PARODI, Domenico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PARODI, Domenico

Daniele Sanguineti

PARODI, Domenico. – Nacque a Genova tra il 1644 e il 1653 da Giovanni Antonio maggiordomo presso una nobile famiglia della città.

Per questi estremi anagrafici è necessario affidarsi, in mancanza di documenti, alle informazioni fornite da Carlo Giuseppe Ratti il quale, nel manoscritto preparatorio alle Vite, indicò nel 1644 la nascita e nel 1704 la morte (Ratti, 1762, 1997, p. 87), mentre nell’edizione a stampa (1769, p. 121) fissò al 1703, «cinquantesimo di sua età», l’anno di morte, suggerendo implicitamente una nascita da collocare nel 1653. In realtà lo scultore, che a detta di Ratti morì avvelenato nel corso di un esperimento alchimistico, era ancora in vita nel 1712, poiché risulta inserito nell’elenco, redatto dall’Arte degli scultori e scalpellini, di coloro che, certi di rappresentare un’arte liberale, esercitavano la professione senza essere iscritti nella relativa matricola (Santamaria, 2000-03, p. 65). Da alcuni documenti (Parma Armani, 1990, p. 184) si è appreso il nome corretto del padre, appellato erroneamente Anton Maria dal biografo.

Avviato dal padre agli studi umanistici, in seguito «s’invogliò d’apparar la scoltura e perciò fu a certo scultore raccomandato» (Ratti, 1762, 1997, p. 88). Il biografo omise, nell’edizione a stampa, che il fanciullo, prima di conoscere Filippo Parodi – di cui fu amico ma non parente –, aveva abbandonato il primo maestro e aveva iniziato «a studiar da sé stesso e a disegnare e modellare il più bel che vedea» (Ratti, 1762, 1997, p. 88). In questo momento è ipotizzabile una forte suggestione esercitata dalle opere in marmo lasciate in città dal marsigliese Pierre Puget nel corso degli anni Sessanta. Secondo il biografo, Domenico raggiunse Filippo Parodi a Roma ed entrò, per suo tramite, nello studio di Gian Lorenzo Bernini, dove «ebbe [...] de’ buoni insegnamenti e per cinque continui anni stiede colà instancabilmente studiando» (Ratti, 1762, 1997, p. 88). La conclusione dell’esperienza romana ebbe termine, secondo quanto riportato nella versione a stampa della biografia, con il rientro di Filippo a Genova, «allorché questi per la seconda volta da Roma fece ritorno» (Ratti, 1769, p. 119). Il quinquennio romano di Domenico è difficilmente immaginabile in sovrapposizione a quello di Filippo, frammentato nel primo lustro degli anni Settanta e sicuramente nel 1672, anno dell’unica testimonianza di un suo soggiorno a Roma in relazione a un altro avvenuto in precedenza (v. Parodi, Filippo, in questo Dizionario).

Si potrebbe piuttosto ipotizzare una presenza romana dello scultore a cavallo tra l’ottavo e il nono decennio, quando Filippo Parodi, con il quale Domenico lavorò in patria per qualche tempo «sotto la direzione di lui» (Ratti, 1769, p. 119), aveva ormai intensamente avviato i suoi cantieri in Veneto. Non si dispone infatti di alcuna notizia relativa alla presenza dello scultore entro i cantieri di Filippo Parodi a Padova e Venezia (Franchini Guelfi, 2011, p. 54), mentre i suoi lavori documentati in patria datano intorno alla metà degli anni Ottanta.

Molto romano, nell’impostazione berniniana del drappo srotolato e nella tipologia dell’urna sormontata da volute angolari, il Sepolcro di Giovanni Battista Raggi nella chiesa di S. Francesco d’Albaro a Genova (Magnani, 2008, p. 62) che potrebbe testimoniare l’attività immediatamente successiva al rientro in patria.

