Economia

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Complesso delle risorse (terre, materie prime, energie naturali, impianti, denaro, capacità produttiva) e delle attività rivolte alla loro utilizzazione, di una regione, uno Stato, un continente, il mondo intero. Anche uso razionale del denaro e di qualsiasi mezzo limitato, che mira a ottenere il massimo vantaggio a parità di sacrificio o lo stesso risultato con il minimo dispendio.

Sistemi economici

A seconda che gli uomini si limitino a consumare i prodotti offerti dall’ambiente naturale, oppure provvedano a conservare le possibilità produttive della natura o ad aumentarle, si ha l’ e. passiva o distruttiva, prevalente tra i primitivi, oppure l’ e. attiva, conservativa o produttiva, propria dei popoli civili. A seconda dei soggetti che vi partecipano, si ha l’ e. unisoggettiva, individuale, dell’uomo isolato che produce ciò che consuma, o anche di una pluralità di individui che viva isolatamente e in regime di autorità accentrata, e l’ e. plurisoggettiva o di scambio, caratterizzata da una pluralità di soggetti, liberi di produrre e scambiare i beni prodotti. A seconda che gli scambi avvengano in natura o in moneta si ha l’ e. naturale (o di baratto) oppure l’ e. monetaria, a seconda dell’ambito entro cui si svolge il ciclo della produzione al consumo, l’ e. cittadina (con riferimento soprattutto al Medioevo), in cui gli scambi avvengono tra la città e il contado, l’ e. territoriale, in cui gli scambi si svolgono entro un dato territorio, l’ e. nazionale e l’ e. internazionale; a seconda che ci sia o no possibilità di scambi con paesi al di là dei confini, si parla anche di e. aperta e di e. chiusa e, quando tra paesi diversi si instaurino rapporti di scambio così stretti e solidi da poter quasi parlare della formazione di un solo insieme di risorse e di un solo mercato, l’e. del complesso dei paesi può dirsi integrata; in base al grado di sviluppo raggiunto si parla anche di e. matura o immatura; a seconda del criterio informatore del sistema economico, si distingue l’ e. individualistica, liberale (o, meno comunemente, liberista) o di mercato, basata sulla libera iniziativa individuale, dall’ e. collettivista, in cui l’interesse della collettività è inteso come superiore a quello degli individui (➔ collettivismo), dall’ e. socialista, socializzata, nazionalizzata, caratterizzate dalla socializzazione dei mezzi di produzione (➔ socializzazione) e in genere dirette da piani economici e dette quindi anche e. pianificate, nonché dall’ e. controllata, diretta, di intervento, programmata o programmatica, in cui l’iniziativa individuale non è soppressa ma posta sotto il controllo dello Stato ed entro le direttive tracciate da questo; con riferimento specifico all’indirizzo di politica economica prescelto in materia di commercio con l’estero, si distingue poi l’ e. liberista, da quella protezionista e mercantilista; con riferimento alla particolare situazione del momento, l’ e. di pace, di guerra, di transizione ecc.

E. interne o di scala sono quelle realizzabili in una singola impresa per effetto dell’aumento della quantità prodotta o della dimensione dell’impianto, della diversa combinazione dei fattori produttivi o del progresso tecnologico. E. esterne sono gli effetti positivi o i benefici che un consumatore, un’impresa o l’intera collettività traggono da mutamenti dell’ambiente esterno dovuti all’attività di consumo o di produzione di altri soggetti, al di fuori delle transazioni di mercato (per es., la costruzione di un’autostrada); processi di congestione, di inquinamento, di degrado ecologico possono dare origine a diseconomie esterne (➔ esternalità).

La scienza economica

La scienza che studia l’attività economica è detta più comunemente, per tradizione, e. politica, in quanto ai suoi inizi perseguiva scopi eminentemente politici limitandosi a suggerire norme di condotta agli uomini di Stato; ma è detta anche soltanto economia.

E. pubblica è quella parte della scienza economica che studia l’attività economica dello Stato, più nota sotto il nome di scienza delle finanze; si parla a volte anche di e. pubblica nel senso di e. generale o studio dell’attività economica dal punto di vista generale, in contrapposto all’e. aziendale o privata; si parla anche di e. finanziaria in contrapposto all’e. politica, nel senso che quest’ultima studia gli assetti contrattuali mentre la prima si occupa di quelli coercitivi o politici, ossia delle sostituzioni forzose di scelte decise dall’autorità a quelle che sarebbero altrimenti operate dai singoli.

Con la denominazione di macroeconomia si indica lo studio delle relazioni che intercorrono tra quantità globali o grandi aggregati, quali il reddito nazionale, gli investimenti, il risparmio ecc., in contrapposto a microeconomia che studia il comportamento delle singole unità economiche (consumatori, imprenditori ecc.).

L’ e. teorica, o pura, è una scienza essenzialmente deduttiva che studia le leggi dei fenomeni economici partendo dall’ammissione iniziale di alcuni postulati assai semplici nell’intento di pervenire alla individuazione di uniformità valide per qualunque forma di organizzazione della collettività o, per lo meno, in qualsiasi situazione relativa a un determinato tipo di organizzazione (e. pura generale, nel primo caso, ed e. pura del capitalismo, del socialismo ecc. nel secondo); si contrappone all’ e. applicata, che studia i rapporti tra i fenomeni considerati in astratto dall’e. pura e singoli settori specifici della complessa realtà economica (per es., e. agraria, e. industriale ecc.). L’intervento dello Stato e di altri enti pubblici nella vita economica forma poi oggetto di studio della politica economica e finanziaria, sia in generale, come studio di mezzi adeguati per pervenire a determinati obiettivi, sia in particolare come esame di provvedimenti concreti.

A seconda che i fenomeni economici siano studiati prescindendo dall’elemento tempo, o siano analizzati invece nel loro continuo spostarsi da una posizione all’altra di equilibrio in dipendenza delle varie forze agenti si parla di e. statica e di e. dinamica (mentre alcuni economisti ritengono impossibile prescindere dall’elemento tempo e si limitano a distinguere due ipotesi per lo studio dei fenomeni economici: quella più semplice della stazionarietà o costanza degli elementi dati e quella più complessa della variazione degli stessi durante il periodo considerato); se si ricorre largamente alla matematica e alla statistica, si ha l’e. matematica, o econometria. A seconda poi del particolare indirizzo che caratterizza le teorie di un gruppo di pensatori o di un’epoca storicamente determinata, si ha l’e. mercantilistica, l’e. fisiocratica, l’e. classica, l’e. marginalistica, l’e. marxistica, l’e. dell’equilibrio, l’e. del benessere, l’e. keynesiana ecc.

