DIVINITÀ

Enciclopedia Italiana (1932)

DIVINITÀ (fr. divinité; sp. divinidad; ted. Gottheit; ingl. deity)

Edvard LEHMANN
Raffaele PETTAZZONI

A quasi tutte le forme della vita religiosa è comune l'esistenza di un rapporto con potenze superiori; non tutte però si possono qualificare come divinità. Negli stadî inferiori, sono oggetto della religiosità forze naturali, demoni, dei; ma solo quando il sentimento religioso si manifesta come venerazione, si può parlare anche del divino. Pertanto la religione nel vero senso del termine si distingue dalla magia, in quanto questa vuole esercitare una costrizione sugli esseri spirituali, assoggettandoli e rendendoli docili alla volontà umana mediante esorcismi e scongiuri; mentre nel culto autentico l'uomo alza lo sguardo verso gli esseri adorati, sottomettendosi alla loro volontà, e aspira a renderseli propizî (v. culto). Di divinità in senso proprio si può parlare solo dove incomincia il culto vero e proprio e dove questo consiste in una forma qualsiasi di adorazione. Che cosa sia divinità, si può stabilire con una certa ragione dal tipo del rapporto con il divino. Più difficile è segnare limiti precisi per quel che riguarda gli oggetti dell'adorazione. Questi possono infatti spostarsi dalla magia al culto e, di nuovo, ricadere nella stregoneria. Questo fa della molto dibattuta questione dell'origine degli dei più un contrasto di punti di vista che un reale problema storico, suscettibile di trattazione cronologica.

Una contrapposizione di principio esiste certo tra il modo di vedere tradizionale, secondo il quale la fede nel divino e un certo monoteismo sarebbero un fatto primordiale, e un punto di vista di tempi più recenti, il quale considera questa fede come il risultato di un'evoluzione da forme inferiori a forme sempre più elevate. La prima teoria, che risale alla Bibbia, venne difesa dalla speculazione del romanticismo; anche il fondatore della moderna scienza delle religioni, F. Max Müller, in un certo senso si pose da questo punto di vista. Contro il monoteismo originario si sollevò già David Hume, nella sua Natural History of Religion (1757) sostenendo che il grado di elevatezza raggiunto dalla concezione del divino dovesse necessariamente corrispondere allo sviluppo della coscienza umana e che il monoteismo dovesse appartenere a uno stadio elevato di quest'ultima. Per le dottrine moderne intorno all'origine del monoteismo, v. cielo: l'Essere celeste; monoteismo.

Uno spostarsi degli oggetti della venerazione si coglie già nel passaggio dal culto delle anime a quello degli dei. Questi due culti, anche se si svolgono contemporaneamente, in generale sono tenuti distinti, come, p. es., presso i Greci. Nondimeno è notevole, appunto presso i Greci, come il culto p. es., di Ercole, di Esculapio, dei Dioscuri, ecc. passi dall'una all'altra sfera. Le anime deì faraoni furono assunte, dalla sepoltura nelle Piramidi, al mondo divino; e nell'India moderna possiamo sperimentare come l'anima di un grande maestro a asceta, dapprima venerata nella tomba, gradatamente viene ad essere considerata come un'incarnazione (avatāra) del dio Viṣnu. Il culto delle anime (v. animismo), che comincia sotto forma di scongiuri ed esorcismi, riceve sempre più il carattere di una venerazione dei morti - e con ciò si apre la via verso la divinizzazione, e quindi l'adorazione di un essere divino.

Lo sviluppo del concetto del divino si può seguire anche per altre vie. Dalle ricerche di Hermann Usener è risultato chiaro che figure divine si possono formare mediante la combinazione sia di fenomeni naturali o della vita umana, sia dei loro operatori. Così il fulmine, che è qualche cosa di sacro per sé stesso, viene considerato come opera d'una potenza divina, quindi di una persona divina, finché questo dio del fulmine non viene assorbito da una divinità superiore, Zeus "il Fulminante" (v. zeus). Così per gli altri fenomeni naturali: dappertutto si sono creati questi "dei particolari" o "funzionali" o "momentanei", cui si attribuisce cioè un'attività singola e circoscritta e la cui esistenza si riconosce solo in quel determinato momento. Le forze operanti (agentia, potremmo dire) di quelle cose con le quali operava la magia, sono diventate forze personali (agentes), che l'uomo cerca di dirigere, rivolgendosi ad esse come a persone.