A Genova, Domenico, che aveva sposato una delle figlie del pittore Domenico Piola, aprì una propria bottega presso la porta dell’Acquasola (Ratti, 1769, p. 119).

Chiaramente inserito in quella colta e aggiornata congiuntura costituita dagli apporti romani di Filippo Parodi e dalla sintesi tra le arti professata da Piola e dagli artisti della sua bottega, i lavori in marmo di Domenico esprimono un linguaggio ricco di riferimenti alla pittura di Piola e alla scultura di Pierre Puget ma con una maggior predilezione per accentuazioni eloquenti e ampie risonanze spaziali. Lo dimostrano le due opere più celebri, ricordate da Ratti (1769, p. 119), ossia la Madonna assunta sull’altar maggiore della chiesa di S. Maria di Castello, assegnabile a un momento successivo al 1684 – data che, riferendosi ai lavori di ristrutturazione del presbiterio (giuspatronato Giustiniani) all’indomani del bombardamento sulla città inferto dalla flotta francese, è utile per segnare il rientro dell’artista in patria –, e il Battesimo di Cristo della chiesa di S. Maria delle Vigne, del 1697 (Cervetto, 1920), molto romano nel suo riferirsi a prototipi algardiani, in particolare al bronzetto di identica iconografia elaborato da Alessandro Algardi e in quel tempo conservato in palazzo Franzone a Genova (Franchini Guelfi, 1988). Tra queste due opere si collocano le statue di Luciano Centurione e di Paola Maria Saluzzo, scolpite nel 1686-87 per l’antichiesa interna all’Albergo dei Poveri di Genova (Parma Armani, 1990, pp. 176 s., 184 s.), e la Madonna del Rosario della parrocchiale di Savignone, di cui esiste una quietanza, firmata dallo scultore e datata 27 giugno 1690, relativa alla consegna di dieci scudi d’argento rispetto ai quaranta pattuiti da parte della committente, Maria Geronima Fieschi (Genova, Archivio Fieschi presso il Conservatorio Fieschi, foglio sparso).

Va invece restituita a Daniele Solaro, come dimostrano i documenti (Belloni, 1988, p. 159), la Madonna del Rosario già nella chiesa di S. Antonio Abate di Prè e ora nell’atrio della Curia vescovile di Genova, attribuita a Domenico Parodi da Ratti (1769, p. 119).

Il biografo ricorda inoltre l’esecuzione della Madonna con Gesù Bambino conservata nella cattedrale di Ventimiglia (Ratti, 1769, p. 120).

Alla fine degli anni Novanta risale una possibile collaborazione dello scultore sempre con Filippo Parodi per la realizzazione della statua dell’Immacolata nella chiesa di S. Luca a Genova commissionata a Filippo nel 1698 e alla quale, secondo Ratti (1762, 1997, p. 88), Domenico «molto travagliò».

Le altre opere in marmo citate dal biografo a Genova, ossia una piccola Madonna sulla facciata di un palazzo in salita Carbonara – veduta anche da Federigo Alizeri (1847, p. 658) –, diciotto busti per un committente milanese, sei busti per il palazzo Lomellini in piazza dell’Annunziata, molte opere inviate in Spagna, tre statue effigianti senatori «ne’ cortili» dell’Albergo dei Poveri e un’altra, sempre di senatore, presso l’ospedale di Pammatone – non sono state rintracciate.

