Economia

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Economia

Claudio Sardoni

I temi generali dell'e. hanno ricevuto un'ampia esposizione nel XIII vol. dell'Enciclopedia Italiana nella voce economia politica, in cui è tracciato il profilo delle correnti classiche e marginaliste. Nell'App. I ampio spazio viene dedicato alle crisi economiche (p. 486) dopo la caduta di Wall Street del 1929 e alle nuove forme di organizzazione pianificata dell'e. nella voce economia programmatica (p. 536). La teoria keynesiana, affermatasi negli anni Quaranta, è stata invece trattata in maniera assai capillare in numerose voci. Tra queste si vedano, in particolare, i lemmi interesse (App. III, i, p. 887), consumo (App. IV, i, p. 513) e domanda (App. IV, i, p. 607) che assumono centralità non solo nel pensiero di Keynes, ma in tutta la successiva macroeconomia moderna. Per quanto riguarda poi l'evoluzione che quest'ultima ha fatto registrare a partire dagli anni Cinquanta, è utile il rinvio alla voce sviluppo economico nell'App. III (ii, p. 880), ripresa poi nell'App. IV (iii, p. 526), e alla voce analisi economica (App. IV, i, p. 123). Negli anni Cinquanta e Sessanta è sorto un vivace dibattito teorico che ha avuto importanti ripercussioni sugli orientamenti di politica economica. Una sintesi delle varie posizioni emerse in questo periodo è riportata nelle voci ciclo economico (App. III, i, p. 371) e benessere (App. III, i, p. 219, ripresa poi nell'App. IV, i, p. 248). È necessario ricordare, inoltre, che gli sviluppi più significativi della moderna teoria economica hanno avuto origine dalla progressiva affermazione dei metodi quantitativi applicati all'analisi dei fenomeni economici. L'evoluzione degli strumenti matematici utilizzati per queste metodologie può essere ripercorsa nelle voci dell'App. IV programmazione economica (iii, p. 63), programmazione lineare (iii, p. 67) e programmazione non lineare (iii, p. 70) e nella voce modellistica matematica di questa Appendice. Questi stessi strumenti sono inoltre alla base degli importanti studi sui modelli 'input-output', per i quali si può fare riferimento alle voci interdipendenze strutturali (App. III, i, p. 886) e interdipendenze settoriali (App. V, ii, p. 743). Nell'ambito dei metodi quantitativi, un capitolo a parte spetta ai modelli utilizzati a fini di verifica, previsione e valutazione delle scelte di politica economica, trattati inizialmente sotto la voce dinamica economica (App. II, i, p. 785) e ripresi successivamente nella voce econometria sia nell'App. III (i, p. 56), sia nell'App. V (ii, p. 620). Infine, la svolta monetarista verificatasi alla fine degli anni Settanta e le correnti di pensiero fortemente critiche nei confronti dell'orientamento interventista implicito nelle politiche keynesiane sono state trattate nelle voci monetarismo (App. IV, ii, p. 499, ripresa poi nell'App. V, iii, p. 534) e aspettative (App. V, i, p. 235). *

Teoria economica

di Claudio Sardoni

Un aspetto saliente della moderna teoria economica è la crescente integrazione tra macro- e microeconomia. Sempre più, i modelli macroeconomici fanno affidamento sulla costruzione di 'solidi fondamenti microeconomici'; vale a dire su di un'analisi dettagliata e rigorosa dei comportamenti degli agenti individuali, siano essi le famiglie o le imprese. In tal senso, la macroeconomia mutua dalla microeconomia alcuni dei risultati analitici da essa realizzati nel più recente passato o, più in generale, nella seconda metà del 20° secolo. Tradizionalmente, l'analisi microeconomica - e, soprattutto, la teoria dell'equilibrio economico generale - si è caratterizzata per un livello di formalizzazione assai più elevato di quello della macroeconomia. In particolare, in tempi più recenti la microeconomia è andata sviluppandosi adottando in maniera sempre più estesa strumenti matematici anche molto avanzati, soprattutto in quei campi di ricerca dove si affrontano i problemi della dinamica, dell'incertezza e dell'informazione, del comportamento strategico delle imprese in regimi di mercati non perfettamente concorrenziali. Alcuni di questi temi, di difficile trattazione a un livello non specialistico, verranno qui considerati da una prospettiva di natura macroeconomica, essendo essi stati ripresi e applicati nell'analisi aggregata del sistema economico. Altre linee di ricerca tipicamente microeconomiche saranno prese in esame considerando gli sviluppi più recenti della teoria dell'impresa (v. impresa, in questa Appendice).