Ma non sempre gli esseri divini sono concepiti in questo modo. Si trovano infatti dappertutto alcune divinità, le quali posseggono bensì tutti i requisiti, ma la cui attività è limitata a una piccola regione, a un luogo determinato. Queste "divinità locali" si trovano soprattutto là dove gli uomini hanno assunto dimora stabile, mentre le popolazioni ancora nomadi sono legate piuttosto a divinità ancestrali o tribali. Così Jahvè secondo molti critici sarebbe stato in origine un dio tribale degl'Israeliti, e loro guida nelle peregrinazioni (v. ebrei). Zeus dev'essere stato il dio di una stirpe; la sua sposa secondo i poemi omerici era indiscutibilmente una divinità locale argiva e molti santuarî di Zeus mostrano che il dio tribale e il dio celeste si è fuso con divinità locali. La Grecia, frastagliata in tutti i sensi, ha costituito un campo fecondo per lo sviluppo dei piccoli culti locali, le cui divinità hanno potuto subire la stessa sorte degli dei funzionali ed essere assorbite da divinità maggiori. Non diversamente in Egitto e in Babilonia: anche qui la molteplicità degli dei locali (per lo più di città) costituì l'ampio substrato della vita religiosa, dal quale si svolsero poi le figure divine maggiori e generali.

Così si svolge il politeismo. Il terreno su cui esso è cresciuto è la concezione pluralistica dei fenomeni naturali e il frazionamento della società umana, poiché la raffigurazione d'una molteplicità di dei e di potenze è vitale solo in queste circostanze. Ma non è necessario che esista un politeismo cultuale. Spesso, e proprio negli stadî inferiori, il culto locale o sociale si rivolge di preferenza verso un dio, magari circondato dalla sua famiglia o dalla sua servitù (monolatria), mentre sussiste ancora l'idea dell'esistenza indubitabile di altre divinità accanto a quella invocata. Un vero pantheon, quale si trova nella piena fioritura del politeismo, è per lo più il risultato di una combinazione cosciente compiuta da sacerdoti, da dominatori, o anche - come il pantheon omerico - da poeti. Possiamo seguire molto bene questo processo in Egitto e in Babilonia, dove la formazione di un impero servì perciò a concentrare la molteplicità degli dei, quando il capo dello stato volle, attraverso la venerazione di tutti gli dei, fondere in unità le loro sfere cultuali. L'azione dei sacerdoti, che furono occupati in tale opera, si tradisce attraverso l'interesse sistematico a ordinare gli dei in certe famiglie o gruppi. Triadi divine come quelle babilonesi o indiane (trimurti); enneadi, come quelle egiziane; gruppi di dodici come quelli delle divinità omeriche o capitoline, si sono formati in tal guisa. Uno sviluppo ulteriore di questo processo di sistemazione nel seno del politeismo è nel cosiddetto sincretismo. La sua particolarità è di solito questa, che l'allargamento del mondo divino non dipende da un interesse cultuale, ma dal fatto che divinità diverse - come, p. es., nell'Impero romano - di razze o popoli diversi, rimosse dal luogo del loro culto, furono messe insieme e venerate promiscuamente, con o senza culto. Già il politeismo egizio finì in un sincretismo: nel periodo ellenistico si osservano innumerevoli combinazioni e fusioni di divinità e i sistemi di dei furono rielaborati in genealogie infinite, che permettono di farsi un'idea di quello sterminato mondo divino. Così il pantheon dell'induismo moderno: in esso è sempre difficile stabilire i confini tra le singole divinità, e ciò tanto più, in quanto l'elemento panteistico, che agisce in ogni sintetismo, vi è particolarmente accentuato.

