Donna

Enciclopedia dei ragazzi (2005)

donna

Margherita Zizi

L'altra metà del cielo

"Errore della natura" (Aristotele), "uomo mancato" (Tommaso d'Aquino), "sesso debole": queste definizioni dimostrano come quasi sempre la donna sia stata considerata inferiore all'uomo. Per secoli è stata subordinata all'autorità maschile, confinata nella sfera domestica ed estromessa dai campi più rilevanti del sapere e del fare. Questa esclusione si riflette anche nella lingua: la parola 'uomo' significa sia totalità degli esseri umani sia genere maschile, come se questo rappresentasse tutta l'umanità o ne fosse la parte più significativa. Solo di recente le donne hanno cominciato a rivendicare il loro diritto di 'esserci' e di contare in territori che in passato erano loro preclusi

Le differenze tra uomo e donna: natura e cultura

Come in altre specie animali, anche in quella umana esiste una distinzione tra i due sessi basata sulle differenze biologiche tra l'organismo maschile e quello femminile (anatomia). Ma da questa diversità biologica è derivata una serie di differenziazioni di ruoli, funzioni e modelli di comportamento che non sono 'date' dalla natura, ma sono un prodotto della 'cultura', dipendono cioè dalle forme di vita dell'uomo, dagli usi e dai costumi, dalle credenze, dai modi di organizzare i rapporti sociali, giuridici ed economici.

Per esempio, se è la natura ad assegnare alla donna il ruolo materno, sono però la società e la cultura ad attribuirle esclusivamente il compito di allevare e curare la prole. Questa divisione dei compiti è uno dei possibili modi di organizzare la vita sociale, utile in certe condizioni, ma inadeguato in altre: eppure questo modello si è perpetuato come se fosse una legge di natura immutabile.

La mente femminile È diversa da quella maschile?

Esistono differenze innate tra uomo e donna, a parte quelle di sesso? I risultati di alcune ricerche sembrano dimostrare che il cervello maschile e quello femminile funzionano in modo diverso: per esempio, pensiero astratto e aggressività sarebbero tratti tipici della psiche maschile, intuito e altruismo di quella femminile.

Qui però va osservato che per secoli le donne sono state escluse da tutti i campi in cui potevano svilupparsi caratteristiche 'maschili' come il pensiero astratto e l'aggressività. Quando hanno potuto avventurarsi nei territori del sapere e del fare riservati all'uomo, le donne hanno dimostrato di non essere diverse, né inferiori: Maria Curie e Rita Levi-Montalcini, Giovanna d'Arco ed Elisabetta I sono le eccezioni che potrebbero diventare la regola. Spesso si tende a considerare come un fatto di natura quello che in realtà è il risultato di un lunghissimo processo di evoluzione culturale, che avrà fine solo con l'estinzione della nostra specie.

Le origini dell'ineguaglianza: le società primitive

Nelle prime società umane la donna godeva di una grande considerazione per la sua facoltà di procreare, come dimostra la diffusione dei culti della Grande Madre e della Grande Dea, associate alla fecondità. Secondo alcuni antropologi vi sarebbe stata una fase dell'umanità in cui erano le donne a detenere il potere (matriarcato).

divisione del lavoro

L'ipotesi del matriarcato non è accettata da tutti, ma sembra probabile che nelle prime comunità umane non vi fosse una significativa differenza di status tra maschi e femmine: organizzate in bande nomadi di cacciatori-raccoglitori, queste comunità non conoscevano la distinzione in ceti e classi, né la famiglia basata sulla discendenza per linea materna o paterna. Esisteva però una divisione del lavoro: la raccolta dei prodotti della terra era compito delle donne, mentre agli uomini spettava la caccia. Questa divisione del lavoro conteneva già i germi della futura subordinazione femminile: infatti, anche se la raccolta non era meno importante della caccia, quest'ultima aveva un prestigio molto maggiore. La differenziazione dei ruoli si approfondisce con la comparsa di un sistema sociale basato sulla discendenza e dominato dal principio del diritto paterno, che sancisce il monopolio maschile della sfera pubblica ‒ politica, economia, diritto ‒ e relega la donna nella sfera domestica, assoggettandola completamente all'autorità del padre o del marito. Nelle società in cui il principio organizzativo non è la discendenza, bensì l'alleanza tra gruppi, le donne hanno un'importanza strategica, ma come meri 'oggetti': i rapporti di alleanza, infatti, vengono istituiti attraverso lo scambio delle donne.

