GHISLANDI, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 54 (2000)

GHISLANDI, Domenico

Maria Elena Massimi

Nacque intorno al 1620, probabilmente a Bergamo, dove fu attivo come pittore e decoratore. Le prime testimonianze documentarie attengono alla sua vita privata. Già nel gennaio del 1639 battezzava in S. Alessandro in Colonna la primogenita Ursula, morta l'anno seguente, nata dal matrimonio con Flaminia Mansueti dalla quale, nel quinto decennio, ebbe i figli Giovanni Battista (1641), Ursula (1642) e Romana (1647). Nel 1641 e ancora nel 1648 il G. fu tra gli elettori dei sindaci della parrocchia di S. Alessandro in Colonna presso la quale, il 4 marzo 1655, fece battezzare i figli gemelli Beatrice e Giuseppe. Quest'ultimo avrebbe seguito le orme paterne e, divenuto nel 1765 frate paolotto con il nome di Vittore, sarebbe stato più noto come Fra Galgario.

Tempi e modi della formazione pittorica del G. sono ignoti; ma il fatto che la sua attività prendesse avvio negli anni Quaranta a palazzo Terzi - uno dei più splendidi "templi" del barocco bergamasco - lascia presupporre nel giovane artista il possesso di solide credenziali, acquisite attraverso lo studio della tradizione decorativa cremasca e, forse, tramite l'alunnato diretto presso G.G. Barbello. Noris (1985; 1987) ipotizza che da Bergamo il G. si sia spostato saltuariamente in territorio cremasco e che abbia frequentato la bottega di Barbello negli anni a cavallo tra il quarto e il quinto decennio. A palazzo Terzi il G. affiancò, in qualità di quadraturista, il pittore tedesco Gian Cristoforo Storer, realizzando i telai architettonici del salottino degli specchi e della sala rossa; le quadrature del salottino, dipinte nei primi anni Quaranta, andarono perdute in un intervento del XVIII secolo. Nella sala rossa (1645) il G. si rivela professionista dotato, sebbene legato alla concezione - ancora manierista - della natura ancillare del riquadro; alle finte architetture l'artista affidava in questo contesto non l'ampliamento illusorio dello spazio, ma la sua coerente articolazione.

L'intervento del G. consta di quattro cartelle, una per parete, intese a cornice dei dipinti e ricavate ciascuna dalla combinazione di due contrafforti e un timpano spezzato: strutture possenti, che arginano visivamente le composizioni storeriane. Negli otto telamoni che affiancano le cartelle, Noris (1985, p. 294) individua - con qualche margine di dubbio - una delle rare opere di figura del Ghislandi. Agli angoli della sala appare per la prima volta, ma defilata e funzionale a un'illuminazione verosimile, la formula del balcone aggettante a cielo aperto, di cui il pittore fece successivamente ampio uso.

Dopo l'esordio indipendente il G. riallacciò i contatti con la bottega di Barbello. Dietro probabile richiesta del cremasco subentrò al meno docile quadraturista G.B. Azzola nei lavori di palazzo Moroni a Bergamo, come semplice membro di un'équipe (1650). La strategia unificante messa in atto da Barbello, attento regista e responsabile ufficiale della decorazione, rende impossibile la distinzione delle molte mani e l'individuazione del contributo ghislandiano. Tra il luglio 1650 e il luglio 1653 gli vennero corrisposti, direttamente da Barbello, alcuni importi in denaro; nei documenti di pagamento il nominativo dell'artista ricorre informalmente come "messer Domenico" e, una tantum, in una formula di affettuosa predilezione ("Domenico suo": Noris, 1985, p. 278), che palesa sintonia e contiguità di intenti. Il sodalizio fra i due artisti durò sino alla morte del cremasco (1656). Frutto di fattiva collaborazione sono gli affreschi della sala da pranzo e del salone d'onore di palazzo Terzi (1653-55).

