ECONOMIA INTERNAZIONALE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)

ECONOMIA INTERNAZIONALE

Pier Carlo Padoan

Il funzionamento di un sistema economico si può sempre considerare come il frutto dell'interazione tra comportamento dei mercati e scelte di politica economica. Nel caso dell'e. i. questa interazione è resa più complicata dal fatto che non esiste un'autorità di governo del sistema internazionale, anche se, naturalmente, nel sistema sono presenti numerose istituzioni preposte alla regolazione delle relazioni economiche tra paesi e aree. Di conseguenza il governo dell'e. i. implica non solo la messa in atto di specifiche politiche, ma anche la definizione di regole che, nell'impossibilità di essere imposte ai partecipanti al sistema, in quanto sono stati sovrani, devono essere da questi accettate volontariamente. La cooperazione internazionale consiste appunto nella definizione e nella messa in atto di tali regole (Guerrieri e Padoan 1988).

Alla fine del secondo conflitto mondiale l'e. i., o meglio quella che raccoglieva l'insieme dei paesi industrializzati, era entrata in una fase di ricostruzione e di sviluppo nella stabilità che non aveva conosciuto eguali nelle esperienze precedenti. Tale sviluppo era stato reso possibile anche dal fatto che l'e. i. era organizzata in un sistema, cioè un insieme di regole che governavano sia le relazioni valutarie e i meccanismi di pagamento (v. sistema monetario internazionale, in questa Appendice) che i rapporti commerciali (v. gatt, in questa Appendice).

Il 15 agosto 1971 il presidente R. Nixon annunciò l'inconvertibilità del dollaro in oro, ponendo così ufficialmente fine al sistema monetario internazionale nato a Bretton Woods. Questa data, però, segnò anche l'inizio di un periodo assai tumultuoso, e dal quale l'e. i. non è ancora uscita, contrassegnato dal susseguirsi di eventi che ne hanno profondamente mutato l'aspetto e il modo di funzionare. Se si volesse ricercare un tratto distintivo di questi venti anni della storia dell'e. i. lo si potrebbe identificare nell'intreccio tra comportamenti di mercato e aggiustamenti nella struttura istituzionale in un'interazione reciproca in cui i secondi possono essere visti come la reazione dei policy makers alle spinte generate dai primi.

Lo shock petrolifero. − Nel 1973-74 il prezzo del petrolio sui mercati internazionali si quadruplicò. Le conseguenze di questo singolo evento furono sconvolgenti per l'e. i. in tutti i suoi aspetti.

Le economie dei paesi consumatori vennero simultaneamente colpite da uno shock inflazionistico e da una spinta deflazionistica. L'impulso alla crescita dell'inflazione s'innestò in un clima che già da qualche anno aveva mostrato segni di surriscaldamento in un contesto in cui, alle spinte salariali che si erano registrate in tutti i principali paesi industrializzati alla fine del decennio precedente, si erano affiancate le tensioni sui mercati delle materie prime alimentate dalla crescita sostenuta della domanda a livello globale (Biasco 1979). L'effetto depressivo sulla crescita fu, inizialmente, la conseguenza del trasferimento di ricchezza in favore dei paesi produttori di greggio generato dalla forte variazione delle ragioni di scambio tra paesi consumatori e produttori di materie prime energetiche. Tale effetto fu, però, accentuato dalla reazione dei governi dei primi i quali, preoccupati di contrastare le tensioni inflazionistiche, misero in atto politiche economiche restrittive rivelatesi poi così violente che nel 1975, per la prima volta dal dopoguerra, il tasso di crescita delle economie industrializzate risultò negativo.

La compresenza d'inflazione e recessione, fenomeno del tutto nuovo per i paesi avanzati, tanto da richiedere l'introduzione di un nuovo termine nel linguaggio degli economisti (''stagflazione''), non fu però la sola conseguenza dello shock petrolifero. I tassi d'inflazione, oltre a crescere ovunque, assunsero andamenti assai differenziati, mentre cominciarono a emergere forti squilibri nelle bilance dei pagamenti. Questi fenomeni segnarono il definitivo abbandono del regime a cambi fissi instaurato nel secondo dopoguerra, tanto che nel gennaio 1976, con l'accordo di Giamaica, i paesi aderenti al Fondo monetario internazionale sancirono ufficialmente il passaggio a un sistema a cambi flessibili.