Si chiama e. aziendale lo studio dei principi che presiedono all’organizzazione e alla gestione delle aziende volte al conseguimento di un fine economico, studio che, partendo dall’analisi del fenomeno economico, elabora forme e modalità di rilevazioni contabili e statistiche, atte a mettere in luce i fenomeni di gestione che nell’azienda si sviluppano e i risultati a cui conducono. In tale disciplina, pertanto, è considerato congiuntamente lo studio che in passato costituiva oggetto di tre distinte discipline: l’organizzazione, la tecnica, la ragioneria. Spetta a G. Zappa e alla sua scuola di aver rilevato la stretta interdipendenza fra le tre discipline e di aver affermato la necessaria unitarietà del loro studio.

E. politica

Dal punto di vista dell’individuo, l’e. politica è la scienza che studia l’attività umana nella sfera dei rapporti economici. Il suo particolare oggetto non è determinato allo stesso modo da tutti gli economisti, ma un’impostazione metodologica che ha avuto larga influenza si basa sullo sviluppo illimitato di cui sono suscettibili i bisogni umani (raggiungimento della massima utilità) e la limitatezza dei mezzi atti a soddisfarli (beni economici), da cui deriva la necessità per gli uomini di affrontare sacrifici per procurarseli e l’impulso a cercare di ridurre al minimo i sacrifici stessi. Nella letteratura si trova talvolta designato come homo oeconomicus il soggetto schematico che uniformi la sua condotta a questo principio di convenienza. L’e. politica è stata definita da alcuni come scienza della ricchezza, ossia come studio della produzione, della distribuzione e del consumo di tutti i mezzi atti a soddisfare i bisogni umani considerati ricchezze in senso economico, ossia fonti di benessere; da altri come scienza degli scambi o dei prezzi; e da altri ancora, i quali pongono l’accento sulla limitatezza dei beni economici in confronto ai bisogni umani esistenti e potenziali e sulla loro suscettibilità di essere impiegati per usi alternativi, come lo studio della ripartizione dei mezzi disponibili tra i vari possibili usi e quindi come «scienza che studia la condotta umana quale relazione tra scopi e mezzi scarsi, applicabili a usi alternativi». Quest’ultima definizione, che si ricollega a W.S. Jevons, ai marginalisti austriaci, alla scuola di Losanna ed è stata riaffermata negli anni 1930 da L.C. Robbins, ha avuto una profonda influenza, anche se i fenomeni della disoccupazione e i problemi dello sviluppo hanno ricondotto a concezioni più vicine a quelle degli economisti classici, che sottolineavano le potenzialità di crescita, l’ottica della producibilità, più che quella della scarsità. Va ricordato infine che la scienza economica tende sempre ad accertare ciò che vi è di generale nei fenomeni economici e, a volte, si presenta come assolutamente neutrale di fronte alla scelta dei fini, a volte invece si propone di additare il comportamento più opportuno per il raggiungimento di un fine considerato preminente (ora l’interesse individuale, ora quello della collettività).

Storia del pensiero economico
I primordi

- L’espressione e. politica appare per la prima volta quale titolo dell’opera di A. de Montchrétien, Traité de l’œconomie politique (1615), ma si può dire che la scienza economica sia nata con l’età moderna, dopo che le scoperte geografiche ebbero dato impulso al commercio e alla trasformazione dell’e. naturale medievale in e. monetaria. Anche gli antichi trattarono di problemi economici, soprattutto agrari; manca però in essi ogni sistematica coordinazione, tanto che si è parlato di periodo frammentario dell’e. politica, sia per l’era antica sia per i secoli del Basso Medioevo. Se ne occuparono in questo periodo quasi soltanto i teologi (s. Alberto Magno, s. Tommaso, s. Antonino di Firenze, s. Bernardino da Siena) e non al fine di scoprire le leggi della vita economica, bensì semplicemente per condannarne alcune manifestazioni stridenti quali i prezzi esorbitanti e l’interesse del denaro: sono questi infatti i secoli in cui si discute sul giusto prezzo e sull’usura.

Mercantilismo e colbertismo

- Gli studi su argomenti economici si fanno più frequenti nei sec. 16° e 17°, in cui dominano i mercantilisti (tra cui notevoli soprattutto gli inglesi T. Mun, W. Temple, J. Child, C. Davenant), i quali, identificando la ricchezza di una nazione con la quantità di moneta disponibile, suggeriscono ai governi inizialmente di vietare l’uscita dei metalli preziosi; successivamente di incrementarne l’entrata, mediante l’obbligo agli esportatori di introdurre nel paese parte almeno del ricavato in moneta delle loro vendite; da ultimo di ricorrere a dazi doganali, premi di esportazione e altri provvedimenti diretti a produrre un’eccedenza delle esportazioni sulle importazioni e quindi un saldo attivo in oro e argento. Durante il 17° sec. il sistema di politica mercantilistica, abbandonando l’obiettivo originario di promuovere le importazioni di moneta, si trasformò gradualmente in un sistema protettore, diretto a incoraggiare lo sviluppo delle industrie nazionali. Questo sistema ebbe larga applicazione in Inghilterra, dove fu introdotto con l’Atto di navigazione di O. Cromwell, in Francia, particolarmente sotto Luigi XIV, dove prese da J.-B. Colbert il nome di colbertismo, e divenne presto o tardi ovunque fattore concorrente alla creazione delle e. nazionali. Non mancano tuttavia, anche in questo periodo, idee in netto contrasto con quelle prevalenti, che precorrono le teorie fisiocratiche e della stessa scuola classica. Notevole in tal senso il contributo degli italiani (B. Davanzati, G. Scaruffi, A. Serra, G. Montanari ecc.).

La scuola classica

- La reazione al mercantilismo viene accentuata e diffusa verso la metà del 18° sec. da un gruppo di scrittori francesi, i cosiddetti fisiocrati (P. Dupont de Nemours, V. Mirabeau, R.-J. Turgot, J.-C.-M.-V. de Gournay, P.-P. Mercier de la Rivière, G.-F. Le Trosne, N. Beaudeau), che si raccolgono intorno a F. Quesnay e tentano per la prima volta una sistemazione scientifica dei fenomeni economici, ricercandone, sotto la suggestione delle idee filosofiche allora dominanti, l’ordine naturale. Riprendendo in parte idee già affermate in Inghilterra da J. Locke, W. Petty, D. North, essi spostano la loro attenzione dallo scambio e dalla moneta alla produzione e alla distribuzione del prodotto, sostengono la libertà economica, affermano il carattere pregiudizievole per la collettività di privilegi, monopoli e misure restrittive in generale, mentre ritengono che andrebbe soprattutto favorita l’attività agricola. In Italia, nello stesso 18° sec., proseguono e maturano indagini originali sulla moneta e sul valore, specie per opera di F. Galiani, ma per il resto, gli scrittori italiani dell’epoca che si occupano anche di e. politica (S.A. Bandini, C.A. Broggia, G. Belloni, G.R. Carli, A. Genovesi, C. Beccaria, P. Verri, G. Filangieri, G. Ortes, F. Mengotti) appaiono piuttosto inclini all’eclettismo, e non accettano comunque senza riserve il dogmatismo individualistico e liberistico dei fisiocrati.

