Ecumenismo

Enciclopedia delle Scienze Sociali I Supplemento (2001)

Ecumenismo

Giovanni Filoramo

Origine del termine

Il termine 'ecumenismo' proviene dal greco oikoumene, participio passivo del verbo oikein 'abitare'. Normalmente oikoumene sottintende ge 'terra': il termine indica dunque l'insieme della terra abitata. Si tratta di un termine attestato già nel greco classico. Nel corso del IV secolo d.C., a partire dal concilio di Nicea del 325, in ambito cristiano emerge un significato nuovo, collegato alle decisioni dei concili 'ecumenici'. Grazie anche alla protezione imperiale, essi ambiscono ad avere validità ecumenica cioè validità universale sia nell'ambito ecclesiastico sia in quello politico, secondo un intreccio tra politico ed ecclesiastico che sarà caratteristico anche del moderno ecumenismo. Nel VI secolo il patriarcato di Costantinopoli, per contrapporsi al primato della Chiesa 'cattolica' di Roma, si attribuisce il titolo di 'ecumenico'; in seguito, anche in conseguenza della rottura dell'unità tra Chiesa d'Oriente e Chiesa cattolico-romana d'Occidente, il termine perse d'importanza. Occorrerà in sostanza attendere il XIX secolo perché esso ritorni in auge, ma con accenti nuovi: nell'ambito di certi raggruppamenti protestanti come l'Alleanza Evangelica, ecumenismo indica ora l'esigenza di superare i confini esistenti tra nazioni, confessioni, razze, classi. Nel corso del Novecento, infine, l'espressione 'movimento ecumenico' si afferma per indicare il processo di unione tra le varie Chiese cristiane, sia sul piano organizzativo sia sul piano della prassi liturgica e del patrimonio teologico.Nato in seno al protestantesimo, l'ecumenismo è rimasto a lungo un fenomeno essenzialmente protestante, rappresentativo degli interessi di nazioni leader come la Germania, la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Soltanto lentamente e con grandi difficoltà esso si è aperto anche al mondo ortodosso, in conseguenza dei grandi eventi politici, la fine del dominio turco e dell'impero zarista, che, all'inizio del Novecento, segnano la storia delle Chiese cristiane d'Oriente. Del resto, in quanto forma di organizzazione internazionale delle Chiese protestanti alla ricerca di una difficile unità, il movimento ecumenico è stato inevitabilmente condizionato dalla complessità delle relazioni internazionali, come dimostra, nel corso della seconda metà del Novecento, la storia stessa del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), che, per non perdere il rapporto con le giovani Chiese del Terzo Mondo, si è sempre più aperto a problemi economici, sociali e politici, a cominciare dalla lotta contro l'apartheid e il razzismo.