Dalla 'sintesi neoclassica' alla 'nuova macroeconomia classica': il problema dei fondamenti microeconomici. - Così come gli anni che vanno dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine degli anni Sessanta furono indubbiamente dominati dalla macroeconomia keynesiana (nota in letteratura con il nome di sintesi neoclassica, SNC), gli anni Settanta e Ottanta sono stati dominati dalla nuova macroeconomia classica (NMC) che, in larga misura, si afferma come naturale sviluppo del monetarismo.

Per il suo tentativo di conciliare un impianto teorico di fondo neoclassico con i risultati dell'analisi macroeconomica di Keynes, la macroeconomia keynesiana del secondo dopoguerra è stata denominata 'sintesi neoclassica'. L'origine della sintesi neoclassica viene di solito fatta risalire al famoso articolo di J.R. Hicks, Mr. Keynes and the 'Classics' (1937), che si propone di mettere in evidenza gli elementi di continuità fra la tradizione neoclassica e Keynes. Per Hicks, il 'caso keynesiano' era un caso particolare di quello più generale neoclassico. Il modello di Hicks, noto come modello IS-LM (Investment Saving-Liquidity Money), fu ulteriormente sviluppato da vari economisti (particolarmente significativo è il contributo di F. Modigliani del 1944) e ben presto divenne il principale schema analitico di riferimento per interpretare i fenomeni macroeconomici e per formulare le politiche economiche. Nel contesto teorico della sintesi neoclassica, la disoccupazione involontaria è spiegata in base all'esistenza di rigidità dei salari e/o del tasso d'interesse. La rigidità verso il basso dei salari impedisce che le imprese esercitino una domanda di lavoro tale da consentire la piena occupazione; la rigidità del tasso d'interesse impedisce che esso scenda a un livello tale da assicurare il volume di investimenti necessario per realizzare il reddito di piena occupazione. L'esistenza di rigidità costituisce una 'imperfezione' nel meccanismo di funzionamento dei mercati. La spiegazione della disoccupazione fornita dalla sintesi neoclassica è in ultima analisi analoga a quella prekeynesiana; però, a differenza del marginalismo prekeynesiano, gli economisti della sintesi neoclassica ritenevano che le esistenti rigidità non fossero facilmente e rapidamente eliminabili. Da qui deriva la necessità di politiche macroeconomiche finalizzate a determinare più elevati livelli d'occupazione.

Il modello IS-LM della sintesi neoclassica è un modello aggregato d'equilibrio economico generale d'ispirazione walrasiana che produce risultati non ottimali a causa di rigidità. Le critiche che hanno condotto alla perdita di egemonia della sintesi neoclassica si sono concentrate in gran parte proprio sulla difficoltà di conciliare l'apparato teorico walrasiano con i cosiddetti risultati keynesiani. Più precisamente, la difficoltà di conciliare i comportamenti ottimizzanti ipotizzati a livello microeconomico con i risultati subottimali realizzati a livello macro. Le prime critiche della sintesi neoclassica provengono dal monetarismo, che reintroduce una moderna versione della teoria quantitativa della moneta. Nell'analisi monetarista, condotta sotto ipotesi di comportamento individuale tipiche della microeconomia neoclassica, sono le variazioni della quantità di moneta e non gli impulsi di natura reale che essenzialmente spiegano le variazioni del reddito nominale. Di conseguenza, l'analisi monetarista si concentra sulle politiche monetarie piuttosto che su quelle fiscali. L'offerta di moneta deve crescere a un tasso compatibile con il tasso di crescita del prodotto reale al fine di garantire la stabilità del livello generale dei prezzi. L'altra importante critica monetarista concerne la cosiddetta curva di Phillips e il problema delle aspettative. La curva di Phillips, che instaura una relazione inversa fra tasso di disoccupazione e tasso d'inflazione, era lo strumento analitico tipicamente impiegato dai keynesiani per spiegare le variazioni del livello generale dei prezzi e il cosiddetto trade off fra occupazione e inflazione. Il governo può intervenire con misure di politica economica per ridurre la disoccupazione, ma ciò ha un 'prezzo', vale a dire un più elevato tasso d'inflazione. Il meccanismo inflazionistico funzionerebbe così: la maggiore domanda generata dall'intervento pubblico fa crescere produzione e occupazione, ma anche i prezzi dei beni e, sebbene più lentamente, i salari monetari; di conseguenza i salari reali diminuiscono. Così, come nell'analisi prekeynesiana, un più elevato livello d'occupazione è associato a un più basso salario reale.

