CERATO, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CERATO, Domenico

Franco Barbieri

Nato nel 1715, forse il 4 agosto (L. Trissino, Artisti vicentini, ms.presso la Bibl. Bertoliana di Vicenza, Libreria Gonzati 26.5.4/5 [1949-1950]) e probabilmente a Mason, nella zona pedemontana a nord di Vicenza, venne adottato ancor giovanissimo dal conte Francesco Cerato-Loschi con il pieno consenso della moglie Carolina Loschi: suo padre naturale sarebbe stato, secondo alcuni, un Bernardo Fradellini, agente d'amministrazione dei cospicui beni Cerato a San Biagio di Mason; secondo altri, lo stesso conte Francesco. Studiò a Vicenza, nelle scuole dei gesuiti; nell'anno scolastico 1733-1734 figura iscritto al seminario di Padova dopo aver prima, a quanto sembra, tentato gli studi di diritto e, certo, senza molta vocazione, se ben presto se ne allontanò per riparare nel padovano collegio dei somaschi, a S. Croce. Fece allora, per mantenersi, il prefetto degli allievi: ma, in seguito, si decise a ripiegare nell'alveo della disciplina tanto che, nel 1738, lo troviamo già ordinato sacerdote, in ossequio, tutto fa credere, a una precisa disposizione dell'adottante, pena la sospensione degli assegni. Tuttavia, sotto l'esito apparentemente conformista e tale da avallare magari l'immagine un po' frusta dell'abate don Domenico, questi anni formativi del C. dovettero essere travagliati e aperti a valide e diverse esperienze più di quanto solitamente non si pensi.

La Vicenza dell'inizio del Settecento, nella sua relativa stabilità economica e con i conseguenti fermenti di espansione e sistemazione urbanistica realizzati tramite gli autorevoli interventi del Muttoni e del Massari, avvalendosi anche della presenza del magistero scolastico dei gesuiti - il cui "probabilismo" si risolveva spesso in una sia pur condizionata apertura "verso i problemi offerti dalla contemporaneità storica" (Vecchi, pp. 143 s.) - non era, intanto, assolutamente, un centro inerte sul piano della cultura: si aggiunga che, nell'ambiente, venivano esercitando in quegli anni grande influenza liberatoria e, entro precisi limiti, quasi eversiva, la predicazione e gli scritti di G. A. Checcozzi, sospetto di eresia giansenista. Da parte sua, il seminario padovano eradavvero allora una "roccaforte degli studi", dove si impartiva una formazione piuttosto varia, "solida ed organica" (Berengo, 1957, p. 234); mentre l'assoluta maggioranza del medio e basso clero veneto - del quale il C. era entrato a far parte - sfuggiva, nella sua derivazione contadina e per serietà di dottrina, al pericolo di divenire "esponente del fanatismo più oscurantista e retrivo", ed assorbiva semmai "un vivo contenuto sociale" proprio "dalla vita condotta a fianco dei ceti più umili" (ibid., pp. 233-234).

Morto il conte Gerato-Loschi subito dopo il 1745, il C., trovatosi favorito da un vitalizio annuo di 235 ducati, con la disponibilità di alcuni poderi e circa 4.000 ducati in mobili, preziosi, denaro liquido, godette per poco, stabilitosi a Vicenza, di una relativa agiatezza: non molto avveduto negli affari, dissipò facilmente, assieme ad amici padovani, quasi tutto il patrimonio. Ma, nella necessità, maturava in lui quella naturale vocazione all'insegnamento ed alla pratica dell'architettura che, rafforzata da studi personali ed asistematici di matematica, geometria, meccanica e disegno, lo accompagnerà per la vita: così, tra 1748 e 1750, il C. apriva in contra' Carpagnon, dove abitava, una sua scuola privata di architettura "per giovani volonterosi", raccolti, con spregiudicatezza del tutto insolita, "sia dal ceto operaio che dal civile", e li preparava con tale metodo da porli in grado "di superare in soli dieci mesi i fondamentali rudimenti dell'arte di costruire" (Fogaroli, 1863, p. 6), istruendoli "con amore e pazienza" nell'architettura civile e militare e, nel caso, provvedendoli "di libri, d'istrumenti, di carta" (Savi, 1884). Contemporaneamente, iniziava autonoma attività di architetto.