Gli anni centrali del decennio furono caratterizzati dall'indebolimento, fino quasi alla scomparsa, di un sistema di regole di coordinamento delle politiche macroeconomiche tra i paesi industrializzati. I cambi flessibili però, lungi dall'accrescere l'indipendenza delle politiche economiche nazionali, come molti economisti allora sostenevano, si dimostrarono un meccanismo che aumentava l'interdipendenza e amplificava la trasmissione degli shocks tra le economie nazionali.

La crescita dell'interdipendenza fu grandemente incoraggiata anche dagli sviluppi delle relazioni finanziarie. Una delle conseguenze dello shock petrolifero fu un crescente ruolo, quali intermediari, dei mercati finanziari privati, gli euromercati, la cui espansione fu alimentata dal rideposito presso le eurobanche di gran parte degli incassi della vendita del petrolio da parte dei paesi dell'OPEC. Infatti, in assenza di un meccanismo basato su istituzioni pubbliche − la cui costruzione si era rivelata impossibile a causa delle difficoltà di coordinamento tra i paesi industrializzati e tra questi e i paesi produttori − il riciclaggio dei cosiddetti petrodollari, cioè il trasferimento dei fondi in dollari accumulati dai paesi petroliferi (che erano in gran parte nell'impossibilità di utilizzarli per accrescere le importazioni) verso i paesi a elevata domanda, fu assicurato dalle banche private, che si dimostrarono più pronte degli organismi ufficiali ad adattarsi alla nuova richiesta d'intermediazione.

L'elevata disponibilità di liquidità sui mercati internazionali finì per alimentare, tra l'altro, la speculazione sui mercati dei cambi nonché le stesse spinte inflazionistiche le quali, in un contesto di politiche monetarie malgrado tutto di segno permissivo, dettero vita a tassi d'interesse reali negativi sui mercati internazionali e, dunque, a opportunità d'indebitamento a costo assai contenuto. Sul piano delle relazioni monetarie poi, mentre il dollaro, oramai sganciato da qualunque rapporto con l'oro, continuava a essere la principale valuta di regolazione dei pagamenti, accrescevano il loro peso, come componenti della liquidità internazionale, altre monete nazionali tra le quali giocava un ruolo notevole il marco tedesco.

Primi tentativi di ripresa della cooperazione. − Nella seconda metà degli anni Settanta, nelle principali economie industrializzate si fece strada la convinzione che fosse opportuna una ripresa della cooperazione macroeconomica, al duplice scopo di risollevare il sistema internazionale dalla profonda recessione che le aveva colpite e di contenere i forti squilibri nei pagamenti che, in particolare, contrapponevano gli Stati Uniti, dove già si manifestava un deficit commerciale, a Giappone e Germania Occidentale, che presentavano invece surplus crescenti malgrado lo shock petrolifero. Al vertice dei paesi industrializzati tenutosi a Bonn nel 1978 venne definita una strategia di reflazione comune che prevedeva, per la prima volta dalla fine del sistema di Bretton Woods, un accordo tra i principali paesi (Putnam e Bayne 1987). Nei fatti, però, questo tentativo non ebbe successo e da quel momento, anzi, il grado di coordinamento dell'e. i. subì un processo di arretramento.

Gli Stati Uniti e l'economia internazionale. − La fine degli anni Settanta fu caratterizzata dal forte deprezzamento del dollaro (v. in questa Appendice) alimentato dal deficit commerciale degli Stati Uniti e da una politica monetaria che si manteneva permissiva. L'indebolimento della valuta statunitense accentuò il disagio del sistema economico internazionale in quanto rendeva ulteriormente fragili le basi delle relazioni monetarie e i fondamenti del sistema dei pagamenti. Questo stato di cose venne fronteggiato, sul piano istituzionale, con la proposta del cosiddetto ''conto di sostituzione'' in base al quale le autorità monetarie dei diversi paesi avrebbero potuto sostituire i dollari in loro possesso con Diritti Speciali di Prelievo (DSP) emessi dal Fondo monetario internazionale.