La donna nelle antiche civiltà orientali

Nelle prime grandi civiltà urbane dei Sumeri e dei Babilonesi la donna ha un'indipendenza quasi assoluta rispetto alla famiglia d'origine e al marito. Può disporre dei propri beni, stipulare contratti e fare testamento. Presso gli Egizi e gli Assiri le donne non sono escluse dalla politica, e in certi casi possono anche assumere il governo. Si pensi alla leggendaria regina assira Semiramide, alla quale viene attribuita la fondazione di Babilonia e la costruzione dei famosi giardini pensili. Anche tra i Fenici alcune principesse ebbero un importante influsso politico.

Una rigida separazione tra la sfera pubblica della politica e del culto religioso, prerogativa esclusiva dei maschi, e la sfera domestica, in cui è relegata la donna, contrassegna invece la cultura ebraica e successivamente quella islamica. Alle donne è negato il diritto di successione, esse non possono comparire come testimoni nei processi, né scegliere liberamente il coniuge, né partecipare alla vita pubblica.

Eguaglianza e inferiorità: la donna nell'antico Testamento

Secondo la Genesi, Dio ha creato l'uomo e la donna a sua immagine e somiglianza, e quindi maschi e femmine hanno eguale valore e dignità. Questa tesi egualitaria è contrastata però da altre affermazioni, che ribadiscono il ruolo inferiore e subordinato all'uomo della donna. Dio ha creato per primo il maschio, mentre la femmina è stata creata da una costola dell'uomo, ed è quindi 'seconda' e 'secondaria'. La figura di Eva, seduttrice e peccatrice, contribuisce a radicare l'idea delle donne come sesso debole e deviante.

Nel Levitico l'inferiorità della donna è espressa anche in termini monetari: Dio avrebbe assegnato a Mosè un 'tariffario' in cui alla donna viene attribuito un valore in denaro inferiore rispetto a quello dell'uomo.

La donna segregata e la donna 'incapace': il mondo greco-romano

La condizione della donna nell'antica Grecia non fa onore a un popolo che ha espresso una cultura di altissimo livello. Soprattutto ad Atene, le donne non avevano diritto ad alcuna istruzione ed erano confinate tra le mura domestiche: la casa (òikos), più che il 'regno' femminile era un vero e proprio carcere a vita, dal quale le donne potevano uscire solo in occasioni speciali, quando si celebravano nozze o funerali. In alcune città tale divieto era addirittura imposto dalla legge. Nemmeno all'interno della casa le donne potevano circolare liberamente: relegate nel gineceo, le uniche occupazioni alle quali potevano dedicarsi erano preparare il cibo, tessere e filare. Fortunatamente non in tutta la Grecia le cose funzionavano in questo modo: nell'Asia Minore, e soprattutto a Lesbo, le donne della nobiltà potevano esercitare la poesia, la musica e la danza.

Se la poetessa Saffo fosse nata ad Atene anziché a Lesbo, probabilmente sarebbe stata ridotta al silenzio. Una categoria che anche ad Atene sfuggiva alle pesanti limitazioni imposte alle donne era quella delle etere, che in quanto cortigiane al servizio del piacere maschile non erano soggette al dovere della maternità per assicurare la discendenza. Le etere avevano in genere una cultura molto superiore a quella delle donne di buona famiglia, uscivano liberamente in pubblico, vestivano con eleganza e raffinatezza.

Nel mondo romano le donne erano più libere di quanto non lo fossero nell'antica Grecia: non erano velate, non erano relegate nel gineceo e potevano partecipare alla vita sociale. Non per questo però erano considerate eguali agli uomini: è proprio il diritto romano, che influenzerà i sistemi giuridici occidentali dei secoli successivi, a equiparare la donna ai minori e ai malati di mente (imbecillitas sexus "debolezza del sesso") e ad assoggettarla totalmente all'autorità del capofamiglia.