Radici storiche: il processo di divisione

In quanto spinta a riunificare le Chiese cristiane divise, l'ecumenismo costituisce la riprova più evidente di un carattere distintivo, di lungo periodo, della storia del cristianesimo: la sua polimorfia originaria, che ha poi trovato nel costituirsi delle varie confessioni cristiane (cattolicesimo romano, anglicanesimo, protestantesimo, ortodossia) una sorta di legittimazione storica. Lo sfondo obbligato di questa storia è costituito dalle rotture che hanno portato alla formazione delle differenti confessioni. Questo processo di differenziazione ha in sostanza due cause: o una condanna giuridica, emanata per esempio da un concilio, in conseguenza della quale un gruppo di cristiani viene condannato per le sue posizioni teologiche come eretico ed espulso dalla comunione ecclesiale (è il caso, nell'antichità, della Chiesa nestoriana e delle Chiese monofisite, sorte in conseguenza delle controversie cristologiche del V secolo e della condanna del concilio di Calcedonia del 451, o in epoca moderna dei Riformati); o un processo di gemmazione interna, come quello che ha favorito il moltiplicarsi delle Chiese e delle denominazioni nel protestantesimo.Le tappe principali di questo processo, che occorre tenere presenti per comprendere meglio la complessità del movimento ecumenico, sono: a) il formarsi delle Chiese orientali precalcedonesi, come la Chiesa nestoriana; b) lo scisma del 1054 in seguito al quale si separano definitivamente i destini della Chiesa cattolico-romana d'Occidente e della Chiesa ortodossa d'Oriente; si tratta in realtà di un processo molto più antico, ma il 1054 rimane una data convenzionale per indicare appunto la definitività di questa separazione; c) il formarsi, durante il Basso Medioevo, di movimenti, come i valdesi o gli hussiti, condannati come eretici, destinati a durare nel tempo per confluire poi nella Riforma; d) infine, la Riforma come evento che segna la rottura definitiva dell'unità religiosa europea e getta, a sua volta, le basi per un processo impressionante di differenziazione interna. Occorre infatti tenere presente che la Riforma fu, fin dai suoi primordi, una realtà socioreligiosa complessa e variegata, diffusasi contemporaneamente in situazioni geopolitiche diverse come, per un verso, la Wittenberg di Lutero, per un altro, città quali Zurigo, Ginevra, Strasburgo. Inoltre, queste varie riforme ruotavano intorno a concezioni ecclesiologiche e teologiche differenti, che daranno luogo a realtà ecclesiali molto diverse. In questo senso, al contrario del cattolicesimo, il protestantesimo non ha mai costituito una vera e propria chiesa. Se a ciò si aggiunge la volontà di riforma permanente (ecclesia reformata semper reformanda) che, nei secoli successivi, si è tradotta nella formazione di sempre nuove Chiese e congregazioni, si comprenderà meglio l'estrema complessità e diversificazione del protestantesimo moderno, al punto che alcuni parlano di una 'precarietà protestante' come principio distintivo di questa confessione cristiana. In merito alla natura del suo principio organizzativo si può dire che esistono, semplificando al massimo, due concezioni a prima vista inconciliabili: la prima, di tipo luterano, che conserva una tendenza 'cattolicizzante', si pone cioè il problema della 'visibilità' della Chiesa e non è, di conseguenza, sfavorevole a processi di confronto e di unione; la seconda, di tipo settario, tipica delle Chiese congregazionaliste come quelle battiste, che fa dell'autonomia della Chiesa locale un principio irrinunciabile. Tra le due concezioni si è fatta progressivamente strada, finendo per diventare la base dell'ecumenismo, una terza via di tipo confederativo, che ha mirato a dare al protestantesimo un'organizzazione internazionale al passo coi tempi, preservando il principio individualistico della libertà religiosa che sta alla base della gelosa autonomia delle varie Chiese, ma nel contempo cercando di porre un freno alla formazione di sempre nuove denominazioni attraverso il ricorso a forme differenti di unione.

Le 'origini' del movimento ecumenico

In quanto fenomeno storico dotato di una sua peculiare fisionomia, l'ecumenismo è sorto all'interno del variegato mondo protestante nel corso della seconda metà dell'Ottocento. Negli anni venti del Novecento si è poi avuto un allargamento all'ortodossia, che però soltanto nel secondo dopoguerra è diventata una componente veramente significativa del CEC; quanto alla Chiesa cattolico-romana, fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) essa ha mantenuto nei confronti dell'ecumenismo una posizione di rigida chiusura.Se è vero che, dal punto di vista teologico, i tentativi di promuovere una riunificazione delle Chiese hanno una lunga e complessa preistoria che si può far risalire almeno alla Riforma (v. Rouse e Neill, 1967, una raccolta fondamentale di studi promossa dal CEC in occasione della sua costituzione), è altresì vero, da un punto di vista storico-sociale, che soltanto nel corso dell'Ottocento si sono venute costituendo le condizioni generali per un'organizzazione internazionale del protestantesimo, la quale a sua volta è poi diventata, nel corso del Novecento, il motore propulsivo di un ecumenismo esteso a tutte le Chiese cristiane. In quest'ottica, storicamente più corretta, il problema delle tensioni alla riunificazione della cristianità dispersa, che attraversa tutta la storia del cristianesimo europeo moderno, assume le forme istituzionali della riorganizzazione di un mondo protestante che corre ormai il rischio della dissoluzione.