Se nel primo ambiente l'intervento del G. si riduce a una balaustra di inquadramento della scena mitologica dipinta sul soffitto dal Barbello, nel salone (1655) l'artista creò un telaio prebarocco estremamente composito ed efficace. Gli elementi architettonici della sala rossa vengono qui sottoposti a un'estrosa variatio formale; il repertorio decorativo si infittisce sino a comprendere, nel fregio sotteso all'intera struttura, piccoli cammei con figurette rapidamente schizzate. La teca prospettica concepita per il salone d'onore resta, per resa tecnica e capacità di integrazione alle pitture, uno degli esiti più alti dell'arte del Ghislandi.

Tra 1656 e 1662, su commissione della Misericordia Maggiore, il G. realizzò diciannove cammei monocromi (i "camaini" citati dai documenti: ibid.) per gli stucchi del transetto di S. Maria Maggiore, con figure allegoriche.

I cammei, condotti a pennellate sommarie e vigorose, richiamano per fattura quelli del salone d'onore di palazzo Terzi. L'intervento, benché l'unico "autoctono" nel cantiere di S. Maria Maggiore, in quegli anni totalmente affidato a maestranze e artisti forestieri, non ebbe visibilità, né reale portata; il basso importo devoluto al pittore (66 lire e 10 soldi) ne denuncia la marginalità.

Dopo quest'incarico, accettato per il prestigio derivante non dall'opera ma dal luogo destinato a contenerla, il G. ebbe in affidamento dalla Misericordia Maggiore la decorazione (non più esistente) del dormitorio dell'Accademia musicale nella Domus Magna di via Arena (1663).

Tra 1662 e 1664 il G. tornò sulle impalcature di palazzo Terzi, accanto al decoratore Carpoforo Tencalla. Le quadrature della sala dell'Aurora, che siglavano un ciclo di grande compattezza e costituivano, nell'evoluzione stilistica del pittore, l'approdo di due decenni di attività, sono andate perdute; nel fregio di raccordo tra soffitto e pareti il G. aveva inserito, come divenne poi sua abitudine, alcuni pregevoli paesaggi (Tassi, p. 21). Con la realizzazione della sala dell'Aurora si chiudeva per l'artista il fecondo periodo delle collaborazioni.

Tra 1667 e 1670 lavorò per il conte Vittorio Maria Fogaccia nella residenza di Clusone, presso Bergamo; scomparsi gli affreschi, della commissione resta memoria nel carteggio fra i due (Noris, 1985, p. 279). Nel 1670 realizzò, per la chiesa domenicana di S. Maria Mater Domini a Bergamo, una decorazione mista, architettonica e figurativa; chiamato ad animare volumetricamente la piatta facciata, ideò una partizione in due ordini, incastonando a mezza altezza le figure della Vergine con il Bambino, S. Domenico e S. Caterina da Siena; di questa pittura da esterno, un unicum nella produzione dell'artista, non sopravvivono che scialbi lacerti.

Alla seconda metà degli anni Settanta vanno riferiti tre interventi in dimore patrizie di Bergamo e del Bergamasco, che danno conto di una sintassi figurativa ormai accuratamente strutturata e personalizzata. Sono datati al 1676 gli affreschi del palazzo comunale - già Pellicioli del Portone - ad Alzano Lombardo, a lungo contesi, per carenza di documentazione, fra Azzola e il G. (ibid., p. 289).

Tra gli ambienti decorati vengono ricondotti alla mano del G. la sala di Minerva e quella dei busti militari, entrambe pullulanti di elementi esornativi (ghirlande floreali, intarsi marmorei, mezzibusti, mascheroni e volute), nonché il salone d'onore, dove l'artista combinò, in due distinti livelli, ampie cartelle paesaggistiche e balconi aperti su nubi e fronde.

Non documentati ma presumibilmente coevi sono gli affreschi del salone d'onore di villa Agliardi a Paladina, vicino a Sombreno, in cui il G. ripropose, enfatizzandola, l'associazione verticale di cartelle figurate ed elementi architettonici illusionistici en plein air, qui particolarmente fastosi (portici, arcate, balaustre). Collocabile tra 1675 e 1680 è pure il salone d'onore di palazzo Morlani a Bergamo, dove la possente struttura colonnata che svetta sopra le cartelle incornicia un soggetto mitologico di ridottissime dimensioni, ormai insignificante nell'economia distributiva dello spazio.

