena 2008; F. Ammannati, «Se non piace loro l’arte, mutinla in una altra». I «lavoranti» dell’Arte della lana fiorentina tra XIV e XVI secolo, «Annali di storia di Firenze», 2012, 7, pp. 5-33 (http://www.fupress.net/index.php/asf/article/view/12293, 14 genn. 2014).

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