Il monetarismo critica questo meccanismo perché lo ritiene privo di solidi fondamenti microeconomici. Si supponga che l'e. si trovi inizialmente a un certo tasso di disoccupazione associato a un tasso d'inflazione nullo e che il governo intervenga con una politica monetaria espansiva per ridurre la disoccupazione. Ciò, come abbiamo visto, produce un incremento della domanda aggregata e fa ridurre i salari reali. Ma i lavoratori sono interessati al salario reale (che valutano in base alle loro aspettative d'inflazione) e, se ne accettano la riduzione prodotta dalla politica espansiva, è solo perché sono 'ingannati': venendo da una fase di stabilità dei prezzi, sono indotti ad attendersi ancora un tasso d'inflazione nullo e a offrire più lavoro, facendo così crescere l'occupazione. Tale situazione tuttavia non è stabile: quando i salariati comprenderanno che, in realtà, il loro salario reale è diminuito a causa della più elevata inflazione (inattesa), essi modificheranno le loro aspettative e vorranno ricontrattare salari monetari più alti. Ciò produce prezzi più elevati e una riduzione dell'occupazione (al salario più alto le imprese non sono più disposte a occupare tutto il lavoro precedentemente domandato). Questa 'spirale' giunge a termine solo quando i lavoratori non si attendono un'inflazione più elevata e, quindi, non domandano salari nominali più elevati. Esiste un solo punto in cui è razionale attendersi un tasso d'inflazione nullo: il livello iniziale di disoccupazione. Pertanto, nel lungo periodo, l'e. torna al suo livello iniziale di disoccupazione (chiamato tasso naturale di disoccupazione) malgrado il tentativo di ridurla. L'intervento pubblico ha prodotto soltanto un più alto livello generale dei prezzi.

Le conseguenze in termini di politica economica sono radicali. Esiste un livello 'naturale' di disoccupazione, che è quello che si determina in base allo spontaneo funzionamento del mercato; non è possibile modificare questa disoccupazione naturale con le politiche macroeconomiche, che producono un risultato positivo in termini d'occupazione solo nel breve periodo (fino a che i lavoratori non si accorgono di essere stati 'ingannati'). Tali politiche, tuttavia, producono sempre il risultato negativo di una più elevata inflazione (per un'illustrazione della posizione monetarista, si veda, per es., Friedman 1956 e 1968).

Il 'ritorno' alla teoria prekeynesiana, iniziato con il monetarismo, si conclude con l'avvento della nuova macroeconomia classica, i cui rappresentanti più significativi sono R.E. Lucas e T.J. Sargent (Lucas, Sargent 1979). La nuova macroeconomia classica adotta l'ipotesi di aspettative razionali (v. aspettative, App. V) e rigetta ogni ipotesi di rigidità, assumendo che tutti i mercati sono sempre in equilibrio grazie alla perfetta flessibilità dei prezzi. L'ipotesi di aspettative razionali implica che gli agenti conoscano il 'vero' modello dell'e., siano cioè in grado, per es., di anticipare correttamente e pienamente gli effetti inflazionistici di una politica monetaria espansiva. Su questa base è stata criticata e sviluppata l'interpretazione monetarista della curva di Phillips: i lavoratori anticipano correttamente gli effetti inflazionistici della politica espansiva e, pertanto, non sono 'ingannati' nemmeno temporaneamente. Anche nel breve periodo, l'effetto di una politica monetaria espansiva è esclusivamente un più elevato tasso d'inflazione. Ciò equivale a dire che l'e. resta continuamente al suo tasso naturale di disoccupazione, anche se varia il livello generale dei prezzi a causa dell'intervento pubblico.

In questo contesto teorico, la politica economica può produrre effetti reali solo se 'coglie di sorpresa' gli agenti. Un aumento della domanda aggregata (generata di norma da variazioni inattese dell'offerta di moneta) non anticipata dagli agenti genera 'errori': le imprese scambiano l'aumento del livello generale dei prezzi (indotto dall'aumento dell'offerta di moneta) per un aumento dei loro prezzi relativi e, razionalmente, aumentano l'offerta di beni e la domanda di lavoro. I lavoratori, a loro volta, offrono una maggiore quantità di lavoro perché scambiano l'aumento dei salari nominali (derivante dall'aumentata domanda di lavoro) per un aumento dei salari reali. Di conseguenza, sia l'output aggregato sia il livello d'occupazione salgono e si allontanano dal loro precedente livello 'naturale' d'equilibrio di lungo periodo. Ciò, tuttavia, dura fintantoché gli agenti non realizzano di aver commesso un 'errore' in quanto né i prezzi relativi né il salario reale sono mutati. Deviazioni dell'e. dalla sua posizione naturale avvengono solo in seguito al verificarsi di 'disturbi' (shock) casuali e, quindi, non anticipabili dagli agenti.