La proclamazione a oltranza di ogni genere di libertà, in uno Stato concepito contrattualmente sulla base dell’illuministica rivendicazione dei diritti naturali, si fa però sempre più strada anche fuori di Francia e soprattutto in Inghilterra. Dopo Locke e G. Berkeley, D. Hume riesce a superare le ideologie mercantilistiche, accostandosi a un liberalismo temperato da forti esigenze storicistiche e arricchito dal senso della complessità e organicità dei fatti sociali. Dalla filosofia dello stesso Hume procede il pensiero di A. Smith, ritenuto il fondatore della scienza economica. Con la sua Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776) ha inizio la scuola classica che, delimitato l’oggetto dell’e. di fronte alle altre discipline, riuscì a sintetizzare quanto vi è di essenziale nella complessità della vita economica, ispirandosi sempre a premesse individualistiche, liberistiche e utilitaristiche che danno un’impronta comune al pensiero degli economisti, quasi tutti inglesi, della fine del 18° e della prima metà del 19° sec. (A. Smith, T.R. Malthus, D. Ricardo, N.W. Senior, J.R. McCulloch, R. Torrens, J.S. Mill, J.E. Cairnes). Molteplici sono tuttavia le divergenze, soprattutto tra i cosiddetti pessimisti (come Ricardo e Malthus), e chi, come Smith, è convinto dell’affermarsi dell’assetto economico più soddisfacente mediante il perseguimento dell’interesse individuale. Ricollegandosi a Smith, gli scrittori francesi della stessa epoca (J.-B. Say, F. Bastiat, M. Chevalier ecc.) si differenziano dagli inglesi in modo tanto evidente che si parla di una ‘scuola classica francese’. In Italia il pensiero classico è rappresentato da M. Gioia, D. Romagnosi, P. Rossi, C. Cattaneo, A. Scialoia e soprattutto da F. Ferrara; in Germania da F. Hermann e J.H. Thünen; in Svizzera da V. Cherbuliez; negli Stati Uniti da H.C. Carey.

La scuola storica

- Le teorie della scuola classica cominciano però a incontrare obiezioni di principio, collegate alle correnti speculative della prima metà del 19° sec., idealismo e positivismo, cui si aggiunge anche, per altra via, la reazione dei cattolici (il più insigne rappresentante dell’e. cattolica in Italia fu G. Toniolo). I nuovi tentativi critici e sistematici cui danno luogo prendono nome di romanticismo, umanitarismo, socialismo, statalismo, storicismo ecc. ma difficile sarebbe catalogare nettamente in essi gli economisti dell’epoca senza mutilarne la personalità. La reazione prende soprattutto di mira l’individualismo e l’ipotesi dell’homo oeconomicus considerati come elementi costitutivi dell’e. classica; all’individuo si vuol sostituire l’organismo sociale e all’utile individuale il benessere nazionale o la solidarietà. Motivi pratici si intrecciano a quelli speculativi e i problemi più dibattuti divengono quelli della distribuzione. Particolare importanza ebbe in tale periodo la scuola storica, che riuscì a superare vari indirizzi particolari, sostenendo che i fenomeni economici non sono isolabili dal complesso degli altri fenomeni e che, data la mutevolezza della realtà economica, non si può arrivare a leggi immutabili.

Il marginalismo

- Si sboccava così in un relativismo scettico e l’e. andava sempre più confluendo verso la politica quando da più parti si avvertì il bisogno di riaffermare il carattere scientifico dell’e. e la ricerca di uniformità di comportamento dei soggetti economici. Si fece di nuovo capo alle teorie classiche, cercando di contrapporre all’e. applicata e alla politica economica un’e. pura, scienza in cui da ipotesi volutamente astratte si desumessero logicamente le necessarie conseguenze, e per renderla sempre più rigorosamente scientifica si ricorse alla psicologia e alla matematica. Gli aspetti soggettivi dell’operare economico sono analizzati dal marginalismo (➔) che si afferma contemporaneamente e indipendentemente in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Austria, per opera soprattutto di W.S. Jevons, H. Gossen, F. von Wieser, L. Walras. Da questo riacquistato rigore teorico traggono origine gli indirizzi dell’equilibrio economico, sia nella forma di equilibri particolari (A. Marshall, M. Pantaleoni), sia nella forma di equilibrio economico generale (L. Walras, V. Pareto, E. Barone).

Un accentuato fervore di ricerche caratterizza i successivi decenni. Negli Stati Uniti J.M. Clark e gli istituzionalisti, sotto la guida di T.B. Veblen e W.C. Mitchell, reagiscono nel primo dopoguerra contro l’e. astratta e, ispirandosi alle esigenze a suo tempo sostenute dalla scuola storica tedesca, si dedicano allo studio delle istituzioni e arricchiscono l’e. di importanti ricerche positive. Ovunque, anche per riflesso di nuovi assetti politici e di vicissitudini economiche, si discute sul progresso sociale, su riforme di struttura, sui problemi del salario e dell’occupazione, ora risentendo ancora dell’impostazione classica ora cercando nuove vie e mirando al ‘benessere’ e alla ‘piena occupazione’.