Il panteismo è in realtà una via migliore del sincretismo per afferrare e rilevare l'infinitezza del divino. Caratteristica del panteismo è la rappresentazione del divino come Essere universale, come forza cosmica impersonale e spirituale. Questa concezione si manifestò molto presto nella filosofia greca, poiché i pitagorici parlavano di un Nus (νοῦς), di una Mente universale: pensiero rielaborato in senso più idealistico dai platonici, più materialistico dagli stoici. Ma la classica patria di questa concezione religiosa resta sempre l'India. Nella filosofia dei Brāhmaṇa, delle Upaniṣad l'unità e l'universalità dell'essere furono espresse mediante il concetto del brahman. Il divino, che secondo la sua essenza viene chiamato ātman ("sé") o prāṇa ("respiro") era concepito come astratto e impersonale nella maniera più rigorosa, come un essere non solo incorporeo, ma completamente privo di qualità, spoglio d'ogni particolarità: un essere del quale si poteva appena riconoscere l'esistenza, per non caricarlo di qualificazioni positive. La scuola del Vedānta mantenne questo concetto nella più nuda astrazione: scuole più recenti del Medioevo indiano (Rāmānuja, sec. XII), al contrario, hanno attribuito all'Essere supremo la piena esistenza con tutte le qualità particolari, tra cui quelle materiali, anche le più basse, affinché nulla mancasse alla sua universalità. Questo oscillare fra le posizioni estreme è caratteristico del panteismo. Una certa instabilità è sempre propria di questa audace concezione unitaria. Il panteismo autentico si riconosce da ciò, che esso vuole fondere insieme, per quanto è possibile, le tre grandezze: Dio, natura, uomo; ma in questo processo una di esse tenderà sempre a prendere il sopravvento. Così l'unità tra Dio e la natura cade o nell'acosmismo o nel naturalismo, secondo che la natura venga riassorbita in Dio, o Dio nella natura. L'unità tra l'uomo e Dio è pure soggetta a cadere nell'assorbimento o dell'umano in Dio (mistica; v.) o del divino nell'umano. Questa instabilità del pensiero panteistico rimane sempre un fermento che si direbbe indispensabile, come dimostra la storia delle speculazioni teologiche nel seno di religioni anche molto diverse tra loro.

Di monoteismo si può parlare soltanto dove si tratta non solo di unità, ma anche di una vera divinità. Perciò il vero monoteismo si dìstingue dalla nuda monolatria, che si può trovare anche in situazioni inferiori e limitate. Per la massa del popolo israelita al tempo dei Giudici era una cosa abbastanza naturale che i Moabiti avessero il loro Kemosh, com'essi avevano il loro Jahvè. Ma in seguito all'efficace azione dei Profeti essi giunsero a superare questa limitatezza di vedute e a riconoscere in Jahvè non già un dio tribale o locale, bensì l'autentico signore del mondo, che ha creato ogni cosa e che tutto governa secondo la sua volontà; che ha largito la sua legge, che infligge la punizione e concede la sua grazia, in quanto giudice di tutti i popoli, che alla fine egli raccoglierà sulla sua santa montagna quando stabilirà il suo regno divino in terra. Qui si presenta come fatto assolutamente distintivo il rapporto religioso, il completo abbandono alla fede nel Dio che dirige. Questo è appunto il carattere che distingue il monoteismo profetico da quello puramente ritualistico-sacerdotale, che ci appare in alcune grandi religioni. Come esempî di queste potremmo considerare i culti egiziani di Rîe e di Osiride o la venerazione in apparenza esclusiva di un dio babilonese quale Sin, il potente dio locale della città di Ur. Nonostante la grande insistenza sulla sua potenza e il vasto dominio sulla natura che dà origine ai suoi predicati, questo dio resta pur sempre uno tra i molti, non il principio che produce ogni esistenza umana, ed è in realtà solo un esempio di una monolatria superlativa, che fa, di un essere potente, l'unico.

In maniera affatto diversa fu concepita la divinità cui il parsismo di Zarathustra sottopose il mondo: Ormazd o Ahura Mazdāh ("il Signore della Saggezza"): considerato non solo come creatore e signore dell'universo, ma come un principio, come il reggitore morale del "Mondo della purezza" che governa il mondo secondo le leggi di questo e lo dirige verso una finale perfezione, dopo aver vinto il principio malvagio a lui avverso, il diabolico Ahriman (v.). Anche questa concezione si può considerare come profetica; e la stessa cosa si può dire, in maniera anche più recisa, per l'Islām. Come religione derivata sostanzialmente dal giudaismo e dal cristianesimo, il messaggio di Maometto non ha le sue radici nel rituale e anche la sua teologia fin dall'inizio non fu concepita in maniera teoretica. L'idea base era quella dell'assoluta e onnipotente volontà di Allāh, che si manifesta nel reggimento del mondo e nel dirigere i destini umani con assoluto arbitrio, al disopra di ogni motivo umano: unità e assolutezza che sarebbero state condannate a un totale irngidimento, se la mistica e la filosofia non avessero reso meno ristretto questo concetto della divinità.