Dopo essere intervenuto con sue proposte nella controversia degli anni 1746-1747 per i portici di Monte Berico, il C., eretto il nuovo, bel portone bugnato sotto il portico di palazzo Civena-Trissino, ne prolungò e riorganizzò l'atrio, aprì il grande scalone, sistemò la facciata verso il cortile e rimaneggiò l'interno (1750: solo il portone e l'atrio sono rimasti integri dopo i bombardamenti subiti durante la seconda guerra mondiale e la conseguente ricostruzione). Contemporanei (dell'anno 1750) sono gli studi per il progetto del palazzo Lioni a Ceneda (ora Vittorio Veneto) eseguito con modifiche che gli conferiscono "chiarezza ed eleganza" (Motterle, pp. 77-79). Nel 1752 il C. disegnò l'altare per la sacrestia della chiesa di S. Felice; rinnovò poi per i Branzo-Loschi (1758-1760) una loro precedente fabbrica di villa a Vallugana di Isola Vicentina. Inoltre, se la sua responsabilità nell'ideazione della ampliata chiesa dei gesuiti in contra' Riale (1750) andrà ridimensionata dopo le recenti precisazioni (Massari, 1971) che testimoniano la contemporanea presenza del veneziano Giorgio Massari, è molto probabile spettino al C. il rifacimento di villa Apolloni ora Zordan ad Altavilla Vicentino (1750) nonché i portici (condotti dal 1756 al 1783) e la definizione dei rustici attorno al cortile settentrionale di villa Piovene (ora da Schio) a Castelgomberto (Cevese, 1971).

Senonché, nonostante l'abilità innegabile di questi suoi "restauri" e lavori di rinnovo, condotti con perizia e sani criteri economici, e, soprattutto, i suoi preziosi meriti di insegnante, il C. venne presto a trovarsi in disagio. I discepoli scarseggiavano ed i proventi della attività di architetto e di insegnante, affidati alla generosità della controparte, erano troppo spesso irrisori: mentre un Invito, pubblicato nel 1755 per attirare proseliti alla scuola, ottenne scarso effetto. Di pari passo, si stringe attorno al C. una rete sottile di ostilità e di incomprensione: la sua origine incerta, che nessuna adozione, per quanto illustre, riesce a far dimenticare, qualche suo atteggiamento poco "ortodosso" e quel suo avvicinarsi a giovani del "ceto operaio", sono destinati a fomentar sospetti in una cerchia come quella della cultura aristocratica vicentina, capace di accettare, non fosse altro per tipico gusto di fronda intellettuale, il "giansenismo" di G. A. Checcozzi, ma non il "populismo" del Cerato. Di conseguenza, proprio quando la città celebra i pomposi funerali dell'"eretico" Checcozzi, si acuisce la crisi di rigetto, provata dalle tortuose vicende dell'altar maggiore di S. Stefano (1757) - conteso nell'esecuzione tra il C. e Domenico Angeli e, comunque, aspramente stroncato, con tenace odio retrospettivo, vent'anni più tardi, dall'Arnaldi (Descrizione delle architetture, pitture e scolture di Vicenza, I, Vicenza 1779, pp. 119 s.) - e dal fallito intervento del C. (1753-1757) per la costruzione del campanile di Asiago (incarico sottrattogli ed assolto da S. Paino: G. Maccà, Storia del territorio vicentino, XIV, Caldogno 1816, p. 88), distrutto durante la prima guerra mondiale.

In simili circostanze, tornò utile al C. accettare l'ospitalità dell'astronomo e meteorologo Giuseppe Toaldo, suo amico e condiscepolo nel seminario padovano quasi coetaneo e conterraneo (1719, Pianezze di Marostica presso Mason), divenuto dal 1759 arciprete di Montegalda. Solo tra 1763 e 1764, quando il Toaldo sarà chiamato alla cattedra padovana di astronomia, il C., calmatesi le acque, ritorna, pensionante presso i somaschi, nella sua Vicenza, dove le versatili possibilità del suo pragmatismo gli procurano ancora qualche incarico: la ristrutturazione (1763-1764) del seminario in contra' San Francesco Vecchio - rimangono elementi nel cortile, nella scala, il portone sulla strada a conci di bugnato - e l'erezione del nuovo atrio e scalone del convento di S. Felice (1764-1766), purtroppo inconsultamente demoliti nel 1897. È probabile cadano adesso, se si accetta l'attribuzione del Cevese (p. 481), anche i lavori per l'adiacenza di villa Trissino (ora Celadon Faeda) alla Colombaretta di Montecchio Maggiore. Ma, stabilitosi definitivamente il Toaldo a Padova nel dicembre 1765 dopo un viaggio di studio agli osservatori astronomici italiani, dai primi mesi del 1766 il C. lo segue: anzi, iniziato col maggio 1767 l'adattamento della torre del Castello vecchio padovano (la "Torlonga") in specola astronomica, il C., che si occupa della questione fin dall'anno precedente, alloggerà d'ora in avanti in Castello assieme al Toaldo.

