Don Camillo

Enciclopedia del Cinema (2004)

Don Camillo

Antonio Faeti

(Italia/Francia 1951, 1952, bianco e nero, 100m); regia: Julien Duvivier; produzione: Giuseppe Amato per Rizzoli/Francinex; soggetto: dall'omonimo romanzo di Giovanni Guareschi; sceneggiatura: Julien Duvivier, René Barjavel; fotografia: Nicholas Hayer; montaggio: Maria Rosada; scenografia: Virgilio Marchi; musica: Alessandro Cicognini.

Primavera del 1946. Don Camillo è il prete, Peppone il sindaco comunista di Brescello, paese emiliano sulle rive del Po. Peppone festeggia la vittoria alle elezioni comunali con un discorso; dall'alto del suo campanile, Don Camillo scioglie le campane per coprirne la voce. Peppone festeggia anche, lo stesso giorno, la nascita del quarto figlio; Don Camillo si rifiuta di battezzarlo perché il padre vuol mettergli nome Lenin, poi viene ricondotto all'ordine dall'ironico, inflessibile crocifisso con cui intrattiene quotidiane conversazioni. La posa della prima pietra della Casa del Popolo smuove l'invidia di Don Camillo; il prete scopre che il denaro destinato all'impresa proviene da un bottino partigiano, e in cambio del silenzio ottiene che una parte dei soldi serva a finanziare la sua Città-Giardino. Uno sciopero dei contadini rischia di far morire le vacche per fame e per mancanza di mungitura; Don Camillo dà la colpa agli avidi proprietari, poi lui e Peppone passano la notte a mungere di nascosto gli animali. La vecchia maestra muore, e il suo ultimo desiderio è che la sua bara sia avvolta nella bandiera con lo stemma sabaudo; nonostante l'indignazione del consiglio comunale Peppone, suo antico allievo, fa rispettare le sue volontà. Mariolino e Gina, giovani innamorati appartenenti a famiglie nemiche, minacciano il suicidio; con l'aiuto di Don Camillo riescono a riconciliare i propri vecchi e a farsi sposare dal vescovo, che arriva a Brescello per inaugurare la Città-Giardino e non manca di felicitarsi anche per la Casa del Popolo. Alla festa del paese Don Camillo dà il via a una rissa generale; per punire il suo carattere irascibile, viene trasferito per un periodo in una parrocchia di montagna. Peppone promette botte a chiunque si presenterà alla stazione a salutare il prete, dunque Don Camillo parte solo e amareggiato; alla fermata successiva del treno, però, lo attendono i canti e i regali dei suoi parrocchiani; e alla fermata ancora seguente sono le fanfare di Peppone e dei suoi a dargli l'arrivederci.

Se si collega questo film, del francese Julien Duvivier, in cui fra l'altro domina quel volto inconfondibilmente cavallino di un attore, Fernandel, per anni simbolo ineguagliato della comicità francese nel mondo, con il mondo, non certo 'piccolo', di Giovannino Guareschi, ci si può chiedere sinceramente quali siano gli esiti di un simile accostamento, di una commistione così particolare. Ma si deve, per contro, capire subito che Duvivier, proprio perché non esplicitamente coinvolto con i sedimenti di un immaginario politico strutturato secondo le ardenti contrapposizioni del 1946, del 1948 e del 1952, può scrutare con sapiente distacco nel cuore delle storie, e sottolineare l'evidenza di certe componenti narrative ben lontane dall'occasionale attualità d'una lotta politica.

Proprio Guareschi del resto, nell'introduzione al primo dei volumi che dovevano comporre la serie con le storie di Don Camillo, aveva proposto ai lettori di prendere le distanze dalla simbologia del Prete e del Compagno, per riscoprire il senso di una certa campagna padana, di un microcosmo contadino emiliano, di una affabulazione collegata non soltanto agli eventi elettorali dei tre anni citati, ma molto di più a una perdurante antropologia culturale nata da un'attenta osservazione e quasi da una distillazione di storie, eventi, figure, accidenti e nostalgie. In questo senso, Duvivier è un colto ermeneuta che seleziona e sottolinea certi episodi, e altri volentieri li abbandona.

