DISSOLVENZA

Enciclopedia del Cinema (2003)

Dissolvenza

Dario Tomasi

Procedimento ottico che consente di passare da un'immagine a un'altra non attraverso un mutamento repentino del contenuto dell'inqua-dratura, come avviene con gli stacchi, bensì in modo lineare e progressivo. Si distinguono tre tipi di d.: d'apertura (in inglese fade-in), quando l'immagine appare progressivamente a partire dal nero, o da un altro co-lore, dello schermo; in chiusura (in inglese fade-out), quando l'immagine scompare in progressione sino a diventare nera, o di un altro colore; incrociata (in inglese dissolve), quando, mentre una prima immagine si dissolve, ne compare una seconda progressivamente, prima sovrapponendosi e poi sostituendosi alla precedente. Le d. si possono realizzare in diversi modi: in fase di ripresa (agendo sull'otturatore della macchina da presa), in fase di stampa (attraverso un procedimento chimico) e, infine, con l'ausilio di alcune apparecchiature come la Truca e l'Avid. Il termine Truca deriva dal francese trucage e designa una stampante ottica di alta precisione (optical printer), cui sono collegati un proiettore e una macchina da presa, che permette la realizzazione di diversi effetti speciali tra cui, appunto, la dissolvenza. L'Avid è, invece, un sistema di montaggio elettronico che consente di muoversi in assoluta libertà fra le immagini girate in fase di ripresa, di visionare preliminarmente ogni procedura di montaggio adottata (come, per es., le eventuali d.) e di trasferire direttamente i risultati ottenuti sul negativo del film. Rispetto alla Truca, l'Avid non solo semplifica il processo di realizzazione delle d. e permette di vederne immediatamente l'esito, ma garantisce anche una maggiore qua-lità tecnica del risultato finale, soprattutto per ciò che concerne il momento della sovrimpressione delle due immagini nella d. incrociata. Le d. possono differenziarsi anche sulla base della loro durata, che solitamente corrisponde alle lunghezze standard di 16, 24, 48 oppure 96 fotogrammi.

Giacché rappresenta una delle possibilità di passare da un'inquadratura a un'altra, la d. fa parte dei cosiddetti effetti di punteggiatura ‒ o interpunzione ‒ cinematografica, insieme al già citato stacco, all'iris (dove un mascherino solitamente circolare si apre e si chiude su una determinata inquadratura), e alla tendina (dove la nuova inquadratura fa letteralmente scorrere via la vecchia orizzontalmente o, in casi più rari, verticalmente con un marcato effetto di passaggio narrativo).

Nell'ambito del cinema classico la d. era usata soprattutto per indicare la fine di una scena o di una sequenza, segnalando allo spettatore la conclusione di un episodio narrativo e l'inizio di quello successivo, marcando in questo modo convenzionalmente la presenza di un mutamento spaziale e/o di un'ellissi temporale. Rispetto a quella incrociata, la d. in chiusura, seguita talvolta da una in apertura, tendeva a indicare una pausa assai più pronunciata.

L'origine dell'uso delle d. seguì di poco la nascita del cinema. Se ne hanno già innumerevoli esempi nell'opera di Georges Méliès, a partire almeno da Cendrillon (1899). In questo film le d. incrociate uniscono tutte le scene presenti secondo una tecnica già diffusa negli spettacoli di lanterne magiche. In questo e in alcuni successivi lungometraggi del regista, le d. incrociate erano indiscriminatamente usate nel passaggio da un'inquadratura a un'altra, anche quando l'azione era continua, senza cioè che intervenissero mutamenti spaziali o salti temporali. L'uso della d. incrociata non era quindi ancora legato ‒ come invece avverrà quasi in modo sistematico a partire dalla fine degli anni Venti ‒ alla presenza di ellissi. Le d. di Méliès ebbero una relativa fortuna: se i contemporanei inglesi del regista preferivano il ricorso agli stacchi, il celebre The life of an American fireman (1902) di Edwin S. Porter univa con d., proprio com'era accaduto per Cendrillon, tutte le inquadrature che lo componevano. Tuttavia, dopo quell'anno, l'uso della d. incrociata tese quasi a scomparire, se non nei film dello stesso Méliès. Rare, in quel periodo, anche le d. in apertura o chiusura, che tuttavia si trovano, per es., nel film Pathé Ali Baba et les quarantes voleurs (1902) di Ferdinand Zecca e in quello Gaumont La vie du Christ (1906) di Victorin Jasset e Alice Guy, in cui precedono e seguono le diverse didascalie. In quegli stessi anni si riscontrano anche i primi esempi di uso della d. quale momento di transizione a una dimensione onirica, come accade nel film Biograph Hooligan's Christmas dream (1903), o a un flashback. Talvolta le d. potevano anche avere un effetto lirico, sottolineare uno stato d'animo, come accade nella scena dell'addio fra i protagonisti del film Vitagraph The life of Napoleon. Napoleon and the empress Josephine (1909) di J. Stuart Blackton. Fu soprattutto a partire dal 1912 che le d., in particolare quella di chiusura seguita da quella d'apertura, iniziarono a essere utilizzate per indicare un salto temporale, come, per es., in The one she loved (1912) di David W. Griffith, ma fu tuttavia solo alla fine del decennio successivo che tale prassi ‒ insieme con quella dell'uso della sola d. incrociata ‒ divenne dominante, rimanendo poi tale per un trentennio.

Fra la seconda metà degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, l'uso delle d. attraversò una vera e propria fase critica, dovuta sia a ragioni squisitamente tecniche, sia a fattori estetici e di linguaggio. Sul piano tecnico il diffondersi del colore determinò una serie di problemi per ciò che riguardava le sovrimpressioni cromatiche delle d. incrociate: i risultati erano così scadenti che molti decisero di farne a meno. Sul piano estetico, il diffondersi delle nouvelles vagues, che scardinarono molti dei presupposti su cui si costituiva il sistema espressivo del cinema classico, rimise anche in discussione l'uso stesso della d., in particolare nella sua funzione ‒ considerata eccessivamente didascalica ‒ di indicatore di ellissi temporale. Solo nel corso degli anni Settanta e dei decenni successivi la d. ritornò a essere utilizzata, ma in modo meno diffuso e standardizzato che in precedenza. Cresciuto e maturato insieme al cinema, lo spettatore non aveva più bisogno di un qualsivoglia effetto visivo che indicasse la presenza, nel tessuto narrativo di un film, di un salto temporale. La d. ha così assunto un valore più ampio, per es. di accentuazione drammatica in Viskningar och drop (1972; Sussurri e grida) di Ingmar Bergman, oppure lirico, epico ed estetico, come, per es., in Apocalypse now (1979) e in Bram Stoker's Dracula (1992; Dracula di Bram Stoker), entrambi di Francis Ford Coppola.

Bibliografia

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