Si trattava di un tentativo importante per l'impegno con cui venne affrontato, e sulla scia del quale emersero proposte di riforma del sistema monetario internazionale. Ma il tentativo fallì per due ordini di ragioni. In primo luogo i maggiori paesi industrializzati, ai quali si aggiunse l'Arabia Saudita, principale paese esportatore di petrolio, non riuscirono a raggiungere un accordo sulle modalità di emissione del nuovo strumento né sul livello dei tassi d'interesse che avrebbero dovuto remunerare le riserve. In secondo luogo, alla fine degli anni Settanta, l'indebolimento del dollaro si arrestò fino a invertire la tendenza nel giro di alcuni mesi; venne quindi meno l'incentivo principale a sostituire i dollari con altri strumenti finanziari.

L'andamento del dollaro e, con esso, la gestione della politica economica statunitense, hanno segnato le vicende dell'e. i. in tutto il ventennio successivo alla fine del sistema di Bretton Woods. E non potrebbe essere diversamente. Anche con la fine di quel sistema, gli Stati Uniti hanno continuato a essere il paese economicamente più potente del mondo e il dollaro la valuta di riferimento. Con il passaggio ai cambi flessibili l'andamento del tasso di cambio del dollaro nei confronti delle principali monete ha cessato di essere sottoposto a precisi obblighi istituzionali ed è diventato sempre più dipendente dalla politica economica degli Stati Uniti. Quest'ultima, a sua volta, ha compiuto in questo e nei successivi periodi diversi cambiamenti di rotta (Parboni 1985). Nel corso degli anni Settanta l'amministrazione di Washington assunse nei confronti degli altri principali paesi un atteggiamento più conflittuale, anche a seguito della percezione dei mutati rapporti di forza sul piano economico, che si riflettevano, come si ricordava, nell'andamento opposto dei saldi di parte corrente. Di conseguenza, negli anni Settanta, anche attraverso una svalutazione ''tollerata'' del dollaro, si è cercato di far recuperare all'economia nordamericana quella competitività che questa era andata perdendo a favore, soprattutto, di Germania e Giappone.

Alla fine degli anni Settanta, però, la svalutazione della moneta e un tasso d'inflazione crescente, mentre non erano in grado di far recuperare competitività all'industria nordamericana, ne indebolivano la posizione finanziaria. Già alla fine del 1978 il presidente J. Carter metteva in atto una serie di misure restrittive volte a stabilizzare il corso della valuta e a combattere la crescita dei prezzi. Ma la vera svolta si ebbe nell'anno successivo, con la nomina a presidente della Riserva Federale di P. Volcker, che portava un radicale cambiamento di rotta nella politica monetaria statunitense indirizzandola verso un sentiero decisamente più restrittivo.

All'inizio del decennio Ottanta, con il presidente R. Reagan anche la politica fiscale subì importanti mutamenti d'indirizzo. Sotto l'insegna delle ''politiche per l'offerta'' vennero varate misure di sostegno agli investimenti privati tramite detassazione, mentre il nuovo clima internazionale, improntato a un confronto più aspro con l'Unione Sovietica, sembrava giustificare una ripresa delle spese per armamenti inaugurando la fase delle cosiddette ''guerre stellari''. A causa di questo insieme di scelte, e malgrado un sostanzioso taglio alle spese sociali, il deficit di bilancio degli USA si accrebbe notevolmente, conferendo alla politica economica di Reagan un sapore di stampo assai più ''keynesiano'' di quanto predicato dall'amministrazione repubblicana.