Keynes

- Figura dominante del pensiero economico contemporaneo è quella di J.M. Keynes, il quale – parallelamente alla revisione della teoria classica delle forme di mercato iniziata da P. Sraffa e proseguita da J. Robinson e da E.H. Chamberlin – ha posto in rilievo l’incapacità di un sistema economico basato sulle forze spontanee di mercato di assicurare la piena utilizzazione delle risorse umane e materiali. La dissociazione tra le decisioni di risparmiare e le decisioni di investire, che contraddistingue i sistemi economici industrialmente progrediti, si riflette nel livello del reddito, che può mantenersi al disotto del pieno impiego, senza che meccanismi di mercato ve lo riconducano. In un dibattito che perdura ininterrotto dall’epoca della pubblicazione della General theory di Keynes (1936), l’attenzione si è a volte accentrata sul contenuto strettamente teorico della sua opera, altre volte sulle indicazioni di politica economica. L’apporto keynesiano, diffuso negli USA soprattutto per opera di A.H. Hansen, ha dato un nuovo indirizzo agli studi sulle fluttuazioni economiche, sui problemi del commercio internazionale, sulle tendenze al ristagno delle e. capitalistiche. Ancora maggiore è stata l’influenza delle politiche keynesiane che attribuivano ai poteri pubblici un ruolo cruciale ai fini del sostegno della domanda globale per il perseguimento e il mantenimento di condizioni di pieno impiego. L’azione di sostegno della domanda globale, realizzata in condizioni di sovrabbondanza di risorse inutilizzate e di riluttanza alla spesa da parte degli operatori economici, non ha di per sé carattere inflazionistico, sin quando non sia stato raggiunto il pieno impiego, o non insorgano carenze o strozzature nell’offerta di beni e servizi, inclusi quelli di lavoratori qualificati.

Mentre i processi inflazionistici del secondo dopoguerra risultarono fronteggiati adeguatamente nei paesi anglosassoni con misure di controllo, dirette questa volta a contenere la domanda globale, più arduo si è manifestato il compito sia dell’analisi teorica sia delle misure di intervento dei poteri pubblici, di fronte ai persistenti processi inflazionistici che si sono verificati nei decenni successivi. Di qui l’affermarsi di contrastanti tendenze dottrinali. Alcune si richiamano alla spontaneità dei processi di aggiustamento economico in un clima di rigoroso controllo nell’offerta di mezzi di pagamento ( monetarismo); altre sottolineano l’esigenza di completare il sistema di pensiero keynesiano, tenendo conto di aspetti trascurati dal suo insegnamento; altre infine ripropongono interpretazioni di ispirazione marxista degli sviluppi del mondo capitalistico: il tutto concorrendo a una fase autocritica, ma profondamente vivace e vitale, della moderna scienza economica.

Dottrina economica e modelli matematici

- Caratteristica ulteriore dell’e. postbellica è il crescente impiego della matematica, che già la teoria walrasiana dell’equilibrio economico generale aveva richiesto per intrinseca esigenza logica (➔ Walras, Marie-Esprit-Léon). Il tentativo di determinare le condizioni di equilibrio stabile di un sistema, ripreso con eleganza da J.R. Hicks nel 1939, fu proseguito, tra gli altri, da O.R. Lange e P.A. Samuelson, e lo sviluppo del pensiero economico contemporaneo ha tratto notevole impulso anche dai contributi di matematici attratti dall’esame dei problemi dell’equilibrio. Importante soprattutto, tra questi, il modello di J.L. von Neumann relativo all’evoluzione di un sistema che, in una successione di periodi, si svolga secondo un processo circolare. Senza lo strumento matematico non si sarebbe avuta la grande fioritura di modelli macroeconomici, di derivazione keynesiana, di cui può considerarsi prototipo quello di R.F. Harrod e di E.D. Domar (configurazione di un meccanismo di sviluppo sorretto da due processi: la creazione di capacità di produzione addizionale, attraverso gli investimenti, e l’espansione della domanda per effetto della spesa iniziale e del moltiplicatore). Vi hanno contribuito J.R. Hicks, M. Kalecki, N. Kaldor, L.R. Klein, J.E. Meade, F. Modigliani, J. Robinson, P.A. Samuelson, W.J. Baumol, R.M. Goodwin, R. Solow e altri, elaborando modelli più o meno complicati, ma sempre funzionali (in cui, cioè, ipotizzate certe relazioni tra grandezze economiche e poste certe condizioni di equilibrio, il valore delle grandezze incognite risulta funzione del tempo), adatti a mettere in luce problemi di lungo periodo o connessi al ciclo economico.

Non va trascurato l’interesse che presenta dal punto di vista economico la teoria dei giochi di J.L. von Neumann e O. Morgenstern, rilevante dal punto di vista matematico e per le possibili applicazioni al comportamento economico, soprattutto in condizioni di oligopolio. Ma soprattutto va sottolineata la sempre maggior voga dell’indirizzo econometrico, iniziato intorno al 1930 per opera principalmente di R. Frisch, che, combinando insieme analisi economica, matematica e statistica, ha dato fecondi risultati soprattutto nello studio delle interdipendenze settoriali (input-output analysis di W. Leontief) e nella tecnica per la soluzione di problemi di scelta, detta della programmazione lineare, che ha avuto applicazioni ai fini della massimizzazione dei risultati o della minimizzazione dei costi con riferimento sia a singole unità produttive sia all’e. nel suo complesso.

Pianificazione economica

- Si sono, d’altra parte, andate moltiplicando le necessità di decisioni economiche fondamentali da parte di soggetti economici pubblici, e uno dei principali oggetti d’indagine del pensiero economico contemporaneo è stata appunto la pianificazione, di cui, anche nei paesi a e. accentrata, è venuta sempre più chiarendosi l’esigenza della razionalità. Il calcolo economico, trascurato nelle sue prime fasi dall’e. sovietica – in cui le alternative di sviluppo erano del resto ancora molto semplici –, si è via via imposto nell’ex URSS e in altri paesi a e. accentrata per evitare sprechi. Nel contempo, elementi di programmazione si sono inseriti in misura crescente nei sistemi basati prevalentemente sul mercato; dal che, sul piano tecnico, un certo convergere dei sistemi economici, sottolineato da alcuni autori (J. Tinbergen). Altro orientamento di ricerca imposto con urgenza dalla realtà agli economisti, nel secondo dopoguerra, è stato quello relativo allo sviluppo di lungo periodo. Accettata, in linea generale, la posizione chiave della domanda effettiva e degli investimenti nei problemi di breve periodo, era naturale che ci si occupasse delle conseguenze dell’accumulazione di capitale che dagli investimenti deriva, e non soltanto nei paesi già industrializzati, per cui l’esigenza primaria è quella del mantenimento di un regolare tasso di sviluppo, ma anche per i paesi che, raggiunta l’autonomia politica, devono porre rimedio all’arretratezza della loro economia.

Mentre l’e. classica prevedeva che l’ordinamento capitalistico sarebbe stato da sé in grado di espandersi in tutto il mondo, battendo gradatamente le forme più arretrate di produzione, i teorici del sottosviluppo hanno messo in luce il progressivo approfondirsi degli squilibri nei livelli di reddito pro capite, i rilevanti fenomeni di ‘indivisibilità’ dal lato della domanda e dell’offerta che ostacolano l’industrializzazione (P.N. Rosenstein-Rodan) e il cosiddetto ‘circolo chiuso della povertà’ che condannerebbe le e. arretrate alla stazionarietà in mancanza di un deciso intervento dello Stato.