Le implicazioni di politica economica sono evidentemente ancor più radicali di quelle monetariste. Politiche espansive che siano annunciate dalle autorità sono del tutto inefficaci in termini reali anche nel breve periodo. Politiche che colgano gli agenti di sorpresa per la loro casualità possono produrre effetti reali solo temporanei. Su queste basi la nuova macroeconomia classica (Lucas 1976) ha sviluppato anche una critica profonda dei tradizionali modelli econometrici usati per prevedere e valutare gli effetti delle politiche economiche. Tali modelli, costruiti sull'ipotesi di parametri stabili, sono incapaci di cogliere il cambiamento nei comportamenti degli agenti indotto proprio dagli interventi di politica e, quindi, forniscono indicazioni fuorvianti.

La New Keynesian Economics

Negli anni Novanta, la nuova macroeconomia classica ha perso parte del suo precedente potere egemonico e si è andata affermando una corrente di pensiero che si richiama nuovamente a Keynes, la New Keynesian Economics (NKE), e rivendica la validità di alcuni 'risultati keynesiani', in particolare la possibilità che si realizzino equilibri caratterizzati dall'esistenza di disoccupazione involontaria, un concetto che di fatto era scomparso dal quadro teorico sia monetarista sia della nuova macroeconomia classica.

La nuova economia keynesiana si colloca in posizione critica rispetto alla nuova macroeconomia classica, sebbene in genere accetti l'ipotesi di aspettative razionali e l'idea che la macroeconomia debba basarsi su rigorosi fondamenti microeconomici. Le critiche della nuova economia keynesiana si concentrano piuttosto sull'ipotesi della nuova macroeconomia classica concernente natura e caratteristiche dei mercati. L'ipotesi di mercati sempre in equilibrio con prezzi perfettamente flessibili è rifiutata e l'analisi viene indirizzata verso la ricerca dei fattori che danno vita all'esistenza di mercati caratterizzati da imperfezioni. In altre parole, la nuova economia keynesiana rigetta l'ipotesi di concorrenza perfetta e da ciò deriva la possibilità di ottenere risultati analitici di tipo keynesiano (in particolare la dimostrazione dell'esistenza di equilibri con disoccupazione involontaria).

Come abbiamo visto, nell'approccio degli economisti keynesiani degli anni Cinquanta e Sessanta, la spiegazione di equilibri di sottoccupazione si basava fondamentalmente sull'esistenza di rigidità dei prezzi e, in particolare, dei salari. Tali rigidità, nell'opinione degli economisti della nuova economia keynesiana, erano però semplicemente assunte piuttosto che spiegate in base a una rigorosa analisi microeconomica. Un filone della nuova economia keynesiana si muove quindi nella prospettiva di fornire spiegazioni soddisfacenti della rigidità di salari e prezzi, considerando sia rigidità di carattere nominale sia di carattere reale. La rigidità dei prezzi viene in generale fatta dipendere dal fatto che gli agenti operano in regime di concorrenza imperfetta. Per quanto riguarda la rigidità salariale in particolare, sono state offerte varie spiegazioni tra cui il tipo di contratti di lavoro stipulati, la logica di comportamento di imprese e lavoratori in condizioni d'informazione imperfetta, il ruolo dei sindacati.

Nel contesto dell'analisi del mercato del lavoro, un concetto chiave è il NAIRU (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione al quale l'e. non è soggetta a un'accelerazione del tasso di crescita del livello generale dei prezzi. L'esistenza di un NAIRU non esclude la possibilità di avere disoccupazione involontaria. In un contesto di concorrenza imperfetta, è possibile che sul mercato del lavoro si determini un saggio del salario reale superiore a quello che, in concorrenza perfetta, garantirebbe il pieno impiego di tutti i lavoratori. Il livello del saggio salariale associato a questo tasso di disoccupazione è non inflazionistico: né i lavoratori occupati né le imprese cercheranno di aumentare i propri redditi reali attraverso tentativi di aumento dei salari monetari o di aumento dei prezzi dei beni.