La compresenza di una politica monetaria restrittiva e di una politica fiscale espansiva nella maggiore economia occidentale comportò diverse e importanti conseguenze per l'e. i. nel suo complesso. Il primo effetto si fece sentire sui tassi d'interesse che presero a salire, negli Stati Uniti e di conseguenza nell'intero sistema internazionale, anche se con intensità diverse, invertendo la tendenza del decennio precedente. Negli anni Ottanta, infatti, i tassi d'interesse assunsero valori reali positivi raggiungendo livelli assolutamente straordinari se confrontati con l'esperienza dell'intero 20° secolo.

La prima conseguenza di tassi d'interesse reali alti e crescenti negli Stati Uniti fu l'inversione di tendenza del tasso di cambio del dollaro che, dopo anni di svalutazione, cominciò ad apprezzarsi nei confronti di tutte le principali valute. Nella prima metà del decennio e fino al giugno 1985 la valuta statunitense ha continuato a rivalutarsi in termini nominali fino a un ammontare superiore al 50% rispetto al livello del 1980. L'apprezzamento della valuta statunitense si deve ascrivere all'ingente flusso di capitali che si sono diretti verso il dollaro, attirati sia dal favorevole differenziale d'interesse che dalla maggiore attrattiva dei mercati finanziari statunitensi in un clima internazionale caratterizzato da crescente incertezza politica e da diffusi segni d'inquietudine sul futuro dell'economia europea.

Nel 1980-81 l'e. i., comunque, è stata nuovamente colpita da una recessione a cui hanno contribuito tanto il primo impatto della restrizione monetaria negli Stati Uniti che, nel 1979-80, il secondo shock petrolifero, con il quale i paesi esportatori di greggio tentarono di reagire alla perdita di ragioni di scambio determinata dall'indebolimento del dollaro. Solo a partire dal 1983 il livello di attività dell'e. i. ha ricominciato a crescere, avvertendo i primi benefici della ripresa della domanda negli Stati Uniti.

Ma le conseguenze della nuova politica economica di Washington non si fermano qui. Ne sono rimasti coinvolti i paesi del Terzo Mondo, sui quali si è abbattuta la crisi debitoria, i rapporti con l'Europa, e quelli con il Giappone.

La crisi del debito. − Nell'agosto 1982 il Messico, il paese maggiormente indebitato nei confronti del sistema finanziario internazionale insieme al Brasile, dichiarò una, sia pur temporanea, moratoria sui pagamenti degli interessi sul debito dovuto alle banche e denominato in massima parte in dollari. Fu l'inizio della crisi del debito che avrebbe coinvolto, e tuttora coinvolge, la gran parte dei paesi dell'America latina, oltre a molti paesi dell'Africa e dell'Asia. La crisi del debito si può considerare un classico esempio di interazione ''perversa'' tra scelte di mercato e gestione infelice della politica economica (Padoan 1989). Nel decennio precedente l'abbondante liquidità sui mercati finanziari privati e il suo costo assai basso, reso possibile da una politica monetaria statunitense accomodante, avevano spinto le banche operanti sugli euromercati a finanziare abbondantemente quei paesi in via di sviluppo che promettevano d'imboccare la strada della rapida industrializzazione e della forte crescita delle esportazioni. Quest'ultima, infatti, si riteneva la strada che avrebbe permesso alle banche di ottenere profitti elevati e a basso rischio grazie alla presunta impossibilità dei debitori sovrani di dichiarare bancarotta, mentre i paesi in via di sviluppo avrebbero potuto perseguire politiche espansive senza incontrare il vincolo rappresentato dalla scarsità dei mezzi di pagamento internazionali.

All'inizio del decennio Ottanta, di conseguenza, le grandi e le piccole banche operanti sugli euromercati si trovavano assai esposte nei confronti di molti paesi del Terzo Mondo (ma non nei confronti dei paesi più poveri di Africa e Asia, ritenuti non affidabili). Da tale processo erano sostanzialmente rimasti fuori gli organismi internazionali, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale in primo luogo, a causa sia delle scarse risorse finanziarie a loro disposizione sia delle condizioni richieste per concedere i crediti, condizioni ritenute troppo onerose non soltanto dai paesi debitori ma dalle stesse banche creditrici.