Per il referendario apostolico Francesco Tasso, in palazzo Tasso (ora Lanfranchi) a Bergamo, il G. concepì l'ultima delle sue opere documentate, affrescando, tra 1679 e 1680, il soffitto della stanza destinata a ospitare la regina Cristina di Svezia nel corso di un viaggio che poi non ebbe luogo. La decorazione - concepita a glorificazione della sovrana, che però non soggiornò mai in città - consta di un unico, portentoso baldacchino, traforato e proiettato contro il cielo da sedici colonne binate: un'opera di mera architettura, in cui è assente la minima traccia di inserto narrativo o eteromorfo.

Da questo momento l'arte del G., ormai sessantenne, andò lentamente scemando di qualità, affidandosi a formule stereotipe e ampiamente sperimentate. Sono da collocare tra gli ultimi due decenni del XVII secolo e il primo del XVIII una decina di interventi - tra quelli attribuibili al G. su base stilistica e citati dalle fonti - in dimore nobiliari cittadine o del Bergamasco, dove, su richiesta di una committenza minore, il pittore ripropose, segmentandole e svuotandole della coerenza e della forza d'impatto originarie, le soluzioni prospettico-architettoniche degli anni Sessanta e Settanta.

Queste dimore sono: a Bergamo, i palazzi Polli (già Alborghetti), Perini (già Brembati), Camozzi (già Galiotini) e villa Grumelli Pedrocca (già Abati); a Cenate Sotto, i palazzi Lupi (già Fiori) e Albini (già Lupi); a Chignolo d'Isola, villa Roncalli; a Clusone, palazzo Barca (già Marinoni). Il filo rosso che accomuna le dimore nella paternità ghislandiana è, perlopiù, la resa naturalistica dei paesaggi; ulteriore elemento probante, la reiterata presenza di cammei che evocano quelli di palazzo Terzi e di S. Maria Maggiore.

È plausibile che le poche opere di figura realizzate dal G., tutte perdute, siano da riferire all'ultimo periodo di attività, quando per l'anziano pittore era divenuto rischioso praticare scale e impalcature. Le fonti menzionano la Madonna con il Bambino e santi della cappella di casa Asperti a Seriate e, a Bergamo, le Storiedi s. Gualberto nel coro della chiesa del S. Sepolcro di Astino, nonché gli affreschi con Storie di s. Francesco di Paola, santi francescani e pontefici nel chiostro del Galgario, commissione che gli fu forse procurata dal figlio Giuseppe, frate in quel convento.

Il G. morì a Bergamo, ultranovantenne, nell'ottobre del 1717.

Secondo fonti locali - quali per esempio le Memorie per servire alla storia de' pittori… bergamaschi di G.M. Tasso del 1761 circa (Bergamo, Biblioteca civica: Noris, 1985, pp. 277, 287 s.) - l'artista, ridotto alla mendicità, avrebbe trascorso l'estrema vecchiaia in un ricovero per anziani e infermi di mente. Viene accomunato al padre in questa sorte "deviante" il poco noto Defendente (del quale si ignora l'anno di nascita) che avrebbe abbandonato il mestiere di pittore dopo aver manifestato segni di squilibrio e ipocondria, premorendo al fratello Giuseppe (Fra Galgario) in stato di grave indigenza (Locatelli, pp. 447, 458; Locatelli Milesi).