La ricerca si è quindi sviluppata in vari tentativi di spiegare i meccanismi attraverso i quali sul mercato del lavoro si forma un saggio salariale che si associa a disoccupazione involontaria. Tra le diverse teorie del salario, alcune considerano mercati del lavoro caratterizzati dalla presenza significativa di sindacati, mentre altre non ritengono rilevante il ruolo del sindacato nella determinazione del salario. Nei modelli con sindacato più diffusi, detti modelli 'diritto a dirigere' (right to manage), si assume che il sindacato si occupi soltanto di determinare (normalmente attraverso la contrattazione con i datori di lavoro) il salario reale, lasciando alle imprese le decisioni concernenti il livello d'occupazione. Tali modelli producono risultati caratterizzati da un salario d'equilibrio diverso da quello che risulterebbe dall'intersezione di domanda e offerta di lavoro in condizioni di concorrenza perfetta. Tra i fattori che incidono più significativamente sulla forza contrattuale relativa di sindacati e datori di lavoro, si considerano il livello di reddito che i lavoratori si attendono di poter ottenere qualora non lavorino presso l'impresa con cui contrattano, il tasso di disoccupazione relativo all'intera e. e la capacità di organizzare scioperi e sopportarne gli effetti nel tempo. I redditi che i lavoratori si attendono al di fuori dell'impresa, detti anche redditi 'esterni' o 'salario di riserva', sono costituiti dagli eventuali sussidi di disoccupazione e dai redditi che i lavoratori potrebbero ottenere trovando un'occupazione in un'impresa diversa da quella con cui avviene la contrattazione.

Tra le teorie del salario in cui sono gli imprenditori che fondamentalmente stabiliscono il salario, vanno citate le teorie del 'salario d'efficienza', quelle basate sul costo di turnover del lavoro e quelle che danno importanza prevalente ad aspetti di tipo informativo. Per le teorie del salario d'efficienza, gli imprenditori sono fortemente incentivati ad accordare un salario più alto di quello che assicurerebbe la piena occupazione, poiché percepiscono una relazione diretta fra produttività del lavoro e livello del salario. Se tale relazione esiste, si può dimostrare che un'impresa massimizza i propri profitti pagando un salario più alto di quello di piena occupazione. Le teorie basate sui costi di turnover sottolineano il fatto che l'assunzione di lavoratori da parte di un'impresa è normalmente associata a costi d'addestramento. Pertanto l'impresa realizza perdite qualora un lavoratore da essa addestrato abbandoni il suo posto. Per questa ragione l'impresa è indotta a pagare salari più elevati per disincentivare un elevato turnover dei suoi dipendenti. Le teorie basate su problemi informativi si concentrano sulla questione del controllo della diligenza dei lavoratori nello svolgere le proprie mansioni. Controlli capillari e continui del comportamento di tutti i lavoratori da parte dell'impresa sono molto costosi e virtualmente impossibili. Di qui l'ipotesi che le imprese siano disposte a pagare salari più elevati per incentivare i dipendenti ad applicarsi sul lavoro. In altre parole, le imprese elevano la perdita che un lavoratore 'pigro' subirebbe nel caso fosse sorpreso a lavorare in modo insoddisfacente e, quindi, fosse licenziato. Sul NAIRU e sulle varie teorie del salario, si vedano, in particolare, Carlin, Soskice 1990; Layard, Nickell, Jackman 1991.

Un altro filone di ricerca della nuova economia keynesiana si concentra soprattutto su un'analisi più generale della flessibilità dei prezzi, riprendendo e rielaborando un'idea di Keynes secondo cui la piena flessibilità di prezzi e salari può rendere più instabile l'e. piuttosto che rappresentare la cura contro la disoccupazione. Questa classe di modelli (Greenwald, Stiglitz 1993; Stiglitz 1992) considera economie con informazione imperfetta e contratti incompleti, prestando particolare attenzione al mercato dei capitali caratterizzato da fenomeni di razionamento del credito. I modelli della nuova economia keynesiana producono generalmente risultati diversi da quelli tipici della nuova macroeconomia classica; in particolare, conducono al rifiuto dell'ipotesi d'inefficacia delle politiche economiche. Le politiche proposte dagli esponenti della nuova economia keynesiana, tuttavia, tengono conto delle critiche monetariste e della nuova macroeconomia classica alle politiche keynesiane ortodosse e s'indirizzano piuttosto a incidere sui fattori di rigidità dei mercati. Per questo, l'affermarsi della nuova economia keynesiana non può essere interpretato come un 'ritorno' alla macroeconomia keynesiana del dopoguerra né all'originaria teoria di Keynes. Tra i più significativi esponenti della nuova economia keynesiana, si citano J. Stiglitz, G. Mankiw, D. Romer, O.J. Blanchard e O. Hart. Un'esauriente raccolta di lavori rappresentativi di quest'orientamento si trova nel testo curato da Mankiw e Romer pubblicato nel 1991 (v. anche Mankiw, Romer et al. 1993; Lindbeck 1998).