Al polo opposto, nei paesi altamente sviluppati, s’impongono all’attenzione degli studiosi i radicali mutamenti intervenuti nel funzionamento dell’e. capitalistica, l’aumento non sempre razionale dei consumi, la carenza di essenziali beni pubblici, problemi tutti propri della società opulenta che sollecitano l’allargamento della spesa pubblica nei confronti di quella privata. Man mano che cresce il reddito pro capite nei paesi a e. accentrata, la pianificazione, orientata prima quasi esclusivamente verso la formazione di capitale, comincia d’altra parte a porsi obiettivi di consumo e si profila l’insorgere di problemi analoghi. Sostituitasi alla fiducia in equilibri naturalmente conseguiti e mantenuti, la necessità di continui e crescenti interventi nella vita economica e diffusasi la consapevolezza delle interdipendenze all’interno dei paesi e sul piano internazionale, la scienza economica non può che sempre più concentrare la sua attenzione su problemi di politica economica, mentre i governi, d’altra parte, avvertono in misura crescente l’esigenza di un’adeguata conoscenza economica come condizione dell’efficacia dei loro interventi. La teoria economica, che grandi vantaggi ha tratto anche dai progressi della statistica, è venuta così accentuando il suo carattere di strumentalità, che, d’altra parte, poggia sulla combinazione adeguata dell’indagine analitica e della ricerca empirica.

Macroeconomia e microeconomia

Gli sviluppi della teoria economica nella seconda metà del 20° sec. sono stati caratterizzati da una crescente integrazione tra macroeconomia e microeconomia. La costruzione dei modelli macroeconomici si basa sempre più su solidi fondamenti microeconomici, vale a dire su un’analisi dettagliata e rigorosa dei comportamenti degli agenti individuali, siano essi le famiglie o le imprese. In tal senso, la macroeconomia mutua dalla microeconomia alcuni dei risultati analitici da essa realizzati nel più recente passato. L’analisi microeconomica, tradizionalmente caratterizzata da un livello di formalizzazione assai più elevato di quello della macroeconomia, è andata sviluppandosi verso un ulteriore e più esteso uso di strumenti matematici anche molto avanzati, soprattutto in quei campi di ricerca dove si affrontano i problemi della dinamica, dell’incertezza e dell’informazione, del comportamento strategico delle imprese in regimi di mercati non perfettamente concorrenziali. Vi sono stati anche tentativi di estendere l’approccio proprio della teoria dell’equilibrio economico generale a livello empirico. Sono stati elaborati modelli, detti modelli computabili d’equilibrio economico generale, per lo studio di problemi di e. applicata.

Il dibattito sui temi di natura microeconomica, anche per la sua natura fortemente specialistica, è in genere rimasto confinato negli ambienti accademici. Invece, per quanto riguarda la macroeconomia, i temi dibattuti hanno interessato ambienti più vasti; ciò soprattutto per le loro quasi immediate implicazioni di politica economica. Sin dalla fine degli anni 1960, il dibattito sulla teoria macroeconomica aveva condotto al progressivo affermarsi dell’idea che le tradizionali politiche economiche d’ispirazione keynesiana fossero inefficaci, se non dannose. In tal senso, si può dire che l’evoluzione della macroeconomia ha segnato una sorta di ritorno alle impostazioni teoriche prekeynesiane. Questo processo, iniziato con il monetarismo, si conclude con l’avvento della nuova macroeconomia classica, i cui rappresentanti più significativi sono R.E. Lucas e T.J. Sargent. La nuova macroeconomia classica adotta l’ipotesi di aspettative razionali e rigetta ogni ipotesi di rigidità, assumendo che tutti i mercati sono sempre in equilibrio grazie alla perfetta flessibilità dei prezzi. L’ipotesi di aspettative razionali implica che gli agenti conoscano il ‘vero’ modello dell’e., siano cioè in grado, per es., di anticipare correttamente e pienamente gli effetti inflazionistici di una politica monetaria espansiva. Su questa base è stata criticata e sviluppata l’interpretazione monetarista della curva di Phillips: i lavoratori anticipano correttamente gli effetti inflazionistici della politica espansiva e, pertanto, non sono ingannati nemmeno temporaneamente. Anche nel breve periodo, l’effetto di una politica monetaria espansiva è esclusivamente un più elevato tasso d’inflazione. Ciò equivale a dire che l’e. resta continuamente al suo tasso naturale di disoccupazione, anche se può variare il livello generale dei prezzi a causa di interventi delle autorità di politica economica. In questo contesto teorico, la politica economica può produrre effetti reali solo se ‘coglie di sorpresa’ gli agenti. Un aumento della domanda aggregata (generata di norma da variazioni inattese dell’offerta di moneta) non anticipata dagli agenti genera ‘errori’: le imprese scambiano l’aumento del livello generale dei prezzi (indotto dall’aumento dell’offerta di moneta) per un aumento dei loro prezzi relativi e, razionalmente, aumentano l’offerta di beni e la domanda di lavoro. I lavoratori, a loro volta, offrono una maggiore quantità di lavoro perché scambiano l’aumento dei salari nominali (derivante dall’aumentata domanda di lavoro) per un aumento dei salari reali. Di conseguenza, sia l’output aggregato sia il livello d’occupazione salgono e si allontanano dal loro precedente livello naturale d’equilibrio di lungo periodo. Ciò, tuttavia, dura fintantoché gli agenti non realizzano di aver commesso un ‘errore’, in quanto né i prezzi relativi né il salario reale sono mutati. Le implicazioni di politica economica sono quindi assai radicali. Politiche espansive che siano annunciate dalle autorità sono del tutto inefficaci, in termini reali, anche nel breve periodo. Politiche che colgano gli agenti di sorpresa per la loro casualità possono produrre effetti reali solo temporanei.

Su queste basi, la nuova macroeconomia classica ha sviluppato anche una critica profonda dei tradizionali modelli econometrici usati per prevedere e valutare gli effetti delle politiche economiche. Tali modelli, costruiti sull’ipotesi di parametri stabili, sono incapaci di cogliere il cambiamento nei comportamenti degli agenti indotto proprio dagli interventi politici e, quindi, forniscono indicazioni fuorvianti.

