DOURIS

Enciclopedia dell' Arte Antica (1960)

DOURIS (Δοῦρις)

E. Paribeni

Ceramografo attico la cui attività è possibile seguire dalla fine del VI sino per almeno i primi tre decennî del V sec. a. C.

Il grandissimo numero di vasi firmati, unitamente alle peculiarità di uno stile facilmente riconoscibile e di estrema piacevolezza, hanno fatto sì che D. fosse tra le figure più note e prima scoperte tra le centinaia di pittori di vasi attici in seguito identificati. La sua personalità veniva quindi ad essere già sufficientemente definita per opera di P. Hartwig e di A. Furtwängler alla fine del secolo scorso, mentre le rettifiche essenziali apportate in seguito, specie ad opera di J. D. Beazley, si limitarono alla separazione del Pittore di Triptolemos, che a momenti dipinge in maniera analoga al maestro e firma anche lui Douris, e al riconoscimento che il "Meister mit dem Ranke" di P. Hartwig non era che l'ultimo D. alle soglie della classicità.

Allo stato presente J. D. Beazley gli assegna più di 200 opere, in prevalenza coppe con il complemento di alcuni piccoli vasi quali sköphoi e lèkythoi. Un piccolo vaso a figure nere, la pyxis Louvre MNB 2042 attesterebbe la sua attività anche in questo campo. La firma ΛΟΡΙS ΕΓΡΑΦSΕΝ ritorna più di trenta volte, mentre la formula ΛΟΡΙS ΕΓΟΙΕSΕΝ appare solo in due vasi che possono esser considerati come casi limite, trattandosi di opere insolite e di forma particolarmente elaborata, quali il kàntharos con amazzoni di Bruxelles e l'aröballos con eroti di Atene n. 15.375. Maestri ceramisti per cui egli lavora furono Kleophrades e Kalliades e principalmente Python, con il quale J. D. Beazley suppone una collaborazione costante del genere di quella che risulta tra Hieron e Makron. Un'altra delle ragioni esteriori che aiuta a collegare le sue opere è la costante ripetizione di acclamazioni a Chairestratos, Athenodotos, Hippodamas, che entro certi limiti possono contribuire a distinguere i periodi di attività dell'artista.

Nei giudizî dei critici più recenti, e anche di quelli non così recenti, la fama di D. è venuta a risentire di quella sua immediata piacevolezza di linguaggio che gli ha valso un tempo tanta ammirazione. D. non ha riserve o quasi: la sua limpidezza è così cristallina che a volte sembra di poterla confondere con la superficialità. Alcune delle sue realizzazioni più felici ci appaiono talmente limpide e ovvie che appena le notiamo, mentre i difetti sono apparenti e vistosi nella sua vasta e ricchissima opera. Si tratta del resto dei difetti inerenti alle sue qualità. La ricchezza del suo temperamento vario e prolifico lo rende a volte sovrabbondante e poco controllato. E nonostante l'incredibile ricchezza di motivi e di schemi figurativi che egli inventa o riprende nella sua lunga carriera, le ripetizioni sono inevitabili e alle volte ovvie e faticose; mentre la vena troppo facile e ricca porta con sé, specialmente nelle opere più tarde e deboli, un certo allentamento dei controlli e un innegabile abbandono. Il rigore di esigenze estetiche superiori, il bisogno di una selezione e di un superamento continuo, non sono problemi che preoccupino intensamente Douris.