Nel 1982 questo quadro fu sconvolto dal rialzo dei tassi d'interesse sui mercati internazionali che resero il servizio del debito assai più oneroso, mentre per la recessione diventava più difficoltosa la crescita delle esportazioni e quindi si facevano più scarse le risorse necessarie per servire il debito medesimo. Tra il 1982 e il 1984 il sistema finanziario internazionale si trovò più volte sull'orlo della crisi, alla fine sventata grazie a un complesso meccanismo di cooperazione che, sia pur non risolvendo alla radice il problema, evitò il precipitare della situazione. Le grandi banche, poste di fronte alla minaccia della moratoria generalizzata, furono sostenute dall'intervento delle autorità monetarie dei paesi industrializzati (e in primo luogo dalla Federal Reserve), che attraverso interventi di ''prestatori di ultima istanza'' impedirono che crisi di liquidità generate da interruzioni nel servizio del debito potessero precipitare in una diffusa insolvenza. Il Fondo monetario internazionale riacquistò una posizione di preminenza svolgendo un prezioso ruolo d'intermediario tra paesi indebitati − ai quali si chiedeva di attivare programmi di riaggiustamento spesso assai severi − e le banche private − alle quali si chiedeva di continuare a finanziare i paesi indebitati, anche se oramai ritenuti non più solvibili − per mantenere aperta la possibilità di ritornare, nel medio periodo, a un più sano e più stabile rapporto di credito e debito nel sistema internazionale.

Questo meccanismo di cooperazione ottenne solo in parte i suoi scopi. Se gran parte del sistema bancario riuscì, sia pure a costi non lievi, a riacquistare una certa solidità, la situazione debitoria dei paesi, soprattutto quelli latino-americani, di fatto non fu ridimensionata. Se ne resero conto i paesi industrializzati e in primo luogo gli Stati Uniti, i quali all'assemblea del Fondo monetario internazionale (Sŏul 1986) proposero, con il segretario del Tesoro J.A. Baker, un piano di ''uscita dal debito''. Questo prevedeva, tra l'altro, che i paesi industrializzati avrebbero dovuto sostenere la crescita della domanda mondiale e di conseguenza la crescita delle esportazioni dei paesi indebitati, tramite una reflazione concordata.

Il piano Baker non è stato coronato da successo, tanto che, alla fine del decennio, il nuovo segretario del Tesoro americano, N. Brady, ha proposto un nuovo piano il quale prevede, tra l'altro, la possibilità che almeno in parte il debito in essere sia eliminato o quanto meno convertito in altre forme, come le azioni, che ne permettano l'allungamento dell'orizzonte temporale.

L'Europa. − Il vecchio continente è, tra le aree dell'e. i., quella che ha relativamente meno risentito delle conseguenze della politica economica statunitense. Già alla fine degli anni Settanta era stato varato il Sistema monetario europeo, SME (v. in questa Appendice) allo scopo di costituire un'area di stabilità monetaria e difendere le economie europee dalla fonte di perturbazione allora rappresentata da un dollaro troppo debole.

Se il cambiamento di condotta nella politica economica di Washington non contribuì a diminuire l'instabilità nelle relazioni monetarie internazionali, la creazione dello SME permise di ottenere un sia pur parziale isolamento dell'economia europea, che si concretizzò, in particolare, in un rialzo dei tassi d'interesse minore di quello verificatosi negli Stati Uniti e controbilanciato da un parziale deprezzamento delle monete europee nei confronti del dollaro.

Se in Europa gli anni Settanta si chiusero con la prospettiva della disinflazione e della ritrovata stabilità monetaria, gli anni Ottanta si aprirono all'insegna della disoccupazione massiccia e persistente (Fitoussi e Phelps 1989). L'economia europea sembrò non in grado di riprendersi dalla stagnazione che l'aveva colpita nel corso del decennio precedente. Anzi, la concomitante messa in atto di politiche restrittive in Gran Bretagna e Germania prima, e in Francia e (parzialmente) Italia poi, accentuò questa tendenza tanto da far coniare il termine di ''eurosclerosi'', a indicare una situazione economica stagnante e soprattutto un'apparente incapacità delle economie europee di reagire al divario tecnologico rispetto agli Stati Uniti e al Giappone, che assunse le caratteristiche di un vero e proprio indebolimento strutturale.

