ECCLESIASTE

Enciclopedia Italiana (1932)

ECCLESIASTE (ted. Prediger; ingl. talora Preacher)

Alberto Vaccari

Uno dei brevi libri della Bibbia ebraica detti "rotoli" (ebr. megillüt; v. bibbia, VI, pp. 882, 908).

Il nome. - Il titolo Ecclesiaste, adottato in quasi tutte le lingue, viene dalla versione greca detta dei Settanta, che con 'Εκκλησιατής tradusse il nome ebraico Qohelet, che si legge più volte nel testo medesimo quale nome dell'autore (I,1, 2; VII, 27; VIII, 10; XII, 12). Non ne è ben chiara l'origine e il senso. Ha l'ovvia forma di un participio singolare derivato dalla radice qahal "assemblea, adunanza", perciò nell'opinione più comune significa "chi tiene assemblea", ossia parla in pubblico. Di qui l'accennata traduzione greca e tedesca del titolo; di qui anche l'opinione, un tempo assai diffusa, che il libro contenesse un discorso pronunciato in pubblico; ma in realtà non ha nulla né di oratorio né di popolare.

Il libro. - L'Ecclesiaste presenta allo studio parecchi problemi. Sfugge anzitutto a un'esatta definizione di genere letterario, e a una logica divisione dell'argomento. Lo si può dire una serie di riflessioni sulle miserie della vita umana, che si succedono senza ordine o connessione apparente, e s'avvicendano con pratici consigli in prosa e con detti sentenziosi in verso. Sono "pensieri" tirati giù come sgorgano dal cuore, senza grandi pretese letterarie.

La vita umana appare a Qohelet come un vano sforzo disperato per afferrare la felicità, che mai non si raggiunge, "Vanità di vanità (esclama cominciando) vanità di vanità e tutto è vanità. Che cosa avanza all'uomo di tutto il suo affaticarsi quaggiù?" (I, 2-3); e non si stanca di ripetere: "Mirai tutte le cose che sono sotto il sole, ed ecco tutto vanità e affanno di spirito" (I, 14). La ricerca del piacere non riesce a contentare il cuore (II,1-11); neanche la sapienza, per quanto nobilissimo ornamento dell'uomo, non lo fa appieno felice, perché per poco ne gode i frutti chi la possiede, e poi li lascia a un erede d'incerto avvenire. "Quindi volsi il cuor mio a disperare d'ogni mia fatica che sostengo sotto il sole" (II, 20). Qohelet si accora per le ingiustizie sociali: "Altra cosa ho notato sotto il sole: al posto del diritto l'ingiustizia e al posto della giustizia l'iniquità" (III, 16). "Mi rivolsi a considerare tutte le oppressioni, che si commettono sotto il sole, ed ecco piangere gli oppressi, e nessuno che li consoli" (IV, I). L'onestà, la virtù, non esime da tali tribolazioni: "Tutto ho veduto nei miei giorni fugaci; tal giusto muore con tutta la sua giustizia e tal empio con tutte le sue iniquità campa a lungo" (VII, 15). L'incertezza dell'avvenire è un incubo che amareggia il godimento dei beni presenti (VIII, 16) e per colmo di strazio la morte, uguale per tutti, pone fine a ogni speranza, "perché i morti non sanno niente né più attendono ricompensa, essendo dimenticata la loro memoria... perché non c'è attività né ragione né sapienza nello sceôl" (IX, 5-10; sheül è la dimora dei trapassati, come l'Ade dei Greci). Tale è il duro destino degli uomini quaggiù "sotto il sole", è un mistero di cui Dio si è riserbato il segreto, "affine di essere temuto" (III, 10-14; VIII, 17). A sì grama esistenza Qohelet trova un conforto nel godimento di quei piaceri della vita che egli ritiene appunto come dati da Dio a lenimento di tanti dolori: Va', mangia allegramente il tuo pane e bevi di buon umore il tuo vino, perché Dio gradisce il tuo operare. D'ogni tempo siano candide le tue vesti, né venga meno l'unguento sul tuo capo. Godi la vita con la tua diletta compagna per tutti i giorni della fugace esistenza che Dio ti ha data sotto il sole, perché è la tua parte in questa vita fra i travagli che soffri sotto il sole" (IX, 7-9). E ancora: "Sta' allegro nella tua adolescenza, o giovane... Scaccia la malinconia dal tuo cuore e tieni lontano il dolore dalla tua persona, perché fanciullezza e gioventù sono un soffio" (XI, 10). Tutto però non senza il pensiero di Dio, che tutto regola: "Ricordati del tuo Fattore nel tempo di tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni, di cui abbia a dire: Non mi piacciono" (XII, 1). Ché anzi il libro si chiude con questa sentenza: "Temi Iddio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l'uomo; ogni azione Iddio citerà a giudizio, anche la più occulta, sia buona, sia rea" (XIl, 13).

