PAVESI, Eberardo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)

PAVESI, Eberardo

Mimmo Franzinelli

PAVESI, Eberardo. – Nacque a Colturano (Milano) il 2 novembre 1883. Non si hanno notizie sui genitori. La sua carriera si compone di due distinte fasi: l’attività agonistica professionistica (1904-19) e l’impegno come direttore sportivo (dal 1921 alla metà degli anni Sessanta). In entrambi i campi rappresentò un pioniere, esprimendo uno stile personale e una generosità che lo resero popolare.

Garzone nel panificio di famiglia, acquistò la prima bicicletta nel 1897: una Raleigh rossa, di 16 kg, pagata 60 lire, con la quale si esercitò le domeniche, di nascosto dai genitori, in gare amatoriali. Nel 1901 esordì nella categoria dilettanti e dopo due anni di rodaggio vinse una decina di corse; nel 1904 passò alla categoria professionisti con la società Pirovano (produttrice degli omonimi cicli), primeggiando al Giro del lago di Como e alla Pavia-Bologna. Nella successiva stagione vinse la durissima corsa in linea Roma-Napoli-Roma, di ben 460 km, in una sola tappa. Sulla scia di questa impresa l’anno seguente inanellò tre vittorie e una serie notevole di piazzamenti, perché, non essendo particolarmente veloce, veniva spesso battuto in volata.

Nel 1907, con una bicicletta OTAV (Officine Turkheimer per Automobili e Velocipedi) fu il primo italiano a completare il Tour de France, che si distingueva per l’ostracismo verso i corridori stranieri, per l’assenza di assistenza tecnico-logistica a favore di chi non disponeva di una squadra e per la gravosità del percorso; giunse a Parigi al sesto posto nella classifica generale e al vertice della graduatoria dei corridori ‘isolati’. L’impresa gli valse, al rientro a Milano, l’omaggio del sindaco e di centinaia di tifosi accorsi ad attenderlo e festeggiarlo, accompagnati dalla banda municipale.

Nel 1908 fu ingaggiato con i fuoriclasse Carlo Galetti e Luigi Ganna dall’imprenditore Angelo Gatti, titolare della fabbrica di cicli Atala, per lo stipendio di 50 lire mensili. Al Tour de France si ritirò alla terza tappa, richiamato dal padre per urgenti esigenze di gestione del negozio (imposte dalla malattia dei familiari). Secondo un’altra versione dei fatti, più fantasiosa, durante un rifornimento in gara gli sarebbe stato offerto uno zabaione con del purgante, che avrebbe pregiudicato la condotta di gara e provocato il relativo forfait.

Nel 1909 si distinse a livello nazionale aggiudicandosi la prima edizione del Giro dell’Emilia, anche se lo stesso anno non poté concludere la prima edizione del Giro d’Italia, dovendosi ritirare alla seconda tappa per una ferita alla gamba riportata in gara. L’anno successivo, tuttavia, nella stessa competizione ottenne due vittorie di tappa (Napoli-Roma e Mondovì-Torino) e il secondo posto sul podio, preceduto dal compagno di squadra Galetti. L’Atala si aggiudicò ben sette tappe su dieci e conquistò i primi tre piazzamenti di classifica. Pavesi, Ganna e Galetti costituirono il più agguerrito team italiano, tanto che vennero nominati dai tifosi ‘i tre moschettieri’; Pavesi impersonò Athos, mentre il ruolo di D’Artagnan spettò al più robusto e combattivo Ganna.

Personaggio estroverso e al tempo stesso riflessivo, con una notevole capacità di interpretazione della corsa, divenne per i compagni di squadra un essenziale elemento di riferimento, cui chiedere indicazioni sul momento in cui sferrare l’attacco o sulla tattica da adottare. Dotato di una istintiva abilità affabulatoria, fu soprannominato avocatt per la capacità di persuasione, ma anche perché non si faceva remore a ricorrere alla magistratura quando le società ciclistiche violavano i suoi diritti. Seppe conquistarsi già in questa fase la stima e l’amicizia della gran parte dei corridori, che ne apprezzarono la lealtà e la franchezza nei rapporti interpersonali.

Nel 1912 partecipò alla vittoria della Atala-Dunlop nell’unica edizione del Giro d’Italia disputato a squadre: ogni formazione disponeva di quattro atleti e si calcolarono le prestazioni dei primi tre. Insieme a lui corsero Galetti, Giovanni Micheletto e Ganna (ritiratosi alla quarta tappa per un gonfiore al ginocchio). Il rapporto con l’Atala-Dunlop si chiuse malamente all’indomani della vittoria, poiché la società pretese di pagare il premio al solo Galetti: Pavesi intraprese con successo una causa giudiziaria per ottenere il riconoscimento delle sue ragioni.

Al Giro del 1913 – come portacolori della Legnano – si aggiudicò le tappe Genova-Siena e Rovigo-Milano, guadagnando il secondo posto in classifica dietro a Carlo Oriani, dal quale lo separarono sei punti.

La carriera di Pavesi, come quella di tanti suoi colleghi, risentì in modo decisivo dell’interruzione provocata dalla Grande Guerra, durante la quale vennero sospesi il Giro d’Italia e molte gare in linea. Richiamato alle armi, venne assegnato – in quanto ‘anziano’ – al servizio territoriale, in una caserma di Genova.

Nel 1919, alla ripresa delle corse, Pavesi scoprì di essere oramai un veterano, surclassato dalle nuove leve Costante Girardengo e Gaetano Belloni. Riuscì tuttavia a stabilire il record nazionale dell’ora, con 40,876 km.

