Eco: dal Medioevo al mondo digitale

Il Libro dell Anno 2016

Giovanna Cosenza

Eco: dal Medioevo al mondo digitale

L’autore di Apocalittici e integrati è sempre stato un tecnoentusiasta, e fin dal 2001, grazie a lui, sono stati introdotti corsi universitari sui nuovi media. Accusato di non capire i social network («legioni di imbecilli»), in realtà per lui Internet era un contenitore né buono né cattivo, dove c’è posto per tutti.

Umberto Eco

Devo a Umberto Eco l’idea di istituire un intero campo di ricerca, denominato semiotica dei nuovi media, nell’ambito della disciplina semiotica da lui fondata in Italia.

Risalgono alla fine del 2001 i primi insegnamenti universitari che portano questo nome, e fra il 2003 e il 2004 uscirono le prime pubblicazioni, mie e di altri, sull’argomento. Prima di quegli anni, l’espressione semiotica dei nuovi media non era mai stata usata né in Italia né all’estero, ma l’attenzione di Eco per le tecnologie digitali era sempre stata altissima, fin dai tempi della diffusione di massa dell’informatica, nella prima metà degli anni Ottanta, quando i pc cominciarono a entrare nelle nostre case diventando uno strumento imprescindibile per qualunque lavoro intellettuale.

Perciò la nascita di questo settore della semiotica, dedicato ai media digitali e alle reti, con tanto di cattedre e insegnamenti, esami, tesi di laurea e dottorati, va vista come il lascito accademico di un’attenzione che Eco ha manifestato per tutta la vita. Insomma, diciamolo senza mezzi termini: Eco è sempre stato, per usare un termine che lui rigetterebbe, un tecnoentusiasta.

D’altra parte, come poteva non esserlo? L’interesse per le tecnologie faceva parte della sua grande curiosità per il mondo, di quella sua meravigliosa e continua – fino all’ultimo – capacità di vedere il nuovo prima degli altri, prima di tutti, al punto che riusciva a cogliere tendenze e fenomeni sociali in anticipo di anni, a volte di decenni.

Paradossale che un tecnoentusiasta come lui sia stato accusato, negli ultimi anni della sua vita, di non capire la rete e di alimentare le peggiori demonizzazioni di Internet e dei social media. Perché proprio questo gli accadde, per una sorta di contrappasso da lui peraltro mai contrastato.

Per comprendere la posizione di Eco su Internet e i media digitali bisogna rileggere il suo Apocalittici e integrati, un libro pubblicato nel 1964 che raccoglieva scritti a partire dagli anni Cinquanta e che è ancora molto attuale. Nel 1964 l’opposizione fra apocalittici e integrati era riferita al modo in cui gli intellettuali dell’epoca vedevano non solo i mass media (la televisione in primis), ma tutta la cultura di massa, dai fumetti alla narrativa popolare, dal gossip sui personaggi dello spettacolo alla musica cosiddetta leggera. In sintesi, gli apocalittici, da un lato, sostenevano che i mezzi di comunicazione di massa, per rivolgersi a un pubblico vasto ed eterogeneo, dovevano per forza omologare e livellare i loro prodotti, perdendo originalità, offrendo una visione conformista della società, della politica, dei consumi, della vita stessa, incoraggiando atteggiamenti passivi e acritici. Gli integrati, dal canto loro, evidenziavano come i mass media mettessero a disposizione di un insieme molto ampio di persone (impensabile prima della televisione) informazioni che un tempo erano accessibili solo a una élite, e perciò vedevano la cultura di massa come un fatto comunque positivo, anche nei suoi aspetti più omologati, perché capace di introdurre nuovi linguaggi e stili, nuove visioni. In parole povere, gli apocalittici davano una valutazione negativa della comunicazione di massa, gli integrati ne davano una valutazione positiva: i primi erano quelli della demonizzazione e del ‘dove andremo a finire’, i secondi erano gli entusiasti più disponibili a cavalcare il nuovo.

Umberto Eco e Ivano Dionigi

Il rapporto di Eco con questo libro è sempre stato ambivalente: non lo amava molto perché lo considerava una raccolta estemporanea, ma non poteva non riconoscerne, da studioso dei fenomeni di massa, l’efficacia e la durata nel tempo, sia in ambiente accademico (dal 1964 il libro è stato riedito e tradotto molte volte in tutto il mondo) sia sui mezzi di comunicazione di massa, appunto, dove nel tempo l’opposizione apocalittici vs integrati si è affermata al punto da diventare uno slogan che molti usano in modo acritico, anche senza sapere da dove viene né aver mai letto il libro. Ebbene, come può quel libro del lontano 1964 aiutarci a comprendere la posizione di Eco su Internet e i media digitali 50 anni dopo? Penso per esempio a quando, nel giugno 2015, dopo la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e cultura digitale all’Università di Torino, Eco disse in conferenza stampa: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività.

Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Fu accusato di non capire i social media, di professare e fomentare pensiero di retroguardia. E invece? Il problema stava anzitutto nelle domande a cui Eco era spesso costretto a rispondere (in quella come in altre occasioni). Che senso aveva, per esempio, la domanda che gli rivolsero a Torino: «Cosa pensa di Twitter, dei social network, di questo flusso continuo, breve, liofilizzato, inarrestabile, confuso, ma praticato da tutti, dal giornalista come da chiunque, tutti opinionisti?» (il video dell’evento è reperibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=u10XGPuO3C4).

La domanda contiene almeno 2 bachi: 1) presuppone che i social network siano un calderone unico, in cui accadono cose identiche o simili (ma come si fa a pensare che milioni di persone al mondo facciano su Facebook o su Twitter le stesse o simili cose?); 2) valuta negativamente il calderone unico che propone, chiamandolo confuso, liofilizzato eccetera. Quando giornalisti, studenti o altri fanno a me domande del genere, li fermo subito: «Non ha senso parlare di Internet, Twitter e Facebook come ambiente unico», rispondo, «perché i milioni di persone che li abitano ci fanno milioni di cose diverse, alcune buone, altre cattive, altre così e così». Di solito chi mi ha fatto la domanda non è contento della risposta e insiste, ma io insisto a mia volta e si finisce col braccio di ferro.

Cosa faceva invece Eco in questi casi? Le sue reazioni erano di 2 tipi. A volte, per gentilezza e perché era un vero signore, assecondava il/la giornalista di turno, come fece a Torino, e mal gliene incoglieva: il giorno dopo i media titolavano cose come «Eco contro i social network», «Eco e i mali di Internet» e così via. I più volgari associavano le sue parole (o meglio, quelle che avevano estrapolato da discorsi che erano sempre – e sottolineo sempre – più complessi e raffinati) all’età anagrafica: come fa un signore di oltre 80 anni a capire i media digitali? Ma a lui questo non importava: nella sua posizione, col prestigio internazionale di cui godeva, non aveva certo bisogno di dimostrare che di media lui se ne intendeva. Immagino (e so) la noia con cui il giorno dopo Eco leggeva quei titoli apocalittici. Immagino (e conosco) quel suo sbuffare benevolo (Eco era tutt’altro che snob), con gli occhi all’insù, grattandosi la barba.

Altre volte, invece, semplicemente scherzava, lanciava provocazioni. Eco si divertiva molto a rimestare nel torbido, ad agitare i galli nel pollaio, per ridersela sotto i baffi. Detto nel gergo di Internet, in questi casi Eco ‘trollava’ alla grande, faceva ‘trolling’, era un ‘troll’ che più di così non si può. Niente male, per un signore di una certa età che di Internet, a detta dei sapientoni che cadevano nelle sue provocazioni, non avrebbe dovuto capire nulla. Un fine intellettuale che, alla bella età di oltre 80 anni, sapeva perfino fare il troll, come il più informatizzato degli adolescenti. Questo era Eco.

D’altra parte, la soluzione che lui stesso aveva proposto nel 1964 per dissolvere la falsa alternativa fra apocalittici e integrati vale ancora oggi: né apocalittico né integrato, questo era Eco, o entrambe le cose assieme, secondo i casi, perché nessun mezzo di comunicazione – televisione, Internet, Facebook o Twitter che sia – può mai essere trattato come fosse un contenitore unico, ma è un sistema di sistemi complessi, e ogni azione che vi accade va sempre valutata caso per caso, secondo il contesto, il momento, l’obiettivo, chi la fa e chi la riceve. Il che valeva nel 1964 come oggi, sui vecchi media come sui nuovi.

Il nome della rosa: dal libro al film

Il regista Jean-Jacques Annaud racconta che lo stesso Eco l’avesse spinto per tutta la pellicola a «tradire bene il libro, perché per adattare bene bisogna tradire bene».

- Il nome della rosa è divenuto un film nel 1986.

- Costato 32 miliardi di lire, è stata una produzione italo-franco-tedesca.

- Ha incassato 80 milioni di dollari nel mondo.

- È stato campione d’incassi assoluto nella stagione 1986-87.

- 14.672.000 telespettatori su Rai1 per la prima messa in onda.

- I premi ottenuti: 4 David di Donatello, 3 Nastri d’argento, 2 Bafta, 1 César e 1 David René Clair..

Scena da Il nome della rosa

Il pensiero di Eco attraverso i suoi saggi

Eco dedicò parte preponderante della sua produzione saggistica allo studio del linguaggio e delle comunicazioni di massa, alla riflessione sull’arte e alla narratologia.

Opera aperta (1962): studia le problematiche della letteratura contemporanea (un’ampia sezione è dedicata a Joyce), ponendo al centro i concetti di ambiguità e di polisemia che caratterizzano per lui la fruizione dei testi artistici.

Apocalittici e integrati (1964): affronta il problema della comunicazione di massa, mettendo in rilievo la sostanziale passività e acriticità del rifiuto radicale (apocalittici alla Marcuse) e dell’accettazione ottimistica (integrati alla McLuhan).