La composizione. - Tali le idee maestre dell'Ecclesiaste. Ma i pensieri ultimamente citati non sarebbero in opposizione con gli inviti a godersi la vita, che leggiamo altrove? È vecchia questione, come conciliare insieme le diverse vedute che a vicenda s'incontrano espresse nell'Ecclesiaste: ora lodata l'allegria (II, 24; III, 12, ecc.), ora il lutto (II, 2; VII, 2-5); la sapienza ora detta inutile (I, 17, 18; II, 15-19), ora levata a cielo (II, 13; VII, 19; IX, 16) e così di seguito. Gli antichi (già Gregorio il Taumaturgo al sec. III) se ne spedivano supponendo che nei passi del primo genere l'autore cita il pensare dei libertini per confutarlo poi con le sue contrarie riflessioni. Ma di tale alternarsi di botta e risposta non c'è traccia nel testo. I moderni prendono una via più radicale: varî autori avrebbero successivamente avuto mano nella composizione del libro; i secondi avrebbero, aggiungendo frasi e sentenze d'altro tono, introdotto un correttivo alle troppo libere dottrine del primo autore (Qohelet) o almeno cercato di smussarne le angolosità troppo acute. C. Siegfried (commento Nowack) va in questo sino a distinguere cinque autori diversi, più due redattori. E. Podechard, più moderato, ammette, oltre il principale, tre altri autori: un discepolo di Qohelet avrebbe aggiunto il breve epilogo biografico (XII, 8-12 e VII, 27-28), ove si parla di Qohelet in terza persona; un sapiente (ḥākām) avrebbe qua e là inserito le lodi della sapienza; un pio (ḥasīd) le sentenze, che affermano la giustizia di Dio nel governo di questo mondo. Ma non è necessario, a spiegare le dissonanze, ricorrere ad alcuna sorta di simile dissezione; basta osservare che il medesimo oggetto si può riguardare da diversi punti di vista e che una natura così impressionabile, come quella di Qohelet, col succedersi dei pensieri passa di uno in altro affetto, pur rimanendo in fondo una e inscindibile. D'altro canto la lingua e lo stile, così caratteristici come diremo, rimangono pur gli stessi in ogni parte del libro. Perciò la gran maggioranza dei critici, anche i più avanzati, mantenne l'unità d'autore, tutto al più considerando un'appendice aggiunta da altri la finale (XII, 9-14).

La dottrina. - Alla dottrina di Qohelet gravi accuse furono mosse; fu tacciata di scettica, di epicurea, di pessimistica.