La nuova e. keynesiana

È stato solo tra la fine degli anni 1980 e l’inizio degli anni 1990 che si è assistito all’emergere di posizioni che tornano a ribadire la necessità e l’efficacia di interventi di politica economica. In questa fase è andata affermandosi una corrente di pensiero che si richiama nuovamente a Keynes (NKE, New Keynesian Economics), che rivendica la validità di alcuni risultati keynesiani, in particolare la possibilità che si realizzino equilibri caratterizzati dall’esistenza di disoccupazione involontaria, un concetto che di fatto era scomparso dal quadro teorico sia monetarista sia della nuova macroeconomia classica. La NKE si colloca in posizione critica rispetto alla nuova macroeconomia classica, sebbene in genere accetti l’ipotesi di aspettative razionali e l’idea che la macroeconomia debba basarsi su rigorosi fondamenti microeconomici. Le critiche della nuova e. keynesiana si concentrano piuttosto sulle ipotesi della nuova macroeconomia classica concernenti natura e caratteristiche dei mercati. L’ipotesi di mercati sempre in equilibrio con prezzi perfettamente flessibili è rifiutata e l’analisi viene indirizzata verso la ricerca dei fattori che danno vita all’esistenza di mercati caratterizzati da imperfezioni. In altre parole, la nuova e. keynesiana rigetta l’ipotesi di concorrenza perfetta e da ciò deriva la possibilità di ottenere risultati analitici di tipo keynesiano (in particolare la dimostrazione dell’esistenza di equilibri con disoccupazione involontaria).

Anche prima dell’affermarsi del monetarismo e della nuova macroeconomia classica, la spiegazione di equilibri di sottoccupazione si basava sull’esistenza di rigidità dei prezzi e, in particolare, dei salari. Tali rigidità, nell’opinione degli economisti della NKE, erano però semplicemente assunte, piuttosto che spiegate in base a una rigorosa analisi microeconomica. Un filone della nuova e. keynesiana si muove quindi nella prospettiva di fornire spiegazioni soddisfacenti della rigidità di salari e prezzi. La rigidità dei prezzi viene in generale fatta dipendere dal regime di concorrenza imperfetta in cui gli agenti operano.

Nel contesto dell’analisi del mercato del lavoro, un concetto chiave è rappresentato dal NAIRU (non accelerating inflation rate of unemploymentdisoccupazione), il tasso di disoccupazione al quale l’e. non è soggetta a un’accelerazione del tasso di crescita del livello generale dei prezzi. I livelli di reddito e occupazione associati al NAIRU non generano processi inflazionistici poiché, a quel livello di salari monetari e prezzi, né i lavoratori cercheranno di aumentare i salari, né le imprese di aumentare i prezzi. L’esistenza di un NAIRU non esclude la possibilità di avere disoccupazione involontaria.

In un contesto di concorrenza imperfetta è possibile che sul mercato del lavoro si determini un saggio del salario reale superiore a quello che, in concorrenza perfetta, garantirebbe il pieno impiego di tutti i lavoratori. La ricerca si è quindi sviluppata elaborando vari tentativi di spiegare i meccanismi attraverso i quali sul mercato del lavoro si forma un saggio salariale associato a disoccupazione involontaria. Tra le diverse teorie del salario, alcune considerano mercati del lavoro caratterizzati dalla presenza significativa di sindacati; in altre, il sindacato non svolge un ruolo significativo nella determinazione del salario. Per quanto riguarda il primo tipo di modelli, tra i fattori che incidono sulla forza contrattuale relativa di sindacati e datori di lavoro, si considerano il livello di reddito che i lavoratori si attendono di poter ottenere qualora non lavorino presso l’impresa con cui contrattano, il tasso di disoccupazione relativo all’intera e. e la capacità di organizzare scioperi e sopportarne gli effetti nel tempo. Nel secondo tipo di modelli, in cui sono gli imprenditori che fondamentalmente stabiliscono il salario, vanno citate in particolare le teorie del salario d’efficienza, per le quali gli imprenditori sono fortemente incentivati ad accordare un salario più alto di quello che assicurerebbe la piena occupazione, poiché percepiscono una relazione diretta fra produttività del lavoro e livello del salario. Se tale relazione esiste, si può dimostrare che un’impresa massimizza i propri profitti pagando un salario più alto di quello di piena occupazione.

Un altro filone di ricerca della nuova e. keynesiana si concentra su altri aspetti, considerando soprattutto e. caratterizzate da informazione imperfetta e contratti incompleti. In questo contesto, particolare attenzione è dedicata all’analisi del mercato dei capitali, caratterizzato da fenomeni di razionamento del credito. I modelli della nuova e. keynesiana producono generalmente risultati diversi da quelli tipici della nuova macroeconomia classica; in particolare, conducono al rifiuto dell’ipotesi d’inefficacia delle politiche economiche. Le politiche proposte dagli esponenti della nuova e. keynesiana, tuttavia, tengono conto delle critiche monetariste e della nuova macroeconomia classica alle politiche keynesiane ortodosse e s’indirizzano piuttosto a incidere sui fattori di rigidità dei mercati. Tra i più significativi esponenti della nuova e. keynesiana, si citano J.E. Stiglitz, N.G. Mankiw, D.H. Romer, O.J. Blanchard e O.S. d’Arcy Hart. La nuova macroeconomia classica ha tentato di proporre una teoria del ciclo coerente con la sua impostazione generale.

Gli sviluppi della ricerca economica
Teorie del ciclo reale

- Sulla base degli elementi analitici già considerati, e introducendo ulteriori ipotesi specifiche a riguardo del comportamento degli agenti e della struttura dei ritardi temporali, veniva proposta una teoria secondo la quale i cicli economici sono essenzialmente generati da shock inattesi di natura monetaria. Questo approccio è stato denominato equilibrium business cycle theory, poiché si suppone che l’e., pur soggetta a fluttuazioni, sia costantemente in equilibrio. Anche questa impostazione è stata sottoposta a critica, sviluppando una teoria del ciclo che si concentra su fattori di natura reale piuttosto che monetaria. I teorici del ciclo reale (la real business cycle school) hanno sostenuto che i principali shock cui l’e. è soggetta sono di natura reale e, più in particolare, di natura tecnologica. Tali shock, cioè variazioni di natura casuale del tasso di progresso tecnico, producono cambiamenti dei prezzi relativi, ai quali gli agenti razionali rispondono modificando produzione, occupazione e consumi. Se l’e. è sottoposta a ripetuti shock tecnologici di natura temporanea e casuale, essa sarà soggetta a fluttuazioni delle principali variabili macroeconomiche (in particolare, del prodotto interno lordo) di segno positivo o negativo, secondo il tipo di shock subito.