La struttura assente (1968): assume in ambito semiologico le teorie strutturaliste, rifiutando ogni struttura aprioristica (Ur-struttura), dichiarata appunto assente, inesistente (nel senso che le strutture non si trovano già negli oggetti studiati, ma sono strumenti di indagine): con questa correzione lo strutturalismo diventa «metodologico», definizione che indica il superamento di presupposti ontologici e totalizzanti e l’accostamento alla linguistica strutturale.

Trattato di semiotica generale (1975): rielabora in modo sistematico le sue teorie sulla base di un pragmatismo ispirato alle posizioni di Peirce, distinguendo in particolare una semiotica della significazione, studio dei contesti e dei codici in cui i segni s’identificano, da una semiotica della comunicazione, cioè dei modi con cui i segni si producono.

Lector in fabula (1979): indaga il ruolo del lettore, che non è fruitore passivo del testo, bensì collaboratore nella costruzione del senso e partecipe dei processi interpretativi, sulla base del fatto che ogni opera è «aperta» (nel senso che presenta una pluralità di significati, che il lettore deve portare alla luce).

I limiti dell’interpretazione (1990): precisa che l’interpretazione, pur affidata al lettore, non può tuttavia essere arbitraria, perché deve trovare fondamento e verifica nella strategia del testo, messa in atto dall’autore.

L’ultima opera salpata sulla Nave di Teseo

A novembre del 2015, Umberto Eco decise insieme ad altri (Sandro Veronesi, Hanif Kureishi, Tahar Ben Jelloun e altri) di lasciare la Bompiani (e quindi il nuovo colosso Mondadori-Rcs controllato da Segrate) e di seguire Elisabetta Sgarbi in una nuova avventura, la casa editrice La nave di Teseo, di cui lo scrittore era anche socio e cofinanziatore. Questa nuova casa ha pubblicato Pape Satàn Aleppe, che raccoglie Le bustine di Minerva (la rubrica di Eco sull’Espresso) dal 2000 all’ultima del 27 gennaio 2016, dedicata alla mostra sul Bacio di Hayez). Nell’attesa di ripubblicare, diritti permettendo, la sua intera opera l’ha salutato con questo tweet: «La nave di Teseo saluta il suo capitano. Grazie Umberto».

Stat rosa pristina nomine di Francesco Ursini

- Un successo planetario. Il nome della rosa (1980) è uno dei romanzi di maggior successo di sempre a livello mondiale (alcune stime parlano di 50 milioni di copie vendute, mentre le traduzioni in altre lingue sono quasi 50): un successo confermato all’epoca dall’omonimo film del 1986 interpretato da S. Connery e Ch. Slater, e ancora oggi dall’annuncio, per il 2017, di una serie televisiva in 10 puntate prodotta dalla Rai. È notevole anche che il romanzo abbia avuto nel 2012 una nuova edizione riveduta e corretta dall’autore: operazione peraltro assai contestata dalla critica, che vi ha visto un tentativo di rendere il libro più ‘commerciale’.

- Passato e presente. Nel romanzo confluiscono le vaste conoscenze dell’autore sul Medioevo, ma la rievocazione storica, filtrata peraltro dalla voce narrante, è anche un evidente specchio nel quale si riflettono le problematiche contemporanee: se nella descrizione dei movimenti pauperistici è stata vista un’allusione alle utopie rivoluzionarie degli anni Settanta, quello tra Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos è – più in generale – lo scontro tra progresso e reazione, tra tolleranza e intolleranza, tra libertà di pensiero e dogmatismo: «Il diavolo non è il principe della materia, il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio. [...] Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro». Alla verità del dogma Guglielmo contrappone la verità dei segni: incerta e instabile, ma «la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo».

- L’alternativa postmoderna. Il nome della rosa è costruito in gran parte su citazioni, rielaborazioni e allusioni ad altri libri; l’operazione è stata commentata e discussa dallo stesso Eco in uno scritto di straordinario interesse teorico, le Postille a «Il nome della rosa» (1983), nel quale dà conto delle scelte compiute, dal titolo (tratto dal De contemptu mundi di Bernardo Morliacense: «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus») all’ambientazione, dal narratore alla costruzione della trama. Illuminante è la chiave di lettura offerta nel paragrafo Il post-moderno, l’ironia, il piacevole: «La risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. [...] Ironia, gioco metalinguistico, enunciazione al quadrato. Per cui se, col moderno, chi non capisce il gioco non può che rifiutarlo, col post-moderno è anche possibile non capire il gioco e prendere le cose sul serio. Che è poi la qualità (il rischio) dell’ironia»; e, con ogni verosimiglianza, il segreto del successo di un romanzo capace di «raggiungere un pubblico vasto» e «popolare i sogni dei lettori»: che «non vuol dire necessariamente consolarli. Può voler dire ossessionarli».

Caricatura di Tullio Pericoli
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