Certo Qohelet deplora l'ignoranza umana, fonte di molti affanni; dichiara inaccessibili all'uomo i disegni di Dio, incapace la ragione di sciogliere i più gravi problemi della vita, impotente la scienza a dare la felicità: "dove è molta scienza (esclama egli) è molto cruccio, e crescendo il sapere cresce il dolore" (I, 18). Ma egli tiene pur fermo all'avita fede in un Dio padrone e reggitore di tutto il mondo, e alla vecchia concezione dell'anima umana (XII, 7) e della sopravvivenza nello sceôl (IX, 5, 10). Il dubbio espresso nel dibattuto v. III, 21: "Chi sa se lo spirito degli uomini sale in alto e quello del bruto discende sotterra?" riguarda le novelle controversie filosofiche intorno alla natura dell'anima umana. Siamo dunque ben lungi da un vero scetticismo. Qohelet tanto è lontano dal riporre nel piacere il fine della vita (come fa l'epicureo), che anzi professa che non vale la pena di andarlo a cercare. Il godimento, al quale egli invita, oltre all'esser ovvio, comune, ha due essenziali restrizioni: una nell'oggetto, che non sia disgiunto dall'onestà e dalla temperanza; l'altra nel fine che vi si cerchi non altro che un lenimento ai dolori di una vita altrimenti insopportabile.

Senza dubbio nella vita umana Qohelet vede soprattutto le ombre, e il suo libro è pervaso di malinconia. Ma è una malinconia soave, mossa principalmente da una profonda compassione per le umane sofferenze, che rende quelle pagine potentemente simpatiche. Ci vibra non un'anima accasciata, come nel genuino pessimismo, ma una tranquilla e maschia rassegnazione non senza una vigoria di spirito. È noto dagli annali dell'ascesi cristiana, che quelle pagine ispirarono molti generosi propositi di abnegazione.

Tutto sommato, la morale dell'Ecclesiaste non è perfetta, non è elevata, ma neanche è malsana. Il suo livello religioso-morale non è al disotto della media dell'Antico Testamento. Perciò mostra con evidenza come l'antica fede israelitica non bastava più a sciogliere i più gravi problemi, e a soddisfare i più profondi bisogni dello spirito. S'avvicinavano i tempi della "buona novella".

Età ed autore. - L'Ecclesiaste tiene un posto a parte nella Bibbia, anche per la sua lingua. Non è più l'ebreo classico dei profeti, neanche affievolito come negli scritti posteriori all'esilio, per esempio Ester e Cronache; è l'ebraico omai già entrato in quell'ultima sua fase, che forma la lingua della Mishnāh e della scuola. Parole e costrutti nuovi, vocaboli e sensi presi a prestito dall'aramaico, stile floscio e diffuso, ne sono le principali caratteristiche. A tali indizî l'Ecclesiaste già si manifesta quale prodotto di bassa epoca. Lo stato della società che deplora, certa analogia con la filosofia greca e qualche probabile grecismo (es. far bene nel senso di εῦ πράττειν "star bene") consiglia a porlo verso la fine della dominazione seleucidica in Palestina, prima della eroica riscossa dei Maccabei, cioè intorno al 200 a. C.

Contro tale data, ora ammessa comunemente dai dotti di ogni fede, fu già antica opinione che ne fosse autore Salomone, il savio re d'Israele nel sec. X a. C. Essa nacque (pare) da una troppo rigida interpretazione del titolo (non si sa se originario): "Parole di Qohelet, figlio di Davide, re in Gerusalemme" e dei grandiosi lavori (palazzi, giardini, vasche), piaceri e ricchezze che si attribuisce l'autore (II, 4-9), conchiudendo: "Divenni grande e superai quanti furono prima di me in Gerusalemme". Se queste parole implicano esperienze realmente vissute, e se non si possono applicare ad altri che a Salomone, si spiegherebbero con l'uso letterario, non raro nell'antichità, di porre in bocca a celebri personaggi i proprî pensieri, per dar loro più rilievo; ne abbiamo un esempio certo nella Bibbia stessa (Sap., VII-IX, ove s'introduce a parlare appunto Salomone). Ma né l'una né l'altra condizione è necessaria; e quindi nulla ci obbliga a ritenere che Qohelet abbia voluto mascherarsi da Salomone. Comunque sia, l'identificazione di Qohelet con Salomone deve avere influito a far sì che, quando (sec. II d. C.) nelle scuole giudaiche sorsero dubbi se l'Ecclesiaste dovesse ritenersi, per canonico, fu mantenuto nel loro canone, mentre l'Ecclesiastico, più o meno contemporaneo e di merito assai superiore, ne fu escluso. Nelle chiese cristiane invece non ci fu mai dubbio intorno alla canonicità dell'Ecclesiaste. Ma attribuire a Salomone i sentimenti di Qohelet (per es. la spietata critica di governi e di ministri, IV,1-3; V, 7; III, 16) è ormai impossibile, come ricacciare al sec. X a. C. quel suo ebraico già frusto e quasi decrepito. L'Ecclesiaste rimesso al suo posto, fra il III e il II sec. a. C., è una pagina eloquente nella storia della religione.