L'Ottocento conosce due spinte contraddittorie. All'internazionalizzarsi della vita pubblica, favorito dalla rivoluzione dei trasporti e dai movimenti globali delle popolazioni e testimoniato dal moltiplicarsi di organizzazioni e conferenze mondiali (la prima esposizione universale di Parigi del 1851; la Croce Rossa, sorta nel 1864; il Parlamento mondiale delle religioni di Chicago del 1893; le organizzazioni internazionali degli operai; ecc.), si contrappongono le spinte nazionalistiche tipiche del secolo, che investono le varie Chiese protestanti, legando la loro storia ai destini delle differenti nazioni e favorendo il movimento di moltiplicazione di Chiese e sette indipendenti. Per reagire al localismo e alla frammentazione, progressivamente si impose l'esigenza di promuovere incontri e rapporti sia all'interno di raggruppamenti affini sia tra Chiese e gruppi protestanti. In questo processo, una parte importante fu recitata dal mondo missionario. Né è un caso che uno dei suoi leaders, il metodista americano John R. Mott (1865-1955), sia anche una figura significativa del nascente ecumenismo. Il mondo delle missioni, infatti, che conobbe nel corso del XIX secolo una fioritura straordinaria, costituì il primo terreno importante per il sorgere dell'ecumenismo.Queste missioni erano coordinate in società, divise in tre gruppi principali:

a) società sorte per iniziativa privata di un gruppo di persone, per lo più legate a una chiesa particolare, come - per citare soltanto le maggiori - la Società missionaria di Londra (1795) - la più importante, a cui apparteneva ad esempio il noto esploratore David Livingstone -, quella d'Olanda (1797), il Comitato americano dei sovrintendenti alle missioni estere (1810), la Società missionaria danese (1821), di Berlino (1824), ecc. Alcune di queste società si erano caratterizzate fin dall'inizio e programmaticamente per il loro carattere interconfessionale e sovranazionale, come la Missione di Basilea (1815);

b) società missionarie a carattere più apertamente confessionale o denominazionale, come la Società missionaria wesleyana (1813), battista americana (1814), metodista episcopale (1819), ecc. - inutile aggiungere che il moltiplicarsi di queste società si tradusse, in terra di missione, nel crescere di una concorrenza spietata, che alla lunga doveva rivelarsi nefasta per gli stessi scopi missionari;

c) infine, il terzo gruppo di società missionarie comprendeva società con un campo d'azione specifico, come la Missione per la Cina interna (1865), o società che soltanto in modo tangenziale si occupavano di missione, come la famosa Società biblica britannica, che promosse la diffusione della Bibbia nel mondo.