La vicenda umana e l'attività artistica del G. furono, se non chiuse asfitticamente tra le mura di Bergamo, confinate però al territorio limitrofo; dalla città natale il pittore si allontanò solo per qualche breve soggiorno nel Cremasco, dove poté studiare le opere barbelliane identificate da Noris (1985) come testi fondamentali per la sua formazione: villa Tensini Edallo Labadini (ante 1638) e S. Maria delle Grazie (1641-42) a Crema e villa Vimercati Sanseverino a Vaiano Cremasco (verso il 1645). La presenza di Barbello a Bergamo sin dagli anni Quaranta (in palazzo Moroni) dispensò il G. dall'ampliare l'orizzonte delle proprie ricerche e dei propri contatti. La complessa cultura del cremasco, pittore di figura, di paesaggio e d'architettura, legato alla tradizione naturalistica lombarda ma aggiornato al contempo sulle teorizzazioni e le sperimentazioni prospettiche in voga (il trattato Della architettura di Giuseppe Viola Zanini, le opere dei quadraturisti bresciani "a punto di fuga mobile"), fu per il G. fonte privilegiata di apprendimento; non a caso Noris (1985, p. 294) parla, relativamente alla collaborazione con Barbello nei primi anni Cinquanta, di "corso di perfezionamento secentesco" del Ghislandi. Da Barbello egli derivò principalmente la vocazione al dato di natura, che rimase una costante nella sua produzione, palesandosi nell'accorto mimetismo morfologico e cromatico delle architetture e nel gusto per un paesaggio reale, mai bozzettistico. A livello locale il G. lavorò per la più prestigiosa committenza (i Moroni, i Terzi, la Misericordia Maggiore) frequentando cantieri artisticamente all'avanguardia. In decenni di attività il suo linguaggio andò gradatamente evolvendo verso l'autonomia dell'architettura dipinta (che da cornice diviene quadro: Noris, 1985) e il senso panico del paesaggio (che da contenuto muta in contenitore): partendo dalle cartelle "tamponate" della sala rossa di palazzo Terzi, costruite a esclusiva contenzione degli affreschi di Storer, il G. approdò, attraverso un progressivo svuotamento delle strutture, al baldacchino circondato d'aria e di luce di palazzo Tasso. Questa personale riflessione sul ruolo indipendente della quadratura lo pone tra i coscienti innovatori seicenteschi del genere, anche se, per contingenze pratiche e temperamento, il G. rimase isolato in un locale limbo prebarocco, presentendo - senza pervenirvi - lo spazio illimitato sperimentato altrove da Domenico Piola, Gregorio De Ferrari, G.B. Gaulli e, poi, A. Pozzo. Il tenace ancoraggio al vero di natura è l'unica caratteristica che lo accomuna a Fra Galgario che si formò, salvo forse per i primi rudimenti del mestiere, lontano dalla bottega paterna; nei confronti del figlio è probabile che il G. avesse avuto una funzione, peraltro utilissima, di mediatore culturale, familiarizzandolo tra le mura domestiche ai temi e ai problemi della tradizione artistica bergamasca. Tramandano le severe fattezze del pittore due ritratti in collezione privata, entrambi attribuiti (ma con riserva: Gozzoli, 1982, pp. 131 s.) a Fra Galgario; in uno il G. è raffigurato mentre impugna il foglio e il compasso, gli strumenti della sua professione "di misuratore dello spazio reale e di inventore di finzioni prospettiche" (Noris, 1985, p. 277). La figura del G. è stata approfonditamente studiata da F. Noris che ha fornito un'attenta valutazione critica e una plausibile successione cronologica dell'opera del pittore, recuperandone la fisionomia individuale a fronte di una tradizione storiografica ingenerosa e solita menzionare il padre in margine al profilo del figlio.

Fonti e Bibl.: F.M. Tassi, Vite de' pittori… bergamaschi, II, Bergamo 1793, pp. 21-23; P. Locatelli, Illustri bergamaschi…, I, Bergamo 1867, pp. 435-441, 447, 458; A. Locatelli Milesi, Fra Galgario, Bergamo 1945, pp. 11-13; M.C. Gozzoli, Vittore Ghislandi detto Fra' Galgario, in I pittori bergamaschi. Il Settecento, I, Bergamo 1982, pp. 10, 131 s., 135; E. De Pascale, La presenza di Gian Giacomo Barbello a Bergamo, in I pittori bergamaschi. Il Seicento, III, Bergamo 1985, pp. 252-254; F. Noris, D. G., ibid., pp. 275-311 (con bibl.); Id., La grande decorazione, in Il Seicento a Bergamo (catal.), Bergamo 1987, pp. 261-273; E. De Pascale, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989, II, pp. 761 s.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIII, pp. 565 s.

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