Sebbene le teorie del ciclo reale si differenzino dalle interpretazioni monetarie del ciclo, permangono tuttavia significativi elementi in comune fra queste due impostazioni teoriche. In particolare s’ipotizza, in entrambi i casi, che il sistema economico sia sempre in equilibrio grazie alla perfetta flessibilità dei prezzi e che gli agenti formulino aspettative razionali. Anche in questo contesto, quindi, allontanamenti dell’e. dall’equilibrio possono verificarsi solo a causa di shock esterni inattesi che ‘colgono di sorpresa’ gli agenti. I modelli di ciclo reale, a loro volta, sono stati criticati poiché possono spiegare i cicli solo assumendo il verificarsi di shock tecnologici di segno negativo (fenomeni di regresso tecnologico) che in realtà sono assai poco frequenti. Altre critiche più radicali riguardano infine le ipotesi principali su cui questi modelli si fondano. In particolare, è stata criticata l’ipotesi che tutti i mercati siano costantemente in equilibrio grazie alla piena flessibilità dei prezzi. Tuttavia, al di là delle specifiche interpretazioni dei fenomeni che originano le fluttuazioni del sistema economico, la moderna analisi del ciclo ha subito una generale evoluzione per quanto riguarda la relazione tra fluttuazioni cicliche e crescita. Tradizionalmente le fluttuazioni cicliche erano considerate temporanei allontanamenti del sistema economico dal suo sentiero di crescita di lungo periodo, ritenuto crescente in modo regolare e stabile. Dagli anni 1980, anche grazie all’affinamento delle tecniche econometriche, tende ad affermarsi l’idea che non sia possibile operare una netta distinzione fra ciclo e trend. I dati osservati non rifletterebbero il verificarsi di oscillazioni periodiche intorno a un trend stabile, ma piuttosto variazioni del trend stesso. Pertanto, le analisi del ciclo della crescita non possono essere scisse l’una dall’altra, ma debbono piuttosto integrarsi in un’analisi generale della dinamica economica.

Teoria della crescita endogena

- Anche la teoria della crescita ha fatto registrare interessanti sviluppi, abbandonando la tradizionale ipotesi, risalente agli anni 1950 e 1960, di progresso tecnico esogeno. I modelli di crescita sviluppati nel corso degli anni 1980 e 1990 puntano invece a spiegare la dinamica dell’e. ricorrendo a fattori di natura endogena (➔ crescita economica). La teoria della crescita endogena, pur restando nell’alveo di un’impostazione generale d’ispirazione neoclassica, ripropone, in qualche misura, un approccio alla crescita che caratterizzò gli economisti classici (in particolare A. Smith) e alcuni economisti d’ispirazione keynesiana (in particolare N. Kaldor). Le linee di sviluppo della teoria economica delineate sopra si collocano, in linea di massima, nel cosiddetto mainstream, cioè un approccio alla teoria e all’analisi economica che costituisce il paradigma dominante in seno alla professione.

Postkeynesianesimo

- Esistono tuttavia filoni e posizioni che si caratterizzano per un atteggiamento critico nei confronti di tale paradigma. I cosiddetti economisti postkeynesiani (che sviluppano l’originaria impostazione teorica di Keynes, ritenuta radicalmente alternativa a quella neoclassica) hanno portato avanti una critica radicale tanto del monetarismo e della nuova macroeconomia classica, quanto della nuova e. keynesiana. Tutte queste impostazioni sono considerate inadeguate alla comprensione del funzionamento di un’e. di mercato. I postkeynesiani traggono ispirazione non solo da Keynes, ma anche da coloro che furono i suoi più immediati discepoli e collaboratori (tra cui J. Robinson, R.F. Kahn, N. Kaldor). Su ciò s’innestano poi altre influenze, quali quella di M. Kalecki, a sua volta influenzato dal marxismo, e la critica del marginalismo elaborata da P. Sraffa. L’enfasi posta da Keynes sul problema dell’incertezza e sull’impossibilità di trattarla con le tradizionali tecniche probabilistiche è pienamente condivisa dai postkeynesiani. Nel contesto analitico postkeynesiano, tutte le decisioni economicamente rilevanti sono prese in una situazione d’incertezza. In questo quadro, analisi reale e monetaria sono ritenute inscindibili l’una dall’altra e viene così sviluppata una teoria monetaria della produzione. Il funzionamento del sistema economico non può prescindere dall’esistenza di moneta che, in virtù della sua liquidità, costituisce uno strumento di difesa dall’incertezza, ma è allo stesso tempo causa d’instabilità. Tra i più rappresentativi economisti postkeynesiani si annoverano P. Davidson, H.P. Minsky, L.L. Pasinetti e G.C. Harcourt.

Evoluzionismo

- Un altro filone della teoria economica che può considerarsi eterodosso rispetto al paradigma dominante è quello evoluzionista, che sottolinea le analogie fra evoluzione biologica ed evoluzione sociale, criticando l’e. del mainstream per il suo approccio statico all’analisi dei fenomeni economici. In questo ambito, particolare attenzione viene rivolta ai problemi riguardanti l’innovazione tecnologica e lo sviluppo economico.

Comportamento individuale

- Gli sviluppi dell’e. politica hanno visto un rinnovato interesse per il modus operandi dell’homo oeconomicus. Lo studio del comportamento individuale viene quindi messo al centro dell’analisi, calando l’individuo all’interno di una rete di interazione socioeconomica dove fondamentali sono i segnali informativi che provengono dallo spazio di riferimento dell’individuo. In questo filone possiamo ricondurre i contributi della e. sperimentale che si propone di studiare il comportamento dei soggetti in diverse situazioni economiche, attraverso la creazione di un ambiente microeconomico in miniatura in cui viene simulata, come in ‘laboratorio’, una situazione economica rappresentata in tutti i suoi dettagli. Dalla e. sperimentale è nato un filone che studia il processo cognitivo che il cervello umano implementa nel prendere le decisioni. La replicazione su algoritmi informatici di tale processo è alla base dei modelli neuronali e delle applicazioni all’e. dell’intelligenza artificiale. L’ e. comportamentale (➔ behavioral, economics) si distingue da quest’ultima per l’uso di modelli teorici del comportamento umano; questa disciplina si avvale anche dello studio della diagnostica per immagini (risonanza magnetica) dell’attività cerebrale di un individuo sottoposto a un esperimento simulativo di una situazione di scelta economica. Un ulteriore filone di indagine del comportamento individuale in situazioni di interazione complessa è dato dall’ econofisica. Poiché i fenomeni economici sono il risultato macroscopico dell’interazione di numerosi agenti a livello microscopico, i modelli economici che li analizzano devono riflettere tale caratteristica; prendendo a prestito dalla meccanica dei fluidi, dalla termodinamica e dalla struttura probabilistica della meccanica quantistica, l’econofisica permette di costruire modelli di agenti elementari che si comportano in maniera ‘semplice’ ma la cui interazione sfocia in dinamiche macroeconomiche complesse, caratterizzate da forte dipendenza dai parametri, equilibri multipli e salti di fase.