L'economia postkeynesiana

L'originaria impostazione teorica di Keynes è difesa e sviluppata dai cosiddetti economisti postkeynesiani, che hanno portato avanti una critica radicale tanto della sintesi neoclassica quanto del monetarismo, della nuova macroeconomia classica e della nuova economia keynesiana, tutte impostazioni teoriche ritenute inadeguate alla comprensione del funzionamento di un'e. di mercato. I postkeynesiani costituiscono una corrente di pensiero che trae ispirazione non solo dal contributo teorico di Keynes, ma anche dai suoi più immediati discepoli e collaboratori (tra cui J. Robinson, R. Kahn, N. Kaldor). Su ciò s'innestano poi altre influenze quali quella di M. Kalecki, a sua volta significativamente influenzato dal marxismo, e la critica sraffiana del marginalismo.

L'originaria teoria di Keynes ruotava intorno al principio della domanda effettiva: un aumento del livello d'occupazione crea un aumento di produzione e reddito; l'aumento di reddito, a sua volta, determina un aumento della domanda di beni di consumo da parte delle famiglie che lo percepiscono, ma l'aumento di consumo è minore dell'aumento di reddito, poiché parte del reddito è risparmiata. Pertanto, affinché l'intero prodotto possa essere venduto, è necessario che esista una fonte addizionale di domanda; in un'e. semplificata tale fonte di domanda è l'investimento. Perché si abbia l'uguaglianza tra offerta aggregata e domanda aggregata deve essere vero che l'investimento aggregato è uguale al risparmio aggregato. Quanto del reddito aggregato è risparmiato dipende fondamentalmente dalle decisioni delle famiglie; quanto s'investe dipende dalle decisioni delle imprese. Più precisamente, l'investimento dipende dalle aspettative di profitto delle imprese e dal tasso d'interesse. Esiste un solo livello d'investimento al quale la domanda aggregata (consumo più investimento) uguaglia l'offerta aggregata, cioè il reddito è in equilibrio, e non vi è alcuna ragione per cui questo livello di reddito sia associato alla piena occupazione del lavoro e dell'esistente capacità produttiva. In particolare, Keynes riteneva assai probabile che la propensione a investire delle imprese fosse tale da tenere l'e. in una posizione d'equilibrio al di sotto del pieno impiego.

I due fattori fondamentali che determinano l'investimento sono entrambi influenzati dal fatto che i concreti sistemi economici operano in regime d'incertezza. L'investimento è una spesa fatta oggi in vista di profitti lontani nel tempo (a differenza di quanto avviene per le spese correnti di produzione) e il futuro non è conoscibile con certezza. In tale contesto, le imprese possono ritenere razionale decidere di non investire e detenere invece attività liquide come la moneta. La moneta è una difesa contro l'incertezza: detenere moneta dà la possibilità di convertire le proprie attività in qualsivoglia forma in ogni momento. Se queste attività sono invece immobilizzate compiendo un investimento, la possibilità di convertirle è minore e certamente costosa (si può non essere in grado di vendere soddisfacentemente il bene immobile e comunque questa transazione comporta dei costi). Ma l'esistenza di moneta è allo stesso tempo il fattore che crea disoccupazione: se si domanda moneta invece di beni, non si produce e non si occupa lavoro. La moneta non è un bene prodotto come gli altri.

L'enfasi posta da Keynes sul problema dell'incertezza e sull'impossibilità di trattarla con le tradizionali tecniche probabilistiche ha avuto scarso rilievo nell'approccio della sintesi neoclassica, ma è pienamente condivisa dai postkeynesiani che, in generale, sottolineano il carattere innovativo e rivoluzionario della teoria di Keynes, esaltando gli elementi di rottura piuttosto che quelli di continuità con la tradizione precedente. Nel contesto analitico postkeynesiano, tutte le decisioni economicamente rilevanti sono prese in un contesto d'incertezza. In questo quadro, analisi reale e monetaria sono ritenute inscindibili l'una dall'altra e viene così sviluppata una teoria monetaria della produzione. Il funzionamento del sistema economico non può prescindere dall'esistenza di moneta che, in virtù della sua liquidità, costituisce uno strumento di difesa dall'incertezza, ma è allo stesso tempo causa d'instabilità.