Non è un caso che dalla diversificata modalità di produzione propria di Filippo Parodi, Domenico avesse ereditato anche la prassi di scolpire in legno e come «scultor di legno», oltre che di marmo lo ricorda lo stesso Alizeri (1875, p. 72). Si deve a Domenico Parodi, in tale veste, la macchina processionale raffigurante la Madonna del Pilar appare a s. Giacomo realizzata per l’oratorio genovese della Marina dedicato al santo (ora a Genova Cornigliano, chiesa di S. Giacomo) ed eseguita «poco dopo», nella scansione cronologica rattiana (Ratti, 1769, p. 120), il citato gruppo per il fonte battesimale delle Vigne, che però, come testimonia la documentazione rinvenuta, è opera tarda. Ratti riservò parole di lode a questo gruppo ligneo, riportando l’opinione, da lui non condivisa, che lo scultore fosse stato assistito nell’esecuzione da Puget. Al contrario il biografo, proprio per tale macchina, chiamava in causa Agostino De Negri, allievo di Domenico e specializzatosi anch’egli a Roma (Sanguineti, 2013a, pp. 187, 404 s.).

Non è semplice stabilire con esattezza i rapporti con De Negri, che avrebbe potuto, a partire dagli anni Novanta del Seicento, eseguire le commissioni di scultura lignea ricevute da Parodi e da quest’ultimo solo progettate (Franchini Guelfi, 1988). Il rinvenimento di un’opera lignea sicuramente ascrivibile ad Agostino, come si evince dalle testimonianze documentarie, ossia la Madonna dei sette dolori della chiesa di S. Tommaso a Belgodere in Corsica (ma proveniente dal convento dei serviti della stessa località), realizzata nel 1694-95 (Sanguineti, 2013a, pp. 187 s.), complica per certi versi la questione; se nel suo linguaggio, piuttosto arcaico, tale manufatto pare da un lato distante dalla scrittura più fluida che sostanzia la macchina processionale di s. Giacomo, dall’altro sembra invece accostabile, dopo una debita correzione in senso aulico, alle statue lignee raffiguranti la Madonna Addolorata e S. Giovanni Evangelista per l’oratorio di S. Giovanni a Finalmarina e ora nella parrocchiale (Sanguineti, 2013a, p. 188). Queste ultime, ricordate da Ratti (1769, p. 120) come lavoro di Domenico, vennero in effetti pagate a lui – con una cifra che comprendeva anche l’impegno di alcuni collaboratori – nell’ottobre 1700. Da quel documento si apprende che lo scultore aveva bottega in zona S. Agnese, giacché le casse contenenti le opere da lì furono condotte al ponte della Mercanzia per l’imbarco. Infine Ratti, ricordando nel solo manoscritto, la paternità di Domenico per alcune figure reggitorcia «in casa della signora Livia Pallavicini nel suo palazzo a Banchi» (Ratti, 1762, 1997, p. 88), forniva l’indicazione che anche l’artista, sulla scia di Filippo Parodi, si era occupato della produzione di sculture ornamentali da integrare all’arredo. Anche in questo caso, resta da stabilire se opere di questo tipo venissero scolpite direttamente da lui o da De Negri, che, molti anni dopo, avrebbe realizzato simili statue per Giovanni Francesco II Brignole-Sale (Sanguineti, 2013a, p. 404).

Non si può accettare, per questioni di scrittura, l’attribuzione a Domenico Parodi del gruppo ligneo con la Madonna Assunta nell’omonima chiesa di Genova Nervi, formulata da Belloni (1988, p. 222), il quale assegna allo stesso scultore anche la macchina processionale, di identico soggetto, conservata a Rossiglione Inferiore, opera documentata come di Nicolò Tassara (Sanguineti, 2013a, p. 453).

Al linguaggio della bottega di Domenico si adatterebbero invece le forme magniloquenti della Madonna del Rosario, in legno policromo, giunta nella chiesa della Ss. Trinità a Sassello nel 1695 (Sanguineti, 2013a, pp. 188, 275, n. 426).

Federigo Alizeri (1847, p. 1345), sulla base di libri contabili da lui consultati, indicava, come opere di Domenico, due statue in legno policromo raffiguranti la Fede e la Speranza, viste nella distrutta chiesa di Nostra Signora della Provvidenza di Prè: il dato è probabilmente esatto e non, come è stato detto (Franchini Guelfi, 1988, p. 281), riferibile all’omonimo figlio di Filippo, titolare della bottega di pittura e scultura in marmo ereditata dal padre.