Bibl.: Una copiosissima bibliografia sull'Ecclesiate (271 nn., lontana però dall'essere completa) sino al 1889 pubblicò A. Palm, Die Qohelet-Litteratur, Manheim 1886. Tra i molti commentatori vanno segnalati nell'antichità S. Girolamo (Migne, Patrol. lat., 23) e Gregorio d'Agrigento (id., Patrol. graeca, 98); nel Medioevo S. Bonaventura (Opera omnia, Quaracchi 1883 segg., VI); nei tempi moderni J. de Pineda (Siviglia 1619); C. D. Ginsurg (Londra 1861); C. B. Wright (ivi 1883); G. Gietmann (Parigi 1890, in latino); G. A. Barton (Edimburgo 1908); E. Podechard (Parigi 1912); L. Levy (Lipsia 1912); Allgeier (Bonn 1925); H. Odeberg (Upsala 1929), oltre ai commentarî a tutta la Bibbia. In italiano abbiamo le seguenti versioni dall'ebraico con note più o meno estese (oltre le traduzioni di tutta la Bibbia); David de Pomis (Venezia 1571), M. Carmeli (ivi 1765); G. B. De Rossi (Parma 1809); D. Castelli (Pisa 1866); G. Vegni (Firenze 1871); V. Tedeschi (Milano 1879); C. A. Levi (Venezia 1884); G. Morpurgo (Padova 1898); S. Minocchi (Bari 1924).

Trattati speciali: A. Motais, Salomon et l'Ecclésiaste, voll. 2, Parigi 1876; D. Johnston, A treatise on the authorship of Ecclesiastes, Londra 1880 (per l'attribuzione a Salomone); J. B. Kessel, Disquisitiones eschatologicae de libro Kohelet, Bressanone 1869; W. Barthauer, Optimismus und Pessimismus im Buche Koheleth, Halle 1900; L. Hugo, Die Unsterblichkeitslehre im B. Kohelet, in Zeitschrift für kath. Teologie, 1913, p. 400; D. Leimdörfer, Der Prediger Salomonis in historischer Beleuchtung, Amburgo 1882; P. Kleinert, Zur religions-und kulturgesch. Stellung des B. Kohelet, in Theol. Studien un Kritiken, 1909, p. 494; A. Condamin, Études sur l'Ecclésiaste, in Revue biblique, 1899, p. 493; 1900, pp. 30, 304; A. B. McNeile, An introd. to Ecclesiastes, Cambridge 1904; E. Podechard, La pensée de l'Ecclésiaste, in L'Université cath., LXXIII, p. 289; id., Les prétendues erreurs de l'Ecclésiaste, ibid., LXXIV, p. 16; G. Kuhn, Erklärung des Buches Kohelet, Giessen, 1926; Joh. Pedersen, Scepticimse israélite, in Revue d'hist. et de philos. relig., X (1930); p. 317; H. Junker, Kohelet ein alttestamentlicher Wahrheitsucher, in Teologie und Seelsorge, XII (1930), p. 297.

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