Al momento del ritiro, affidò alle edizioni de La Gazzetta dello Sport un’arguta testimonianza del ciclismo dell’epoca, dimostrandosi un attento osservatore e uno sportivo abile nel coniugare l’aspetto agonistico con l’ironia (I misteri del Giro d’Italia, Milano 1920). Nel 1920 Pavesi venne ingaggiato dalla Bianchi in qualità di direttore sportivo. Trovatosi a suo agio nel nuovo ruolo, l’anno successivo passò alla Legnano (azienda lombarda produttrice di cicli, fondata all’inizio del secolo da Emilio Bozzi), divenendone ben presto l’emblema. Per i ‘ramarri’, denominazione derivata dalla maglia della squadra, di colore verde, svolse un prezioso lavoro di talent scout, testimoniato dal fatto che fu lui a individuare fuoriclasse come Giovanni Brunero, Alfredo Binda, Gino Bartali e Fausto Coppi. Rielaborò queste esperienze nel manuale Il ciclismo: guida per gli allenamenti e le corse (Milano 1931, in collaborazione con V. Cottarelli). Nel dopoguerra promosse – tra gli altri – Nino Defilippis, Ercole Baldini, Gastone Nencini, Arnaldo Pambianco, Graziano Battistini e Imerio Massignan.

Nel Giro d’Italia del 1940 la Legnano, partita con Bartali in veste di favorito, cambiò strategia a metà gara, quando il campione toscano cadde malamente e Pavesi seppe riconoscere all’istante la convenienza di puntare sul giovane outsider Fausto Coppi, che in effetti dominò la corsa e che poté avvalersi, oltre che dei paterni consigli del suo direttore sportivo, anche del contributo fornitogli dal gregario eccellente Bartali.

Nel secondo dopoguerra Vincenzo Torriani – che sostituì Armando Cougnet nell’organizzazione del Giro d’Italia – lo volle informalmente quale consigliere per l’individuazione dei percorsi di gara e per mediare i rapporti tra corridori e organizzazione su diversi aspetti critici. Il direttore sportivo della Legnano divenne molto popolare, sia in virtù del suo aspetto caratteristico (pipa stretta tra i denti, pantaloni alla ‘zuava’, cappello a lobbia per coprire la calvizie), sia per le doti comunicative, la sagacia e l’arguzia: il suo passaggio sull’ammiraglia dei ‘ramarri’ era puntualmente salutato dagli applausi dei tifosi.

A riconoscimento del suo ruolo di precursore e di testimone dell’agonismo su due ruote, nel 1951-52 Gianni Brera gli dedicò su La Gazzetta dello Sport una biografia romanzata a puntate, raccolta poi nel fortunato volume L’avocatt in bicicletta (Roma 1952). La prosa dell’intellettuale padano restituisce il profondo spessore umano del protagonista e delinea l’affascinante affresco di un mondo scomparso, del quale Pavesi fu creativo protagonista. Nell’interpretazione di Brera, l’avocatt impersonò i tempi d’oro del ciclismo, prima cioè che il volume di affari e gli sponsor arrivassero a condizionare il mondo sportivo. Nella premessa alla riedizione del libro (nel 1964, con il nuovo titolo Addio, bicicletta), l’autore così presentava il suo testo: «Il racconto autobiografico di Eberardo Pavesi mi sembrò un contributo non banale alla storia del costume nazionale e per questo mi ci appassionai fino a scriverlo. Preciso che non ho inventato assolutamente nulla, ho soltanto sollecitato l’approfondimento di alcune circostanze più congeniali di altre alla mia ed alla sua natura di bassaioli. Pavesi ha risposto pazientemente ad ogni mia domanda ed è quasi sempre riuscito a ripetere le pedalate giovanili guardando ai margini, dove si stava svegliando il nostro popolo. Quando il ciclismo agonistico gli ha preso la mano (oltre ai piedi), il suo racconto ha finito di incantarmi. Allora l’ho fatto scendere di sella e io stesso ho appeso la sua bicicletta al chiodo» (p. 7).

Ormai ultraottantenne, dal 1966 Pavesi non seguì più direttamente il Giro sull’ammiraglia della Legnano, pur rimanendo una figura molto amata negli ambienti del ciclismo italiano.

Morì a Milano l’11 novembre 1974.

Sulla scia delle rievocazioni di Gianni Brera, la seconda parte dell’esistenza di Pavesi è stata successivamente rivisitata da Federico Boggiano nella monografia L’Avocatt e i suoi Ramarri: l’epopea del ciclismo vista da Eberardo Pavesi (Arenzano 2003, con prefazione di Imerio Massignan), reverente e gustoso omaggio al grande organizzatore sportivo «in giro per l’Italia sulla sua ammiraglia», in cinquant’anni di imprese storiche, di personaggi noti e minori alternatisi alla ribalta negli anni d’oro del ciclismo.

Fonti e Bibl.: Documenti e testimonianze su Pavesi si ritrovano a Novate Milanese, nell’Archivio Vincenzo Torriani.

Per ricostruirne la vicenda umana e professionale di Pavesi, oltre ai testi già indicati, si veda C. Delfino, Diario di un routier: i racconti di un pioniere del ciclismo attraverso i primi anni del Novecento, Varazze 1998. Per un inquadramento di Pavesi nella storia del ciclismo cfr. M. Franzinelli, Il Giro d’Italia. Dai pionieri agli anni d’oro, Milano 2013.

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