Pur con evidenti differenze al loro interno sui temi più scottanti, queste missioni furono in genere solidali con i grandi miti della seconda metà dell'Ottocento, quali l'evoluzionismo e l'etnocentrismo. Soltanto la crisi della cultura europea della fine secolo, sigillata dalla Grande Guerra, doveva mettere radicalmente in discussione questi postulati, che legarono in genere anche le missioni protestanti alle "magnifiche sorti e progressive" del trionfo del capitalismo europeo sui popoli colonizzati (selvaggi e primitivi, come si diceva allora). Per porre riparo all'intrinseca debolezza di una concorrenza spietata tra le varie missioni, che non era da meno della concorrenza tra le varie nazioni colonizzatrici, furono promosse conferenze missionarie internazionali a sfondo ecumenico, iniziate a Londra e New York nel 1854 e continuate poi, con scadenza quasi decennale, a Liverpool (1860), Londra (1878 e 1888), infine, New York (1900). Esse culminarono, nel 1910, nell'importante conferenza di Edimburgo, cui parteciparono 1200 delegati delle società missionarie (non delle Chiese) che si occupavano di missioni presso popoli non cristiani, con esclusione di tutte le società che promuovevano la missione verso altre Chiese cristiane. Anche se la Conferenza costituì una tappa importante nella storia delle missioni protestanti in epoca moderna, sollevando ad esempio il problema, fino ad allora trascurato - e destinato ad occupare un posto determinante nella storia del CEC - delle cosiddette 'Chiese giovani', in genere legate ai paesi colonizzati, il fatto stesso che per la prima volta si incontrassero delegati di corpi missionari rappresentanti di Chiese ufficiali contribuì a dare all'Assemblea uno sfondo ecumenico. Tra le tematiche scelte per la discussione, poi, l'ultima (Cooperation and promotion of unity) andava esplicitamente verso una promozione di tipo ecumenico. Né va trascurato il fatto che il fondatore di Faith and Order, l'episcopaliano Charles Brent, ebbe, in quell'occasione, la prima esplicita idea di fondare questa organizzazione. In conclusione, si può discutere, da un punto di vista storico, se e fino a che punto Edimburgo abbia veramente costituito l"origine' del movimento ecumenico. Quel che è sicuro è che questa Conferenza rappresentò un punto fondamentale di svolta nella storia delle conferenze missionarie, portando, nel 1921, alla nascita del Consiglio Internazionale delle Missioni che confluirà nel 1961 nel CEC in occasione dell'incontro di New Delhi, dopo aver organizzato cinque importanti conferenze mondiali (nel 1928 a Gerusalemme, nel 1938 a Tambaran in India, nel 1947 a Whitby in Canada, nel 1952 a Willigen in Germania, infine, nel 1957-1958 ad Achimota in Africa).Il secondo ambito significativo che contribuì al sorgere dell'ecumenismo è quello rappresentato dai movimenti cristiani giovanili, tra cui primeggiano due organizzazioni: la Young Men's Christian Association (YMCA), fondata nel 1844, e il corrispondente femminile (YWCA), fondata nel 1854. Anche se composte essenzialmente da protestanti (gli ortodossi vi ebbero una posizione marginale), queste organizzazioni aspiravano, in spirito missionario, a una evangelizzazione del mondo, che favorisse il confronto ecumenico, sulla base di una confessione di fede cristologica che si ritroverà poi alla base della fondazione del CEC nel 1948: "l'YMCA cerca di unire quei giovani che, considerando Gesù Cristo come loro Dio e Salvatore, secondo la Sacra Scrittura, desiderano essere suoi discepoli nella fede e nella vita, e unire i loro sforzi per estendere il suo Regno nel mondo".Del pari importante è la Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani, creata a Vadstena (Svezia) nel 1895, dove si formarono molti dei successivi leaders del movimento ecumenico, sulla base del principio - che doveva rimanere una delle due anime del CEC - secondo cui l'impegno ecumenico era interdenominazionale, non minacciando di conseguenza l'appartenenza e l'identità confessionale.Il terzo ambito, infine, che merita di essere ricordato è quello delle Federazioni o alleanze intraconfessionali o interconfessionali tra Chiese, come l'Alleanza Evangelica creata a Londra nel 1846 da un'assemblea di 900 cristiani membri di diverse Chiese evangeliche (v. Rouse e Neill, 1967, p. 320 n. 1) - di per sé, non un'organizzazione ecumenica, perché ignorava le relazioni tra le Chiese e si presentava, anche in difesa della libertà di religione, come un'organizzazione di cristiani singoli; l'Alleanza delle Chiese Riformate e Presbiteriane (1875); il Consiglio Mondiale Metodista (1881); l'Unione VecchioCattolica di Utrecht (1889); il Consiglio Congregazionalista Internazionale (1891); l'Alleanza Mondiale Battista (1905); infine, la Federazione Mondiale Luterana (1929). A parte vanno considerate le cosiddette Conferenze di Lambeth anglicane (dal nome del palazzo residenziale dell'arcivescovo di Canterbury, il loro primate, dove, a partire dal 1867, si riuniranno i vescovi delle varie 'province' ecclesiastiche anglicane nel mondo), che hanno avuto scadenza decennale. Già a partire dalla seconda (1878) emerse la centralità delle questioni ecumeniche. Nella terza (1888) si varò il cosiddetto 'Quadrilatero di Lambeth', che costituisce ancor oggi la base dell'azione ecumenica anglicana. In questo importante documento, alla cui base vi è un testo adottato dalla Convenzione generale della Chiesa Episcopale americana riunitasi a Chicago nel 1886 (v. Rouse e Neill, 1967, pp. 264-265), si fissano i quattro principî necessari e sufficienti, secondo gli anglicani, per ricomporre l'unità cristiana, e precisamente

1) le Sacre Scritture dell'Antico e del Nuovo Testamento, in quanto contengono tutto ciò che è necessario alla salvezza, come regola e suprema norma di fede.

2) Il Credo Apostolico come simbolo battesimale e il Credo Niceno come espressione sufficiente della fede cristiana.

3) I due sacramenti istituiti dallo stesso Gesù: battesimo e cena del Signore. 4) L'episcopato storico, adattato localmente alle diverse necessità delle nazioni e dei popoli chiamati da Dio nell'unità della sua chiesa.