I progressi del Medioevo e i regressi del Rinascimento

Nelle società barbariche (di Celti, Galli, Germani, Scandinavi), che conservano molti elementi delle antiche strutture sociali paritarie, le donne partecipano alla vita della tribù: non sono escluse dalla funzione sacerdotale, hanno voce in capitolo nelle decisioni di pace e di guerra e hanno perfino accesso al sapere esoterico, riservato agli iniziati. Nella tarda antichità la carica rivoluzionaria del cristianesimo, che riconosce l'eguaglianza dell'uomo e della donna davanti a Dio, ha effetti molto limitati sull'organizzazione della società: la donna non acquista né indipendenza economica né diritti pubblici. Come l'Antico Testamento e il Corano, anche Paolo di Tarso afferma la superiorità dell'uomo, al quale la donna deve obbedienza. Nei secoli successivi si avrà una mescolanza delle usanze dei barbari con la tradizione cristiana e quella greco-latina. Grazie al sopravvivere di antichi diritti consuetudinari tipici delle tribù barbariche, alle donne è riconosciuto il diritto di possedere beni; se nobili, possono addirittura avere feudi, amministrare la giustizia, riscuotere le imposte. Il monachesimo offrirà alla donna un'importante opportunità di accedere all'istruzione e di svincolarsi dal ruolo subordinato che ha nella sfera familiare, in quanto moglie e madre. Vi furono badesse di raffinata cultura, e alcune diressero addirittura ordini religiosi maschili. Nell'alto Medioevo le donne potevano accedere anche al mondo dei mestieri, unirsi in corporazioni femminili o entrare in corporazioni miste. I fermenti culturali del Rinascimento non ebbero invece alcun riflesso sulla condizione delle donne, che anzi conobbe un netto peggioramento. Per esempio, vennero loro preclusi alcuni mestieri 'prestigiosi', come la tessitura della seta e la lavorazione dell'oro. Aristocratiche, suore e artigiane avevano più opportunità nel 13° secolo che nel 16°. Vi è uno stridente contrasto tra l'apertura di orizzonti dell'uomo rinascimentale, che scopre il mondo e cerca di padroneggiarlo con nuove tecniche, e la condizione della donna, che resta confinata nella sfera domestica sotto la tutela del padre e del marito.

La donna nel mondo islamico

Intorno al 16° secolo la situazione della donna peggiora anche in Oriente. Nel corso dei secoli il Corano verrà interpretato in modo sempre più severo verso le donne, segregate in casa e costrette a portare il velo. Queste usanze musulmane a partire dal tardo Medioevo si diffondono anche nel mondo slavo. In Russia solo Pietro il Grande, reduce dalla sua visita in Occidente, libererà le donne dal velo. Tale usanza sopravvivrà invece nel mondo musulmano orientale e mediterraneo sino ai nostri giorni, e conoscerà le sue forme più estreme e crudeli proprio all'inizio del terzo millennio.

In Afghanistan, fino al rovesciamento della dittatura dei taliban avvenuto nel 2001, le donne erano private dei diritti più elementari e letteralmente murate vive nel burqa, una veste che copre interamente il corpo e il viso, compresi gli occhi. A parte questo caso estremo, il velo (chador, in persiano) imposto alle donne musulmane è diventato un simbolo dello 'scontro di civiltà' e di valori che si profila oggi tra l'Occidente e il mondo islamico.

La Rivoluzione francese: le donne escluse dai diritti

L'epoca delle rivoluzioni, che inizia nel Nordamerica nel 1776 e si conclude con le rivoluzioni europee del 1848, muta profondamente l'ordine politico, ma ben poco la condizione delle donne. Le varie Dichiarazioni dei diritti dell'uomo, a partire da quella francese (1789), sono promettenti, ma ben presto diviene chiaro che per 'uomo' si intende solo il genere maschile. Nel 1791 Olympe de Gouges, una delle pioniere del femminismo, scrive una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina che ricalca quella del 1789. Nel 1790 il marchese di Condorcet, che considerava un atto di tirannia l'esclusione delle donne dai diritti naturali, rivendica per loro il diritto di cittadinanza. A vincere però saranno le idee di Jean-Jacques Rousseau, che elogiava l'ignoranza delle donne e la loro subordinazione all'uomo. Il Codice civile di Napoleone del 1804, che influenzerà la legislazione di molti paesi europei, considera le donne persone giuridicamente incapaci assieme ai bambini, ai criminali e ai malati di mente. Il principio che occorresse essere un maschio per poter esercitare i diritti politici e godere di tutti i diritti civili rimase valido in tutta Europa per oltre un secolo.