Questo stato di cose è durato fino alla seconda metà degli anni Ottanta, quando l'economia europea ha registrato una ripresa della crescita caratterizzata dall'elevata vivacità degli investimenti e dal consistente recupero dei profitti. Un mutamento di clima favorito dal varo del Mercato interno europeo e dai passi compiuti verso la creazione di una moneta unica europea. Ma sulla situazione generale dell'Europa incombe la gravissima crisi dei paesi ex socialisti, che incontrano notevoli difficoltà nel passare a un'economia di mercato evitando tassi elevatissimi di disoccupazione e inflazione.

I rapporti USA-Giappone e la ripresa del protezionismo. − Una delle conseguenze del mutamento di politica economica negli Stati Uniti all'inizio del decennio Ottanta è stato l'emergere di un ampio e per diversi anni crescente deficit commerciale negli Stati Uniti. Le cause di questo vanno ricercate, in parte, nella forte rivalutazione del dollaro e, in parte, nel sostegno alla domanda interna statunitense fornito dall'espansione del deficit di bilancio federale. Il maggior beneficiario del deficit commerciale degli USA, in termini di penetrazione sul mercato statunitense e di risultante surplus commerciale, è il Giappone.

La persistenza del deficit e la crescente penetrazione delle merci giapponesi sul mercato statunitense hanno fatto riaccendere, nella metà degli anni Ottanta, sentimenti protezionistici negli Stati Uniti, concentratisi nell'approvazione (1988) di un trade bill in base al quale settori e prodotti statunitensi che si ritengono colpiti dalla concorrenza estera possono beneficiare di misure di protezione da parte del Congresso. Tale provvedimento si colloca all'interno di una ripresa forte delle pressioni protezionistiche nei paesi industrializzati, pressioni dirette soprattutto contro il Giappone e i paesi di nuova industrializzazione, sia asiatici che di altri continenti. Questa tendenza, che si può considerare anche come la conseguenza della forte instabilità macroeconomica verificatasi nel decennio Ottanta, ha rischiato di trasformare il sistema degli scambi multilaterali basato sul GATT e che ha costituito il pilastro dell'integrazione dell'e. i. nel dopoguerra, in un sistema in cui prevalgono gli accordi commerciali preferenziali (tra gruppi limitati di paesi) e, in generale, il commercio organizzato.

D'altra parte, le relazioni tra Stati Uniti e Giappone non riguardano solo gli aspetti commerciali. Il Giappone, infatti, è il più importante finanziatore del deficit commerciale statunitense grazie all'eccesso di risparmio sull'investimento interno. Ciò rende le relazioni tra i due paesi complesse e delicate in quanto contrassegnate, allo stesso tempo, da una reciproca dipendenza e da una reciproca competizione. Tali relazioni, inoltre, sono cruciali per la stabilità dell'intero sistema economico internazionale, dal punto di vista sia delle relazioni commerciali che delle relazioni finanziarie. Un conflitto commerciale tra i due paesi accentuerebbe, infatti, in modo forse irreparabile le difficoltà del regime commerciale internazionale, mentre l'instabilità finanzaria metterebbe in pericolo il sistema dei pagamenti internazionali tuttora basato sul dollaro, cioè sulla moneta di un paese che, in termini assoluti, è divenuto il più grande debitore dell'e. internazionale.