Al volgere del secolo, a queste spinte di tipo organizzativo si aggiunse la cosiddetta 'questione sociale', che favorì la nascita di movimenti come l'americanismo, contribuendo nel contempo al sorgere di uno dei due raggruppamenti, Life and Work (noto anche come 'cristianesimo pratico') che, insieme a Faith and Order, sta alla base del vero e proprio movimento ecumenico protestante. Queste due organizzazioni si fondano su due modelli di unità in realtà più antichi, già all'opera in forma embrionale nel XVII e XVIII secolo: il primo, che perseguiva l'unità nella fellowship e cioè nella ricerca di una forma di comunione ecclesiale nuova, il secondo che perseguiva l'unità nella ricerca della verità dottrinale. Nell'Ottocento, il pendolo tra questi due modelli oscillò a seconda che si aderisse a una teologia liberale o invece, in reazione, si aderisse a una teologia più conservatrice, tesa a difendere l'identità dottrinale protestante, rifiutando accostamenti e modelli che avrebbero potuto minacciare l'identità delle Chiese luterane e riformate. Di conseguenza, nel corso dell'Ottocento è possibile vedere all'opera entrambe le tendenze: da un lato, sull'onda dei vari 'risvegli', si impone l'esigenza di promuovere una unione tra le varie Chiese che tenga conto delle spinte conversionistiche e missionarie promosse dall'esperienza di risveglio; dall'altro, si ha la tendenza a tener saldo il nucleo dogmatico, confrontandosi sul piano del credo e non su quello dell'azione sociale e missionaria.