Spettano al vicentino i finestroni bugnati ricavati nel corpo della torre e la sua parte terminale, le terrazze ad oriente, e, forse, lo scalone a giorno nei cui sostegni trovano accorto reimpiego colonne gotiche di varia provenienza: "il vecchio monumento acquista... valore esclusivamente funzionale", diventa, "alla fine, solo il supporto dell'osservatorio soprastante" (Olivato, 1977, p. 196), concreta immagine del trapasso dai secoli bui della cultura alla luce della scienza. L'opera, altamente impegnativa, era stata preceduta dalla proposta, da parte del C., di adattare il fusto di una colonna romana di età flavia, rinvenuta (16 ottobre 1764) tra le fondamenta del distrutto oratorio di S. Giobbe, a sostegno di una statua di S. Antonio sul sagrato della basilica a lui dedicata: immediatamente la cosa non ebbe seguito e la colonna fu innalzata solo nel 1787(proto A. Giacon) sul lato occidentale di piazza dei Signori, sormontata dal leone di S. Marco.

Sempre dal 1766, dietro probabili esortazioni del Toaldo ed in accorta previsione di futuri sviluppi, il C. riannoda intanto i fili della sua attività didattica insegnando, nella sua casa, ai giovanetti figli degli artigiani occupati nella specola: fatto sta che, quando nell'aprile, 1769 i "tagliapietra, muratori e marangoni" padovani, attraverso i capi delle loro arti, indirizzeranno supplica al podestà per ottenere "valevole mezzo di pratico maestro che loro additasse li sodi principii di architettura", i Riformatori dello Studio, investiti della questione, si rivolgeranno direttamente al C., al quale poco dopo, il 12 aprile 1771, sarà conferito l'incarico ufficiale universitario di "architettura civile pratica". Subito, sbrigati i necessari preliminari organizzativi, iniziarono le lezioni domenica 4 ag. 1771 nella residenza vicino alla specola astronomica, presenti più di settanta allievi, aggiungendosi ai rappresentanti delle tre arti "fondatrici" anche fabbri ed agrimensori.

I corsi si tenevano da novembre a tutto agosto, in due turni ante e postmeridiani, in giorni festivi e semifestivi stante le imprescindibili necessità di questi particolari studenti lavoratori: e il contenuto dell'insegnamento era tipico esempio di una convinta concezione razionalista, logico sbocco della formazione palladiana e, soprattutto, scamozziana del C. rinvigorita nell'alveo della feconda tradizione padovana, instaurata su basi scientifiche fin dal Galilei e portata ad esiti di scoperta strutturazione tecnologica, proprio nel secondo '700, dal Poleni e dallo Stratico, uno dei primi, tra l'altro, fra i cattedratici dell'università, "a denotare simpatia per le massime francesi" (Berengo, 1957, p. 289). Sulla spinta della predicazione del Lodoli e nel clima dell'illuminismo, l'architettura è in tal modo inquadrata nei termini di una scienza esatta, basata su una ferrea concatenazione di rapporti stabiliti dal calcolo matematico: l'edificio, in quanto esito dell'operazione del costruire, diventa la conclusione di un teorema. Senza nessuna facile indulgenza accademica, sebbene le lezioni andassero sempre più adeguandosi "alla dignità universitaria", restava ad ogni modo prevalente "la particolare attenzione agli aspetti economici e operativi dell'edilizia" (Passadore, 1963, p. 322): gli scolari imparavano a costruire ponti, case coloniche, porte, osterie, colonne, manufatti, insomma, in cui fosse essenziale saper impostare le strutture in termini eminentemente funzionali e tecnici (Brunetta, 1976), ed erano spinti ad accompagnare il lavoro di progettazione con il "computo più esatto delle spese, che occorrerebbero" alla effettiva esecuzione (Savi, 1884), ed a preparare con le loro mani modelli in legno ed in pietra di cornici, incavallature ed annature (Zanazzo, 1963, pp. 87-88). A garanzia di serietà, veniva infine chiamato a partecipare agli esami annuali il pubblico titolare di matematica dell'università: una medaglia d'oro premiava i migliori. Vivendo con altissima coscienza di maestro e autentica dignità morale la fatica assidua dell'insegnare, il C. riscatta davvero, in questo entusiasmo, quel tanto di strano e di abnorme che ne aveva segnato, fin dalla nascita, il temperamento.