Ignoti sono il luogo, probabilmente Genova, e la data di morte di Domenico, avvenuta dopo il 1712 come si evince dal menzionato elenco redatto dall’arte degli scultori e scalpellini.

Fausta Franchini Guelfi dubitava della data di morte proposta da Ratti (1703 o 1704), rilevando una contraddizione circa la commissione, ricordata dallo stesso biografo, di un busto che ritraeva l’«ammiraglio Pekemburgh», ossia Charles Mordaunt, conte di Peterborough, e l’arrivo dello stesso in Italia, per la prima volta, nel 1707 (Franchini Guelfi, 1988, p. 279). Lo slittamento della data di morte oltre il 1712 non pare inoltre utile ai sensi della cronologia della produzione lignea finora nota, pensando in particolare alla macchina processionale di s. Giacomo, il cui linguaggio attardato, rispetto alle opere in marmo, ben si adatta a una sistemazione cronologica ancora entro il Seicento.

Fonti e Bibl.: C.G. Ratti, Storia de’ pittori, scultori et architetti liguri e de’ foresti che in Genova operarono (1762), a cura di M. Migliorini, Genova 1997, pp. 87-89; Id., Delle vite de’ pittori, scultori ed architetti genovesi, Genova 1769, pp. 118-121; F. Alizeri, Guida artistica per la città di Genova, II, Genova 1847, pp. 658, 1345; Id., Guida illustrativa del cittadino e del forastiero per la città di Genova…, Genova 1875, p. 72; L.A. Cervetto, La chiesa di N.S. delle Vigne nel suo svolgimento artistico, in S. Maria delle Vigne nelle feste per la sua incoronazione, Genova 1920, p. 44; F. Franchini Guelfi, Appunti su alcuni problemi della cultura figurativa a Genova alla fine del Seicento, in Pantheon, 1975, n. 4, pp. 321 s.; V. Belloni, La grande scultura in marmo a Genova (secoli XVII e XVIII), Genova 1988, pp. 220-222; F. Franchini Guelfi, Il Settecento. Theatrum sacrum e magnifico apparato, in La scultura a Genova e in Liguria dal Seicento al primo Novecento, II, Genova 1988, pp. 278 s.; E. Parma Armani, Documenti per le statue dei benefattori dell’Albergo dei Poveri…, in Quaderni Franzoniani, 1990, n. 2, pp. 159-195; D. Sanguineti, Arredo marmoreo e scultura da processione: ricerca di un patrimonio smembrato, in S. Giacomo della Marina, a cura di G. Rotondi Terminiello, Genova 1996, pp. 93 s.; R. Santamaria, L’arte dei marmorari lombardi a Genova, in Studi di storia delle arti, 2000-03, n. 10, pp. 63-76; D. Sanguineti, Domenico Piola e i pittori della sua casa, I, Soncino 2004, pp. 121, 130, n.76; L. Magnani, Un’immagine barocca: la chiesa di S. Francesco d’Albaro, in S. Francesco d’Albaro 1308-2008, a cura di G. Rossini - G. Tozza, Genova 2008, pp. 62 s.; F. Franchini Guelfi, Giacomo Antonio Ponzanelli, Massa Carrara 2011, pp. 51 s., 54 s., 57, 383 s. 386; M. Bartoletti, Giacomo Bertesi a Genova, in Giacomo Bertesi 1643-1710, a cura di M. Marubbi, Cremona 2012, pp. 81 s.; D. Sanguineti, Scultura genovese in legno policromo dal secondo Cinquecento al Settecento, Torino 2013a, pp. 185-189, 404 s., 430 s.; Id., A margine della cappella Franzone: Algardi e Genova, in La cappella dei signori Franzoni magnificamente architettata…, a cura di M. Bruno - D. Sanguineti, Genova 2013b, p. 149.

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