Verso la costituzione del CEC

Il periodo cruciale nella 'genesi' del movimento ecumenico è quello tra le due guerre. È allora, infatti, che, sotto la guida di due notevoli personalità, Nathan Söderblom (1886-1931) per la prima e Charles Brent (1862-1929) per la seconda, si costituiscono come organismi internazionali Life and Work e Faith and Order, che dominano la scena dell'ecumenismo tra le due guerre. È poi dal convergere progressivo di queste due forme organizzative che sorgerà ad Amsterdam nel 1948 il CEC, l'organismo destinato a segnare la storia del movimento ecumenico nel secondo dopoguerra. Conviene dunque accennare brevemente ad alcuni aspetti essenziali nella storia di questi due movimenti (v. Rouse e Neill, 1967, vol. III).Il fondatore di Fede e Costituzione, Charles Brent, un anglicano canadese, nutriva, al pari di Söderblom, una forte sensibilità per i problemi sociali, che aveva sviluppato dapprima negli Stati Uniti e poi, come vescovo episcopaliano, nelle Filippine, dove tra l'altro aveva partecipato alla battaglia governativa contro l'oppio. Convinto, d'altro canto, che la perdita di peso sociale delle Chiese fosse dovuta soprattutto alle loro divisioni, che avevano prima di tutto ragioni dottrinali, decise di affrontare questo nodo non, come Söderblom, sul piano della pratica, ma della dottrina. Impressionato dalla conferenza di Edimburgo, Brent propose all'assemblea della Chiesa episcopaliana di Cincinnati (11 ottobre 1910) di indire una conferenza internazionale sui problemi di fede e organizzazione. L'invito fu accettato e, di conseguenza, tutte le confessioni cristiane furono chiamate a partecipare sulla base della confessione di fede in "Nostro Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore", una confessione (risalente alla YMCA) che poteva far problema a coloro che rifiutavano la divinità di Gesù, ma che apriva la via ad un incontro con ortodossi e cattolici. Ugualmente, sul piano ecclesiologico, fu adottata una 'base', precisata in un articolo del 1916, che doveva poi rimanere fondamentale nella storia dell'ecumenismo protestante del Novecento: nessuna Chiesa deve rinunciare al "tesoro particolare" che essa ha ricevuto dalla "pienezza di Cristo", ma ciascuna è esortata a sviluppare la propria vita non nel "sentiero stretto" del proprio solco confessionale, ma nel "cammino regale" della Chiesa unica e unita di Cristo.Fallito ogni tentativo di collegamento con la Chiesa cattolico-romana per il diniego rigido del pontefice, l'immediato dopoguerra conobbe un evento di fondamentale importanza nella storia dell'ecumenismo: l'adesione a Faith and Order dell'ortodossia. Nel 1920, a Ginevra, si tenne una riunione preparatoria sul tema Le differenti concezioni della Chiesa e l'essenza di una Chiesa unita, sotto la presidenza di Brent e con la partecipazione di 133 rappresentanti di 80 Chiese provenienti da 40 paesi. Per la prima volta, dopo le divisioni del XVI secolo, si ritrovavano rappresentanti delle maggiori famiglie protestanti e della maggior parte delle Chiese ortodosse. La responsabilità dell'organizzazione passò ufficialmente dalla Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti a un comitato preparatorio interdenominazionale. Il vescovo Germanos, rappresentante del patriarca di Costantinopoli, confermò la partecipazione della sua Chiesa, chiedendo però l'assicurazione che le potenti missioni protestanti non esercitassero più la loro opera nei territori ortodossi. In questo modo, emerge un motivo di fondo, destinato a ritornare anche in seguito fino ai recentissimi conflitti scoppiati in seguito alla caduta dell'ex URSS, che, riaccendendo la concorrenza con le Chiese protestanti e soprattutto con la Chiesa cattolico-romana, hanno provocato una grave crisi del movimento ecumenico. La spinta ecumenica, infatti, si radicava anche nell'esigenza di regolamentare la concorrenza in un territorio religioso che, se abbandonato alle forze dell'individualismo proselitistico tipico delle missioni riformate, rischiava di diventare un fattore disgregante incontrollabile. Di qui la divisione geografico-etnicoculturale proposta da Germanos, con accordi reciproci tra le varie Chiese, allo scopo di regolare un 'mercato' religioso che rischiava, invece di controllarli, di incrementare i conflitti.La prima conferenza mondiale di Fede e Costituzione ebbe luogo a Losanna dal 3 al 21 agosto del 1927, con la partecipazione di circa 600 delegati, in rappresentanza di 108 Chiese. La Chiesa cattolica vi era assente, così come gli unitariani di tendenza ultraliberale. La Conferenza fu presieduta da C. Brent, episcopaliano, mentre il ruolo di moderatore fu affidato a A. E. Garvie, congregazionalista: un tentativo di mediare tra le due diverse anime ecclesiologiche del movimento. Ad evitare fraintendimenti unionisti, Brent dovette intervenire più volte per ribadire che lo scopo della Conferenza non era quello di promuovere un'unione tra le varie Chiese, ma di mettere in luce accordi e disaccordi sul piano teologico ed ecclesiologico. In effetti, dai documenti emergono due divergenti modelli: 'unione organica' e 'federazione', che rimandano a due differenti ecclesiologie. Da un lato, gli anglicani, sulla base del quadrilatero di Lambeth, propendevano "cattolicamente" per una unione organica relativamente alle Sacre Scritture, al Credo apostolico e Niceno-Costantinopolitano, ai due sacramenti del battesimo e della cena del Signore, infine, all'episcopato storico. Dall'altro, le Chiese protestanti difendevano una federazione rispettosa della peculiare diversità della struttura ecclesiastica protestante.