Un caso, tra gli altri, risulta molto convincente: Guareschi aveva ricavato, dallo svizzero Gottfried Keller, la vicenda di Romeo e Giulietta al villaggio, e subito Duvivier la ripropone, ampliandone il senso e l'importanza. Così questa ricorrente saga contadina che oscilla continuamente tra la polvere di un'aia insanguinata e le luci di una ribalta shakespeariana, è ben vera anche nel film di Duvivier, ed è lì per dire che il senso profondo delle storie di Guareschi non scaturisce da un 18 aprile 1948 o da un referendum in cui si è costretti a scegliere tra monarchia e repubblica, ma da ciò che hanno in comune i contadini, quelli di Brescello, quelli della Franca Contea, quelli del Devon, quelli del Canton Ticino.

A Duvivier non è sfuggita l'importanza di un tema fondamentale: quello della vecchia maestra che, nelle sue ultime volontà, espresse con un sospiro proprio al prete e al compagno, ha chiesto di essere sepolta con la bandiera sabauda, non con quella repubblicana. E sarà proprio Peppone, un tempo allievo indocile e sciagurato, a imporre in consiglio comunale il rispetto per quel desiderio, e anche a portare in spalla la bara con quel simbolo così rilevante nel sogno collettivo. Viene subito in mente che il francese Duvivier doveva aver letto di moltissimi nostalgici, irriducibilmente legati a vecchie bandiere: napoleonidi, realisti, ultramontanisti, orléanisti, comunardi, vandeani, boulangisti…

Ecco, allora, una squisita attenzione per la cappella sommersa, nelle cui acque la vecchia maestra colloca i fiori, senza temere i rintocchi arcani che annunciano disgrazie, ed ecco anche la piena partecipazione a vicende che non si presentano mai solo come italiane, o meno che mai emiliane o della provincia parmense. La durissima disfida calcistica tra la Gagliarda allenata dal prete e la Dinamo allenata dal sindaco potrebbe aver luogo tanto nella banlieue parigina quanto in una delle più povere favelas di Rio.

C'è un crocifisso che parla, remoto e vecchio, con il suo turbolento sacerdote, c'è un vescovo non lontano dalla tipologia del monsignor Benvenuto descritto da Hugo, c'è l'asprezza naturale di una Padania che è cugina del Contado Venosino. Un 'mondo piccolo' tradotto in francese, dunque? No, una vidimazione possibile e ben riuscita di quella universalità delle storie di Guareschi che tante traduzioni e così consistenti tirature avevano già del resto garantito. Duvivier è preso da questo universo contadino, che volentieri inquadra anche dall'alto con processioni, bande musicali, comizi, perché questo è un mondo che si esprime attraverso una coralità, una compresenza di donne, uomini, vecchi, bambini a cui si assegna una visività omogenea, quasi da quadro di Courbet. Il prete e il militante sono così gli antagonisti di una sorta di 'fiaba delle fiabe', che Duvivier, fino dal 1952, sa anche interpretare con una ribadita, partecipe nostalgia. Le faide carducciane dei piccoli comuni termineranno, i guelfi diventeranno televisivi come i ghibellini, le vecchie maestre saranno sostituite da pre-pensionate saltellanti in tuta, le Case del Popolo diventeranno supermercati, ogni Giulietta discotecaria avrà quindici Romei, ma solo il sabato sera.

Una storia accurata e ammiccante di una civiltà contadina già allora moribonda, una malinconica rassegna di ultime proposte, un tono in fondo anche crepuscolare, come spesso apparivano proprio gli altri libri di Giovannino: nostalgiche parodie del feuilleton, senza militanti, senza sacerdoti.

Interpreti e personaggi: Fernandel (Don Camillo), Gino Cervi (Peppone Bottazzi), Vera Talchi (Gina Filotti), Franco Interlenghi (Mariolino Brusco), Sylvie (signora Cristina, la maestra), Leda Gloria (moglie di Peppone), Charles Vissière (vescovo), Luciano Manar (Filotti), Armando Migliari (Brusco), Manuel Gary (delegato), Giorgio Albertazzi (don Pietro), Gualtiero Tumiati (Ciro della Bruciata), Carlo Duse, Saro Urzì, Cesare Polacco.

Bibliografia

G.F. Luzi, Don Camillo, in "Bianco e nero", n. 3, marzo 1952.

Feux sur 'Don Camillo', in "Positif", n. 4, 1952 (con interventi di X. Tilliette, L. Piollet, A. Bolduc).

J.B., Le petit monde de Don Camillo, in "Monthly Film Bulletin", n. 230, March 1953.

G.M. Gori, Il mondo piccolo di Peppone e Don Camillo, in "Cineforum", n. 200, dicembre 1988.

P. Billard, H. Niogret, Julien Duvivier, Milano 1996.

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