Senza una certa cooperazione del pensiero filosofico difficilmente il monoteismo riesce a dare tutti i su0i frutti. L'unità può essere un concetto primitivo, non però l'universalità. All'universale, che costituisce la base necessaria di un monoteismo compiuto, non si giunge senza un allargamento e un approfondimento di visuali. La formazione del concetto di universalità presuppone da una parte una concezione della natura capace di abbracciare la molteplicità dei fenomeni, mentre d'altra parte sono necessarie anche esperienze umane, che dal frazionamento dei popoli facciano sorgere l'ideale, e anche la realtà, di un'unica umanità. Al realizzarsi della prima condizione ha senza dubbio contribuito l'osservazione del cielo - cioè delle prime leggi naturali constatabili - e questo già al tempo della formazione delle grandi religioni. In Babilonia, in Egitto, e specialmente in Cina, l'osservazione degli astri ha dato una grande spinta all'universalismo. Gli antichi filosofi greci, meno attenti ai fenomeni celesti, hanno cercato un principio delle cose, ciascuno a suo modo; e sempre più ci si avvicina, in forma sia personale sia ideale, alla grande coscienza dell'unità, che è alla base così dell'idealismo di Platone come della filosofia naturale di Aristotele: dottrine che non furono senza influenza anche sulla teologia del cristianesimo. La quale usò bensì termini, come quelli di "padre", "Signore", "Dio", "divinità" che erano comuni alla filosofia antica e al paganesimo; ma diede loro un nuovo significato e un nuovo valore, strettamente monoteistico. E al monoteismo rigido, alieno da ogni forma d'immanentismo evoluzionista, quale troviamo nella Bibbia, essa tenne fede, pur affermando d'altra parte il dogma della Trinità: in quanto essa distinse nettamente le tre Persone o "ipostasi" divine e l'essenza di Dio: la divinitas, la divinità di Dio: nozione del divino ben più viva di quella del rigido Islām o del posteriore deismo razionalistico.

La divinità si può dunque definire come "l'Essere perfetto, spirituale, che abbraccia tutto ciò che esiste, la cui azione è alla base di tutto, la cui volontà è la legge della natura inanimata e la forma assoluta della morale, e che mediante il suo solo essere dà valore all'esistente". Da questo concetto di Dio si sono dedotte le ulteriori nozioni della divinità, in cui si dà il maggior peso o alla natura di Dio (unità, universalità, spiritualità, sublimità, assolutezza), o alla sua potenza (come creatore, reggitore dell'universo, giudice, redentore), o al valore e al carattere morale della divinità (purità, giustizia, perfezione e bontà), o alla santità di Dio e al suo amore: gl'ideali dell'Antico e del Nuovo Testamento, i due elementi fondamentali del concetto cristiano della personalità di Dio.

Per il concetto cattolico di Dio e per le varie dottrine filosofiche, v. dio.

Iconografia. - Già in epoca preistorica (età della pietre, del bronzo) si ebbero rappresentazioni figurate di esseri divini (idoletti femminili in tombe neolitiche). L'antica civiltà egea e cretese conobbe la rappresentazione figurata della divinità accanto a quella aniconica o simbolistica la doppia scure, il pilastro, ecc.). Caratteristica dell'antico Egitto è la rappresentazione degli dei in forma di animali, oppure in figura umana, ma con testa di animale o, per un'ulteriore attenuazione del teriomorfismo, con testa pure umana ma conservante qualche residuo di animalismo (p. es. la faccia della dea Hathor con corna e orecchie bovine). Spesso per rappresentare il soprannaturale l'arte incolta ricorse al superumano, cioè al mostruoso, specialmente presso i popoli primitivi (p. es. i cosiddetti "feticci" africani), ma anche nell'antico Messico e nell'India (divinità induistiche con molte teste, molte braccia, ecc.), nonché, a quanto pare, presso popolazioni celtiche e slave. La rappresentazione delle divinità raggiunse il massimo antropomorfismo nella Grecia antica. I Romani non ebbero originariamente rappresentazioni figurate dei loro dei: le derivarono primamente dagli Etruschi (che alla loro volta dipendevano dall'arte greca) e poi dai Greci, e a loro volta le diffusero presso le popolazioni celtiche e germaniche. Dall'arte greca derivò anche l'arte indiana, e in particolare l'arte buddhistica, che penetrò poi anche in Asia e nel Giappone. In generale sembra che la rappresentazione figurata delle divinità sia stata estranea ai popoli indoeuropei nella loro fase originaria. L'assenza di antropomorfismo è secondo Erodoto (I, 131) un carattere specifico della religione dei Persiani, presso i quali le prime rappresentazioni divine derivano dall'arte assiro-babilonese. Dall'arte assira (influenzata da quella egizia) derivò anche la figura del dio supremo Ahura Mazdāh (una figura barbata emergente a mezzo busto da un cerchio alato), quale si vede in rilievo nei monumenti degli Achemenidi. La rappresentazione figurata della divinità è particolarmente estranea alle religioni monoteistiche: essa manca nella religione ebraica e nell'islamismo. Per l'arte cristiana, v. dio.

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