Una seconda conferenza internazionale fu tenuta dieci anni dopo, dal 3 al 18 agosto del 1937, a Edimburgo. Vi vennero affrontati i temi della grazia, della chiesa, della relazione tra Scrittura e Tradizione, della comunione dei santi, dei sacramenti e dei ministeri, dell'unità della chiesa nella vita e nel culto.Quanto al secondo movimento, Life and Work o 'cristianesimo pratico', esso gettava le sue radici nel 'socialismo cristiano' e cioè nei vari tentativi, che caratterizzano il protestantesimo europeo e americano tra fine Ottocento e primi Novecento, di fare i conti con la questione sociale. Dopo vari sforzi falliti per unire intorno a questo scopo differenti Chiese anche in conseguenza delle divisioni indotte dalla loro partecipazione al conflitto mondiale, sarà compito dell'arcivescovo luterano e primate di Svezia Nathan Söderblom portare a compimento in modo positivo questo processo. La sua posizione teologica era caratterizzata da un ecclesiocentrismo che restituiva alle Chiese una funzione centrale. Mentre esse devono costituire il 'corpo' dell'azione ecumenica, l'anima sarà fornita dalla loro azione nel mondo, la sua trasformazione secondo lo spirito di Cristo. La verità cristiana, infatti, secondo Söderblom, non si trova fissata una volta per tutte in determinate forme, né chiusa in determinati testi, ma consiste - secondo il titolo di un suo famoso libro - nell'atto stesso della rivelazione del "Dio vivente" nella storia, compiuta in Gesù Cristo e continuata fino agli ultimi tempi (v., sulla sua azione ecumenica, Bauberot, 1979). Cinque anni dopo la conferenza preparatoria svoltasi a Ginevra nell'agosto del 1920, da molti vista come la data di nascita del movimento ecumenico e che ebbe lo scopo di favorire il superamento di rancori e risentimenti lasciati dalla guerra, dal 19 al 25 agosto 1925 Söderblom poté accogliere a Stoccolma i seicento delegati della prima conferenza mondiale del movimento. Soltanto due mesi prima di Locarno, Stoccolma si fece ampiamente partecipe dello "spirito di Ginevra", con un ottimismo superato soltanto da quello della Società delle Nazioni. L'assemblea, affrontando alla luce del messaggio cristiano i gravi problemi del dopoguerra a cominciare da quello delle relazioni internazionali, cercò di spingere i cristiani - secondo un motto divenuto famoso: "la dottrina divide, mentre il servizio unisce [...] l'importante è lavorare insieme, come se si fosse già uniti" - a impegnarsi nella costruzione di un mondo più umano e più giusto. Tra i punti significativi del messaggio finale merita ricordare il terzo, in cui si confessano gli errori e le colpe delle Chiese in particolare nei confronti delle classi lavoratrici: "Si tratta della prima ratifica ufficiale, da parte di un'assemblea di Chiese, della visione cristiano-sociale della storia recente del cristianesimo. Visione che è un'autoaccusa nei confronti del passato. L'ateismo delle classi popolari non sarebbe dovuto tanto alle varie cause sociali [...], quanto, innanzitutto, alle infedeltà dei cristiani. Espressa qui in forma ancora moderata, si andrà accentuando in seguito. Essa costituisce attualmente lo sfondo implicito della strategia terzomondista del Consiglio Ecumenico delle Chiese" (v. Bauberot, 1997, p. 46), strategia che, pena la perdita del Terzo Mondo, ha sempre più favorito una presa di distanza del CEC nei confronti dell'imperialismo occidentale. Anche a Stoccolma, d'altro canto, emersero due differenti concezioni relative alla realizzazione del Regno di Dio nella storia, ancora oggi presenti nel movimento ecumenico: da un lato, vi erano coloro, come gli anglicani o gli aderenti a una teologia liberale, che attribuivano una parte fattiva alla Chiesa nella realizzazione concreta del Regno, ritenendo che l'impegno per il progresso dell'umanità verso la pace e la giustizia fosse un contributo decisivo per la realizzazione del Regno; dall'altro, vi erano Chiese europee, soprattutto quella luterana tedesca, che rifiutavano questa posizione, temendo una falsa politicizzazione della Chiesa, dal momento che il Regno è un dono che può venire soltanto dall'alto, per iniziativa di Dio, al di là di qualsiasi impegno dell'uomo. Ma l'ottimismo di fondo farà passare in secondo piano questi contrasti ideologici, facendo prevalere, come conferma il messaggio finale, la nuova "era dei buoni sentimenti". Diversa fu invece l'atmosfera che dominò la seconda conferenza mondiale del movimento, tenutasi a Oxford nel 1937, in un clima ormai incombente di guerra. A ciò contribuì anche la crisi irreversibile nel frattempo intervenuta della teologia liberale, come conferma l'importanza assunta anche a Oxford dalla teologia dialettica. L'assemblea non si sottrasse al dovere di affrontare i problemi sollevati dall'esistenza di Stati assoluti e totalitari, prendendo importanti decisioni, come la condanna del razzismo, del nazionalismo, della dittatura di una classe su un'altra, alla luce di un criterio etico come il bene dell'uomo.Il convergere dei due movimenti verso una comune organizzazione portò, nel 1938, a un progetto di unificazione redatto a Utrecht. Ma lo scoppio della guerra ne rimandò l'esecuzione. Questa poté aver luogo, dieci anni dopo, ad Amsterdam, nel corso di un'assemblea alla quale parteciparono delegati di 147 Chiese, provenienti da 44 paesi, che portò alla costituzione del World Council of the Churches o Consiglio Ecumenico delle Chiese (la traduzione dell'espressione inglese sottolinea che non si tratta di una superchiesa o di una Chiesa mondiale o di un'organizzazione tipo ONU, ma di una 'comunità' fraterna di Chiese in cammino verso l'unità; v. le memorie del suo primo Segretario Visser'rt Hooft, 1982).