La rivoluzione industriale e l'ingresso delle donne nel mondo del lavoro

Alla fine del Seicento era maturata però un'altra rivoluzione, quella industriale, destinata ad avere conseguenze profonde per le donne, che sino allora avevano svolto lavori artigianali o a cottimo tra le mura domestiche. L'industrializzazione le spinge ora a cercare lavoro nelle manifatture, dove sono sistematicamente sfruttate e pagate molto peggio degli uomini.

La miseria delle operaie indurrà i riformatori sociali a proporre le prime leggi di tutela sul lavoro per le donne. Ma queste iniziative erano dettate anche dal desiderio di tenerle dentro casa a svolgere i ruoli tradizionali di moglie, madre e custode della casa. Quanto più il lavoro femminile extradomestico rischia di sconvolgere l'assetto consolidato della famiglia e dei ruoli sociali, tanto più viene glorificata l'immagine della donna come 'angelo del focolare'.

Il faticoso cammino dell'emancipazione

Alla fine del 19° secolo nei paesi occidentali le donne cominciavano a ottenere le prime lauree, ma non potevano esercitare le libere professioni, come medico e avvocato. Erano escluse dai diritti civili, a cominciare da quello dell'uguaglianza di fronte alla legge: per molto tempo (in Italia fino al 1968) fu considerato punibile l'adulterio della moglie ma non quello del marito. I diritti politici saranno conquistati solo a partire dal Novecento: in Svizzera si deve aspettare il 1971, nel Liechtenstein addirittura il 1984.

Oggi, perlomeno nel mondo occidentale, la presenza femminile nelle scuole e nelle università supera quella maschile; le donne hanno accesso a tutte le professioni e alle cariche politiche, e costituiscono una fetta consistente della popolazione attiva. I diritti delle donne sono stati riconosciuti a Vienna nel 1993 e a Pechino nel 1995 come diritti umani. Il Trattato di Amsterdam del 1997 sottolinea il principio delle pari opportunità.

Problemi irrisolti

Molto tuttavia resta ancora da fare. Pur con notevoli differenze da paese a paese, ovunque la presenza femminile diminuisce man mano che si sale nei livelli di responsabilità e prestigio. Le donne occupano i posti di lavoro meno qualificati e percepiscono salari inferiori a quelli maschili. L'ingresso delle donne nel mondo del lavoro non ha modificato molto la divisione dei ruoli all'interno della famiglia: il lavoro domestico, la cura dei figli e spesso dei parenti anziani gravano ancora quasi interamente sulle spalle della donna, anche quando lavora.

Questo sovraccarico di ruoli è una delle cause del vistoso calo delle nascite nel mondo occidentale: le donne oggi fanno meno figli non solo perché la maternità, non più un 'dovere' sociale, è diventata una scelta consapevole, ma anche perché spesso è molto difficile conciliare lavoro e famiglia. Non a caso il calo delle nascite si registra principalmente in quei paesi avanzati che non sanno offrire adeguate risposte politiche, sociali e culturali alla nuova presenza delle donne. I tentativi di riesumare il vecchio ideale dell'angelo del focolare dimostrano come il potere politico ed economico, ancora largamente nelle mani degli uomini, sia refrattario ad accettare le conseguenze della rivoluzione femminile.

Tra realtà e utopia: la gilania

Nel 20° secolo, alla fine degli anni Ottanta, l'archeologa Marija Gimbutas ha formulato l'ipotesi che in Europa, tra il 7000 e il 3500 a.C., sia esistita un'organizzazione sociale precedente al patriarcato in cui le donne avevano un ruolo dominante. Lo testimonierebbe il culto della Grande Dea, che non rappresentava solo la fecondità, ma tutti i processi del cosmo: nascita, morte, rinnovamento. Questo dominio delle donne, però, non consisteva in una sottomissione degli uomini. Tra uomini e donne vi era piuttosto una coesistenza armoniosa e paritaria. Per definire questo tipo di organizzazione sociale, diversa sia dal matriarcato sia dal patriarcato, la Gimbutas usa il termine "gilania", derivato dalle radici greche gy di gynè ("donna") e an di anèr ("uomo"). Tra il 4300 e il 2800, però, una diversa cultura neolitica apparsa nel bacino del Volga, che conosceva l'uso di armi letali, avrebbe messo fine alla pacifica cultura gilanica.

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