Gli studiosi moderni, e specialmente coloro che tendono a riportare quasi indiscriminatamente sul piano della grande arte il fenomeno della pittura di vasi in Attica, possono rilevare che in generale le forme di D. non posseggono la suprema, filtrata essenzialità di quelle del Pittore di Berlino, o che il suo segno è meno ricco di suggestioni poetiche di quello di Onesimos o del Pittore di Panaitios. In realtà la stessa eccezionale notorietà che D. deve aver goduto in vita non può che confortare la nostra certezza che egli deve aver rappresentato una delle figure centrali, seppure non la suprema, nella produzione di vasi dipinti in Attica. Le sue firme elaborate e complete sono da intendere come una garanzia della vantata eccellenza della sua opera: e di questo offrono conferma il fatto che un considerevole artista come il Pittore di Triptolemos lo imita firmando Douris e che il Pittore del Cartellino ne iscrive il nome nelle sue figurazioni come se si trattasse di un emblema o di un motto. Se con alcuni dei ceramografi tra i più alti ci avviene di sentire il limite della pittura su vasi o ci illudiamo di superarlo entrando in un altro piano artistico o addirittura comunicando con la grande pittura, nel modesto D. tale limite è pienamente accettato e l'artista è felice di esprimere il meglio che è in lui nelle condizioni e nei termini imposti. Di conseguenza, le sue qualità sono le qualità medie della ceramica attica e alle volte ci avviene di non notarne più i pregi, appunto perché accettiamo D. come accettiamo il fenomeno stesso, mirabile nella sua modestia, di un vaso dipinto di stile severo.

D. tocca con uguale felicità praticamente tutti i temi più popolari del mondo figurato della ceramica greca. Il mondo divino ed eroico trova espressioni altissime nelle ben bilanciate battaglie omeriche e nella drammatica sospensione della contesa per le armi di Achille (Louvre G 115, Vienna 325) mentre con delicatissima pietà è figurata Ifigenia condotta al sacrificio (lèkythos di Palermo). Il senso del miracolo allo stesso tempo favoloso e familiare è felicemente evocato nella notissima coppa del Vaticano con Giasone rigettato dall'enorme, pittoresco serpente: mentre lo stato di estrema incompletezza non impedisce di valutare il tono di concentrazione drammatica dei grandi tondi del genere di quello di Europa sul toro (Londra D 1) o di Aiace che sopporta inginocchiato il corpo di Achille (Parigi, Cabinet des Médailles 537-598). D. ama ugualmente le armi cesellate dei guerrieri in panoplia e gli scorrevoli nudi degli atleti, come le fragili, compiaciute eleganze dei giovinetti ammantati e ammiccanti. Un particolare interesse sembra rivolgere alle figurazioni di scuola in cui il divario di statura e di volumi tra maestri e scolari offre la possibilità di ritmi variati e ben scanditi. Ugualmente il tema del sympàsion gli offre possibilità ricchissime e svariate: si veda l'immagine della donna addormentata nella coppa perduta (Journ. Hell. Stud., lxvi, 1946, 123), o la freschissima fanciulla nuda e coronata di fiori del frammento Vaticano, o ancora la figura del banchettante di dorso, rapidamente riassunta in scorcio nella coppa E 50 del British Museum.

Da un punto di vista esclusivamente formale, il seguo duro e preciso che incide e scandisce con sicura eleganza le salde e allungate figure atletiche e i tenui panneggì appuntiti della prima fase, viene ad attenuarsi in cadenze sempre più molli e cedevoli. Le anatomie contornate e stringate si allentano e si semplificano, mentre i panneggi divengono a volte monotoni e banali. Si tratta peraltro di un tramonto dolce e lento in cui le qualità essenziali dell'artista sembrano sempre preservate anche nella innegabile decadenza. Un confronto con la coppa di Berlino 2286 del Pittore di Triptolemos, in cui questo notevole artista firma Douris e tenta di accostarsi il più possibile al maestro, rivela meglio di ogni analisi come il segno sicuro e le forme levigate e brillanti non valgano a comunicare neppure un eco di quella inconfondibile poesia e tenerezza che permane anche nelle più povere e disintegrate tra le tarde opere di Douris,

Bibl.: P. Hartwig, Meisterschalen, pp. 200, 582, 657; A. Furtwängler-Reichbold, I, pp. 246, 263; II, p. 85; E. Buschor, in Jahrbuch, XXXI, 1916, p. 74 ss.; J. D. Beazley, Red-fig., in Am. Mus., p. 97; E. Pottier, Douris, Parigi 1904; J. D. Beazley, Vasenm. rotfig., p. 199; S. Papaspiridi Karouzou, in Deltion, 1927, p. 91; J. D. Beazley, Red-fig., p. 279; M. Robertson, in Journ. Hell. Stud., LXVI, 196, p. 123; J. D. Beazley, Potter and Painter, Londra 1946, pp. 35, 36, 41; id., Black-fig., 1956, p. 400.

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