Altri economisti postkeynesiani hanno una posizione più critica nei confronti di Keynes e traggono ispirazione soprattutto da Kalecki, la cui analisi del principio della domanda effettiva è spesso ritenuta superiore a quella keynesiana. In particolare, questi economisti, seguendo Kalecki, sviluppano l'analisi aggregata in un contesto caratterizzato da forme di mercato non concorrenziali (oligopolistiche), dove in particolare le imprese hanno un significativo potere di mercato e capacità di fissare i prezzi. Infine, la critica sraffiana del marginalismo è stata sposata da alcuni postkeynesiani, che la considerano fondamentale per lo smantellamento dei presupposti su cui si regge la teoria economica prevalente.

Tra i più rappresentativi economisti postkeynesiani contemporanei possiamo annoverare P. Davidson (1994) e H.P. Minsky (1982), che hanno prestato particolare attenzione all'analisi monetaria e al problema dell'incertezza; L.L. Pasinetti (1993), che sin dagli anni Sessanta ha sviluppato modelli postkeynesiani di crescita e distribuzione; G.C. Harcourt (1995) che, affrontando molte delle tipiche tematiche postkeynesiane, è riuscito forse più di tutti a combinare ed equilibrare le diverse fonti d'ispirazione.

Ciclo e crescita

Lucas (1975), criticando Keynes, lo aveva in particolare rimproverato di avere 'distratto' l'analisi economica dal problema dei cicli per concentrarsi sulla questione della domanda effettiva. La nuova macroeconomia classica ha così tentato di proporre una teoria del ciclo coerente con la sua impostazione generale. Sulla base degli elementi analitici già considerati, e introducendo ulteriori ipotesi specifiche a riguardo del comportamento degli agenti e della struttura dei ritardi temporali, la nuova macroeconomia classica propone una teoria secondo cui i cicli economici sono essenzialmente generati da shock inattesi di natura monetaria. Quest'approccio è stato denominato Equilibrium business cycle theory, poiché si suppone che l'e., pur soggetta a fluttuazioni, sia costantemente in equilibrio.

La risposta all'approccio della nuova macroeconomia classica è stato lo sviluppo di una teoria del ciclo che si concentra su fattori di natura reale piuttosto che monetaria (Plosser 1989; Kydland, Prescott 1990). I teorici del ciclo reale (la cosiddetta Real business cycle school) hanno sostenuto che i principali shock cui l'e. è soggetta sono di natura reale e, più in particolare, di natura tecnologica. Tali shock, cioè variazioni di natura 'casuale' del tasso di progresso tecnico, producono cambiamenti dei prezzi relativi ai quali gli agenti razionali rispondono modificando produzione, occupazione e consumi. Se l'e. è sottoposta a ripetuti shock tecnologici di natura temporanea e casuale, essa sarà soggetta a fluttuazioni delle principali variabili macroeconomiche (in particolare del prodotto interno lordo) di segno positivo o negativo secondo il tipo di shock subito.

Sebbene le teorie del ciclo reale si differenzino dalle interpretazioni monetarie del ciclo, permangono tuttavia significativi elementi in comune fra queste due impostazioni teoriche. In particolare, s'ipotizza in entrambi i casi che il sistema economico sia sempre in equilibrio grazie alla perfetta flessibilità dei prezzi e che gli agenti formulino aspettative razionali (cioè che sfruttino in modo efficiente tutte le informazioni disponibili). In tale contesto, allontanamenti dell'e. dall'equilibrio possono verificarsi solo a causa di shock esterni inattesi (in quanto casuali) che 'colgono di sorpresa' gli agenti.

I modelli di ciclo reale sono stati criticati, in particolare, in quanto possono spiegare i cicli solo assumendo il verificarsi di shock tecnologici di segno negativo (fenomeni di regresso tecnologico) che in realtà sono assai poco frequenti (Mankiw 1989). Altre critiche più radicali riguardano infine le ipotesi di fondo su cui i modelli di ciclo reale (così come quelli della nuova macroeconomia classica) si fondano. In particolare è stata criticata l'ipotesi che tutti i mercati siano costantemente in equilibrio grazie alla piena flessibilità dei prezzi.