In perfetta coerenza, del resto, le opere padovane del C. "documentano un originale tentativo di tradurre quelle teorie sul piano della realizzazione, con risultati sempre di buon livello e spesso di notevole modernità" (Passadore, 1963, p. 319). Nel dicembre 1772 è compiuto il palazzetto a custodia del Tesoro del comune e del Monte di pietà nel cortile della residenza municipale padovana: modesto ma abile intervento che "raccoglie ed esprime le direttrici formali e sostanziali" del C. costruttore, attento al "mantenimento costante degli interessi funzionali" (Olivato, 1977, pp. 192 s.); dal 1774, per concludersi nel 1780, inizia "l'azione di corretto adeguamento figurativo sul prospetto del Vescovado" stendentesi sul lato sud del sagrato del duomo (Puppi, 1973, p. 128 nota 158); nel 1775 il C. conduce una ricognizione sulle condizioni statiche del ponte dei Carmini (Motterle, p. 106). Determinante fu l'incontro del C. con Andrea Memmo, spirito aperto di riformatore e fedele allievo del Lodoli, provveditore straordinario del governo veneto a Padova: nel 1775, in uno spirito di piena collaborazione tra l'architetto, avveduto realizzatore, ed il provveditore, che "entrava nel merito della progettazione e vagliava ogni dettaglio" (Passadore, 1963, p. 324), cominciò la sistemazione della vastissima area acquitrinosa del "Prato della Valle".

Al centro viene isolato da un canale, alimentato tramite condutture sotterranee, un ampio spazio ellittico (la famosa "isola Memmia"), raggiungibile per quattro ponti, popolato da ben ottanta statue di padovani e forestieri illustri, da vasi ornamentali su alti piedistalli, da aguzzi obelischi. Abbandonata la primitiva idea di esedre di botteghe che avrebbero dovuto valorizzare l'aspetto mercantile dell'assieme, tutto ombreggiato di alberi annosi, con i suoi viali privi di un qualsiasi "riferimento preciso verso una qualsiasi strada o un qualunque monumento" (Semenzato, 1972, p. 87), slegato cioè da ogni continuità assiale con la circostante impostazione urbanistica, il "Prato" si presenta adesso come il parco di una villa veneta settecentesca magicamente inserito in una smagliatura ai margini del contesto cittadino, sospeso tra il fascino lucido ed un po' freddo dell'illuminismo, un molle sapore d'Arcadia l'incanto di un romantico presentimento (cfr. Bettini, 1973, pp. 11-12, 35).

Cade al 1778 la definitiva approvazione del progetto per il nuovo Ospedale civile di Padova, preparato da studi risalenti al 1771 e anticipato concretamente da una breve nota in argomento, stesa per incarico del Memmo l'8 febbraio 1776.

La responsabilità della grandiosa impresa, intelligente "complesso di soluzioni adattabili a ogni esigenza e, per così dire, flessibile a interventi successivi", nonostante modifiche in corso di cantiere e la partecipazione di Andrea Zorzi e Bernardino Maccaruzzi - si limitasse questa a particolari di contorno o riguardasse un giudizio globale sulla validità della fabbrica - si deve, comunque, "integralmente assegnare" al C. (Olivato, 1977, pp. 197-200). Posta la prima pietra il 20 dic. 1778, l'edificio si inaugurava il 29 marzo 1798, capomastro Giuseppe Sabbadini, direttore dei lavori Daniele Danieletti.

Sullo stesso piano di scarna ed essenziale funzionalità non disgiunta da severa dignità formale è il seminario vescovile di Rovigo (prima pietra. 30 nov. 1779; inaugurazione, 23 nov. 1794), condotto sotto la direzione di G.B. Padrini, capomastri G.B. Pachini ed il Sabbadini, purtroppo alterato dalla sopraelevazione (1949-1950) di un piano. Del 1779-1780 è la chiesa dei Bagni di Abano. Sappiamo inoltre di interventi del C. per restaurare il coperto della sala del Maggior Consiglio nel palazzo ducale di Venezia ed intorno alle cupole di S. Marco; gli spetterebbero anche (1769) il coro ampliato e l'altar maggiore del duomo di Schio, la chiesa arcipretale di Abano e l'ex casa del botanico nell'Orto botanico di Padova (Motterle). Nel 1784 il C. pubblicava in Padova, presso l'editore Penada, il suo Nuovo metodo per disegnare li cinque ordini di architettura civile conforme le regole di Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi, in due tomi dedicati ai "Riformatori dello Studio".