Un nuovo quadro di cooperazione. − Fino alla metà degli anni Ottanta le politiche economiche dei paesi industrializzati erano state gestite in assenza di un sistema di regole (con l'eccezione dei paesi aderenti allo SME). Questo stato di cose è cominciato a mutare nel 1985, quando il dollaro ha raggiunto il massimo livello di rivalutazione. Nel settembre 1985 i cinque maggiori paesi industrializzati, a seguito di un incontro all'Hotel Plaza di New York, decisero di adottare una politica di interventi coordinati sui mercati dei cambi allo scopo di contenere l'ascesa della valuta statunitense e di riportarla a livelli ritenuti più in linea con il riequilibrio dei pagamenti internazionali. Questo nuovo approccio cooperativo alla gestione macroeconomica si è sviluppato fino alla definizione del cosiddetto ''Accordo del Louvre'' (febbraio 1987), in base al quale i sette principali paesi industrializzati, − il G-7 − stabilirono di effettuare interventi coordinati sui mercati dei cambi al fine di mantenere le valute dei principali paesi all'interno di bande di oscillazione i cui margini venivano comunque tenuti segreti per non agevolare operazioni speculative. Tale accordo riuscì a stabilizzare l'andamento del dollaro nel senso che sono state notevolmente contenute le oscillazioni.

Ma il nuovo quadro di cooperazione economica inaugurato al Louvre non ha influenzato solo l'andamento dei cambi. L'intervento coordinato delle autorità di politica economica si è rivelato assai utile quando, nell'ottobre 1987, il crollo della Borsa di New York si è esteso alle altre principali piazze finanziarie, portando per la seconda volta nel decennio il sistema internazionale sull'orlo del collasso. Quest'ultimo è stato evitato grazie all'azione congiunta delle autorità dei principali paesi le quali, attraverso interventi di ''prestatori di ultima istanza'', hanno reso disponibile sufficiente liquidità per fronteggiare l'emergenza. Che il sistema internazionale avesse, e abbia tuttora, bisogno di un costante intervento di sorveglianza e di cooperazione lo dimostra il fatto che crisi borsistiche di entità non dissimile si sono verificate nuovamente nell'autunno del 1989 e nei primi mesi del 1990. Particolarmente grave è stata la crisi della Borsa di Tokyo.

Per quanto riguarda l'aggiustamento degli squilibri nei pagamenti tra le principali aree industrializzate, i primi anni Novanta fanno registrare un progressivo riassorbimento del deficit degli Stati Uniti. Mentre si mantiene elevato il surplus giapponese, si aggrava invece il deficit commerciale della Comunit'a Europea. Il risanamento del deficit USA è stato favorito anche dal deprezzamento del dollaro iniziato nella seconda metà degli anni Ottanta. Tuttavia le princiali economie occidentali stentano a uscire dalla fase recessiva cominciata nel 1991, mentre i mercati valutari continuano a essere soggetti alle tensioni causate dal forte deprezzamento del dollaro USA rispetto al marco tedesco (e, di conseguenza, alle altre divise dello SME) e allo yen giapponese.

Ma la sfida decisiva per l'e.i. negli anni a venire è il successo della riforma e risanamento delle economie dell'ex Comecon. Per evitare un approfondimento della crisi economica e sociale di questi paesi, le economie occidentali debbono essere pronte sia a trasferire risorse finanziarie, sia a porre in essere politiche commerciali che favoriscano gli scambi con i paesi ex socialisti. Segni incoraggianti in questo senso vengono dall'incontro dell'aprile 1992 del G-7 a Washington, dove si è deciso di sostenere finanziariamente la riforma economica in Russia. Resta tuttavia importante evitare il rischio che gli aiuti ai paesi ex socialisti si traducano in una ridotta attenzione ai problemi ed esigenze di sviluppo dei paesi del Sud del mondo.

Bibl.: S. Biasco, L'inflazione nei paesi capitalistici industrializzati, Bologna 1979; R. Parboni, Il conflitto economico mondiale, Roma 1985; R. Putnam, N. Bayne, Sovrani ma interdipendenti, trad. it., Bologna 1987; L'economia politica della cooperazione internazionale, a cura di P. Guerrieri e P. C. Padoan, Milano 1988; P. C. Padoan, Instabilità e cooperazione. I dilemmi del sistema finanziario internazionale, Roma 1989; J.-P. Fitoussi, E. Phelps, La crisi economica in Europa, trad. it., Bologna 1989; FMI, World economic outlook, October 1991, Washington 1991; P. Krugman, Has the adjustment process worked?, ivi 1991.

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