Al di là delle specifiche interpretazioni dei fenomeni che originano le fluttuazioni del sistema economico, la moderna analisi del ciclo ha subito una generale evoluzione per quanto riguarda la relazione fra fluttuazioni cicliche e crescita. Tradizionalmente, le fluttuazioni cicliche erano considerate temporanei allontanamenti del sistema economico dal suo sentiero di crescita di lungo periodo, ritenuto crescente in modo regolare e stabile. Dagli anni Ottanta - anche grazie all'affinamento delle tecniche econometriche - tende ad affermarsi l'idea che non sia possibile operare una netta distinzione fra ciclo e trend. I dati osservati non rifletterebbero il verificarsi di oscillazioni periodiche intorno a un trend stabile, ma piuttosto variazioni del trend stesso. Pertanto le analisi del ciclo e della crescita non possono essere scisse l'una dall'altra ma debbono piuttosto integrarsi in un'analisi generale della dinamica economica.

Anche la teoria della crescita ha fatto registrare interessanti sviluppi. Nei modelli neoclassici degli anni Cinquanta e Sessanta il tasso di crescita del prodotto lordo pro capite era fondamentalmente spiegato dal progresso tecnico che, a sua volta, era considerato esogenamente dato, cioè non spiegato da altre variabili del modello. I modelli di crescita sviluppati nel corso degli anni Ottanta e Novanta puntano invece a spiegare la dinamica dell'e. ricorrendo a fattori di natura endogena; questi modelli sono infatti denominati modelli di crescita endogena.

Sulla base della teoria neoclassica della crescita degli anni Sessanta e Settanta, ci si dovrebbe attendere che nel lungo periodo i tassi di crescita di tutti i paesi tendano a convergere. Infatti, essendo il progresso tecnico esogeno, tutti i paesi godrebbero uniformemente dei suoi benefici. D'altro canto, eventuali iniziali differenze fra i vari paesi sarebbero eliminate in quanto si può dimostrare che i paesi con un più basso livello di capitale pro capite crescono più velocemente di quelli con un più elevato livello di capitale pro capite. Tale convergenza però non si verifica nei fatti e semmai si assiste a una tendenziale crescita del divario fra paesi. Proprio questa discrepanza fra teoria e realtà ha contribuito allo sviluppo dei modelli di crescita endogena (v. anche scambi internazionali, App. V).

In questa classe di modelli, tra cui citiamo Romer (1986) e Lucas (1988), il tasso di crescita del prodotto pro capite dipende da variabili endogene, cioè variabili il cui andamento è spiegato in seno al modello. Tra le variabili che spiegano la crescita del sistema economico, particolare attenzione è stata dedicata al capitale umano, alla spesa pubblica e alle politiche economiche, alla specializzazione produttiva a livello internazionale. In questi modelli la convergenza dei tassi di crescita non è più necessariamente vera.

I vari fattori che spiegano la crescita possono non essere liberamente trasferibili da un paese all'altro. Per es., per quanto riguarda il capitale umano, la quantità di esso impiegata nella produzione è una variabile endogena, in quanto dipende dalle decisioni prese dagli individui su quante risorse dedicare alla formazione di capitale umano. Nei modelli che considerano come fattore fondamentale di sviluppo il progresso tecnico, esso non è considerato esogenamente dato ma dipendente dal tasso di accumulazione, in quanto si suppone che il veicolo attraverso il quale le imprese introducono innovazioni tecnologiche sia l'investimento in beni capitali. Fattori come il capitale umano potrebbero non essere liberamente trasferibili da un paese all'altro, oppure la specializzazione di un paese nella produzione di alcuni beni potrebbe determinare un più alto o più basso tasso di crescita, a seconda che la produzione di quei beni induca un maggiore o minore grado di progresso tecnico incorporato nei mezzi di produzione.

I modelli di crescita endogena hanno rappresentato un avanzamento rispetto ai tradizionali modelli prevalenti fino agli anni Settanta. È tuttavia in qualche modo paradossale che la teoria della crescita endogena, pur restando nell'alveo di un'impostazione generale di ispirazione neoclassica, riproponga un approccio alla crescita che è da sempre proprio di posizioni alternative e fortemente critiche dell'e. neoclassica. Gli economisti che s'ispirano ai classici (in particolare ad A. Smith) e quelli d'ispirazione postkeynesiana (Kaldor 1957) hanno sempre affrontato il problema della dinamica economica sulla base di modelli in cui la crescita è spiegata endogenamente. Un'utile rassegna che pone a confronto teorie vecchie e nuove della crescita è presente nel saggio di F. Targetti pubblicato nel 1993.

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