Il C. mori in Padova il 30 maggio 1792 e fu sepolto con modesto funerale: tuttavia, appena un mese dopo, il Nuovo Giornale enciclopedico d'Italia (1792, p. 108) gli dedicava un commosso necrologio, esaltandone i meriti di architetto e di insegnante, le doti di "uomo raro, d'una bontà infinita, d'una modestia, d'una riverenza, d'una beneficienza illimitata verso tutti"; e l'amico Toaldo ne rimpiangeva, in una sua nota autografa, l'"esattezza impareggiabile". Lasciava agli scolari tutti i suoi disegni, gli strumenti della professione con gli armadi stessi che li contenevano e i numerosi libri posseduti, prova evidente, nella ricchezza e varietà dei titoli, della apertura dei suoi interessi alla circolazione europea della cultura a lui contemporanea. Alle lezioni del C. si era formata tutta una schiera non solo di architetti e studiosi (Bertotti Scamozzi, Calderari) ma anche di imprenditori, periti ed abili capomastri i quali realizzeranno alcune delle opere più importanti dell'ultimo Settecento nel Veneto: pensiamo a Daniele Danieletti, che sostituirà il maestro, dopo la morte, nell'incarico dell'insegnamento, ai ricordati Pachini, Padrini e Sabbadini, ad Angelo Sacchetti e Antonio Noale, per rammentare i più qualificati.

Fonti e Bibl.: Carteggio e disegni del C. sono ora raccolti a Padova, presso l'Arch. antico dell'università e la Bibl. civica (Raccolta iconografica padovana): detti documenti sono stati attentamente visitati da E. Motterle, L'ab. D. C. archit. e professore, tesi di laurea discussa presso l'università di Padova, anno acc. 1959-1960. Presso la Bibl. Bertoliana di Vicenza (busta Le 28, fasc. 26.4.5.[40]) sono quattro lettere in data 4 marzo 1753 e 16, 19, 23 genn. 1757, copie molto probabilmente ottocentesche tratte "dagli autografi del cav. ab. Moschini, depositati nella libreria di S. Michele di Murano", relative a un intervento del C. per l'erezione del campanile dell'arcipretale di Asiago. Altra lettera autografa, della stessa Bibl. vicentina (E 145/G.s.ia.[105]), diretta dal C. a G. Scola e datata Padova, 8 maggio 1780, insiste sulla necessità che i "periti agrimensori" non possano stendere perizie di immobili se prima non ne siano stati abilitati espressamente dai maestri delle arti dei marangoni, muratori e tagliapietra. La bibliogr. sul C. fino al 1972 trovasi raccolta in F. Barbieri, Illuministi e neoclassici a Vicenza, Vicenza 1972, dove è un ampio saggio sul C. (pp. 25-37). Saranno però da tener sempre presenti le vecchie biogr. di G.B. Fogaroli, Notizie sulla vita dell'arch. abate D.C. vicentino, Padova 1863; e I. Savi, Biogr. dell'abateD.C. architetto, Vicenza 1884; nonché la più recente di G.B. Zanazzo, L'abate arch. D.C.,in Odeo Olimpico, IV(1963), pp. 83-92; e, per l'inquadratura culturale e stor., il fondamentale M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze 1957, e l'articolato saggio di A. Vecchi, La vita spirituale, in La civiltà venez. delSettecento, Firenze 1960, pp. 131-152. Si aggiungano: R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, I-II, Milano 1971, ad Indicem, e A. Massari, G. Massari architetto venez. del Settecento, Vicenza 1971, pp. 96 s.: due opere delle quali non si era potuto tener conto in Illuministi e neoclassici, cit.; e inoltre L. Olivato, Ottavio Bertotti Scamozzistudioso di Andrea Palladio, Vicenza 1975, ad Indicem. Per quanto riguarda più specificamente l'attività padovana, dopo la buona sintesi di G. Passadore, D. C. architetto a Padova, in Boll. del Centro internazionale di studi di architetturaAndrea Palladio, V (1963), pp. 318-329, si vedano: C. Semenzato, Guida per Padova, Vicenza 1972, pp. 75, 87, 90; S. Bettini-G. Lorenzoni-L. Puppi, Padova. Ritratto di una città, Vicenza 1973, ad Indicem; Padova. Basiliche e chiese,a cura di C. Bellinati-L. Puppi, Vicenza 1975, pp. 332, 344; G. Brunetto, Gli inizi dell'insegnamento pubblico dell'archit. a Padova e a Venezia, Padova 1976; L. Puppi-L. Olivato, in Padova. Case e palazzi, a cura di L. Puppi-F. Zuliani, Vicenza 1977, ad Indicem (ivi, alle pp. 56 n. 31, 199 n. 89, sono affacciati alcuni dubbi del Lorenzoni e del Puppi sulla tradizionale attribuzione al C. del prospetto del vescovado di Padova verso il sagrato del duomo).

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