Mechanism design

- A livello di funzionamento del mercato va ricordato infine il filone mechanism design che studia la ripartizione delle risorse tra le diverse istituzioni e determina eventualmente se è necessario l’intervento dello Stato. Principali fautori di tale teoria sono gli economisti americani L. Hurwicz, E. Maskin e R. Myerson che hanno vinto il Nobel per l’e. nel 2007.

Interventi pubblici nell’economia

Insieme di misure e di azioni poste in essere da poteri pubblici per gestire attività economiche o per regolare imprese e mercati.

Le autorità pubbliche sono sempre intervenute in campo economico, ora in maniera più accentuata - come nel 18° sec. o nella fase che va dalla fine dell’Ottocento a gran parte del Novecento - ora, come nella prima metà del 19° sec., in maniera meno accentuata. Il periodo che si è aperto con l’ultimo ventennio del 20° sec. è caratterizzato da molte trasformazioni. Si sono rafforzati i poteri delle grandi imprese multinazionali, che pongono regole, soprattutto contrattuali, e disciplinano operazioni commerciali e finanziarie di enorme rilievo. Il fatto che la risoluzione delle controversie sia ampiamente affidata all’arbitrato ha inoltre posto in primo piano l’importanza dei ‘regimi privati’ nella disciplina dei fenomeni economici. Ciò, tuttavia, non ha comportato un indebolimento dell’intervento pubblico in campo economico. Gli Stati continuano a giocare un ruolo importante, nonostante le privatizzazioni di imprese pubbliche abbiano in parte ridotto la loro sfera di intervento. La regolazione statale dell’e. si è rinnovata, l’impiego delle misure pubbliche più lesive delle libertà economiche - sovvenzioni, concessioni, autorizzazioni discrezionali – si è ridotto; i processi di liberalizzazione hanno investito diversi settori economici e ha preso corpo una disciplina della concorrenza. Sono inoltre aumentati gli interventi di autorità pubbliche sopranazionali. La Comunità Europea ha assunto un ruolo determinante in numerose materie di rilievo economico, quali l’agricoltura, i servizi pubblici e privati, l’ambiente, gli appalti, i mercati finanziari. Si è diffusa la disciplina internazionale dell’e.: la World trade organization, per es., istituita nel 1994, è ormai un ordinamento giuridico compiuto e disciplina il commercio internazionale di beni e di servizi con accordi che favoriscono la liberalizzazione degli scambi; l’International monetary fund assicura la stabilità finanziaria internazionale attraverso l’erogazione di prestiti a Stati in situazione di crisi, ed esercitando funzioni quali la sorveglianza e la determinazione di standard. Esistono, inoltre, numerosi network transnazionali di autorità nazionali che si occupano di energia, telecomunicazioni, poste, antitrust.

In Italia gli interventi pubblici nell’e. hanno conosciuto sensibili trasformazioni a partire dall’ultimo decennio del 20° secolo. Sono state varate diverse misure di privatizzazione, soprattutto nella prima metà degli anni 1990. La cosiddetta ‘privatizzazione formale’ è consistita nella trasformazione di enti pubblici (Enel, Eni) in società per azioni; la ‘privatizzazione sostanziale’ nel passaggio di mano, totale o parziale, di azioni (Banca commerciale italiana o Enel), da mani pubbliche a mani private. Sono state avviate altre importanti privatizzazioni, per es. quella di Alitalia e quella delle Poste. Sulla scia delle disposizioni della Comunità Europea sono state inoltre introdotte misure di liberalizzazione, più o meno estesa, di alcuni settori economici, come le telecomunicazioni, l’energia elettrica, il gas, i servizi postali, il trasporto aereo e ferroviario. Ciò ha comportato l’apertura di mercati a nuovi operatori economici, l’erosione di alcuni monopoli, il superamento o l’attenuazione dei regimi di prezzi amministrati.

Le politiche di liberalizzazione hanno interessato anche il settore delle libere professioni, per quel che riguarda la rimozione dei vincoli gravanti sulle tariffe, sulla pubblicità, sulle società pluridisciplinari, o quello dei servizi bancari. Sono state istituite diverse autorità – fra le altre, la CONSOB, l'ISVAP, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato – indipendenti dal governo, al fine di garantire interventi nell’e. più qualificati sul piano tecnico e al tempo stesso più neutrali, meno condizionati dal circuito politico. Vi sono state, inoltre, riforme dirette a semplificare le regole e le procedure che incidono sull’attività degli operatori economici, quali le autorizzazioni o le approvazioni necessarie ad avviare un’impresa o ad aprire impianti e stabilimenti industriali. Ciò al fine di incentivare investimenti, di sostenere la crescita economica, di migliorare il grado di competitività degli operatori e del paese.

L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) ha giocato un ruolo importante nel sollecitare gli Stati aderenti ad adottare questo genere di misure e ha più volte ribadito che una regolazione dell’e. meno ingombrante può fungere da fattore che facilita la crescita e lo sviluppo. Nel complesso, dunque, il periodo storico iniziato con gli anni 1980 ha mostrato una persistenza dell’intervento pubblico nell’e., e al contempo variazioni significative rispetto al passato. All’azione dello Stato si è affiancata quella di organismi comunitari e internazionali. In secondo luogo, si è registrato un minore coinvolgimento dei poteri pubblici nella gestione diretta delle imprese. In terzo luogo, la regolazione economica ha guadagnato maggiore autonomia dal governo, privilegiando obiettivi quali l’apertura dei mercati, la promozione e la tutela della concorrenza, la semplificazione delle norme e delle procedure. In controtendenza rispetto a quelle linee, si sono riaffermate politiche protezionistiche in molti paesi. Inoltre, le privatizzazioni hanno conosciuto momenti di flessione, soprattutto nella seconda metà degli anni 1990 e l’apertura di diversi settori economici a nuovi operatori non si è sempre tradotta in un aumento della concorrenza. Le semplificazioni non sono riuscite a superare l’eccesso di norme e di procedure e i governi talora tendono a diminuire la sfera della regolazione indipendente.

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