A partire da Amsterdam, il convergere in un unico organismo di Faith and Order e Life and Work - anche se i due organismi conserveranno una loro autonomia come sezioni generali - pose delicati problemi di mediazione. Il movimento ecumenico, infatti, non persegue primariamente scopi esterni di miglioramento del mondo (il problema del 'Regno'), ma interni di rinnovamento delle Chiese. La compresenza di questi due volti e la necessità di mediarli in modo opportuno era ben presente fin dal titolo del tema generale dell'assemblea di Amsterdam, Il disordine del mondo e il piano salvifico di Dio, che giustappone appunto le esigenze tipiche dei due movimenti; né è un caso che in quella sede il grande teologo protestante Karl Barth, intervenendo per la prima volta a un'assemblea ecumenica, in un discorso memorabile, sovvertisse il piano di lavoro, criticando l'impostazione prescelta, quasi il costituendo CEC volesse essere un piano Marshall delle Chiese, per sottolineare, di contro, il primato del disegno di Dio rispetto al disordine dell'uomo. Barth aveva messo in evidenza un problema decisivo, che ha accompagnato il CEC nei suoi cinquant'anni di vita. Si tratta di coniugare, nel contempo, il volto interno, ecclesiologico, teologico, sacramentario del movimento, col volto esterno del rapporto col mondo, in un intreccio tra dato teologico e dato culturale e politico reso particolarmente delicato dal coesistere, all'interno del CEC, di ecclesiologie differenti. Si spiega, così, la difficile situazione in cui l'istituzione centrale del movimento ecumenico si è venuta a trovare durante la guerra fredda, spaccata in due tra Chiese che appartenevano al blocco occidentale e Chiese legate, per amore o per forza, al blocco sovietico; situazione drammatica che si è riproposta in seguito di fronte ai processi di decolonizzazione e più recentemente, in conseguenza dei processi di globalizzazione, di fronte alla necessità di dover prendere comunque posizione nei confronti di problemi sociali come lo sfruttamento capitalistico o la crisi ecologica.

Al centro di questi dilemmi vi è, ancora una volta, il problema ecclesiologico. Al CEC partecipano, infatti, sia Chiese, come in genere le protestanti, che riconoscono le altre istituzioni ecclesiastiche come Chiese nel senso pieno del termine, sia Chiese, come in genere le ortodosse, che insistono sul carattere ecclesiale incompleto di certe Chiese membri del CEC. Qual è l'unione, di conseguenza, a cui il CEC tende di fatto e deve tendere idealmente? spirituale o organizzativa? e come rapportare questi aspetti? inoltre, quale dev'essere il compito della "comunione fraterna" delle Chiese che forma il CEC: organizzativo o profetico? Si è già avuta occasione di rilevare questa contraddizione di fondo dell'ecumenismo legata alla sua matrice protestante, la cui 'precarietà' postula, di contro al modello ecclesiologico cattolico-romano, che la 'verità' della Parola divina si realizzi storicamente in una molteplicità di manifestazioni ecclesiali. Ne consegue un concetto di 'unione', come unità nella diversità, se non inconciliabile almeno del tutto distinto da quello cattolico, naturalmente, ma anche da quello delle Chiese ortodosse e, sotto certi aspetti, anche da quello delle Chiese anglicane. Si spiega in questo modo il fatto che, nonostante innumerevoli dibattiti e confronti, dopo cinquant'anni sul problema ecclesiologico permanga, all'interno del CEC, una sostanziale 'neutralità'.Il primato del dato interno sottolineato da Barth, e cioè dell'annuncio della Parola divina al mondo come il 'contesto' specifico del movimento ecumenico organizzato a prescindere dalle sue differenze storiche, è evidente nell'attenzione posta ad Amsterdam alla comune base di fede. Si tratta di una questione delicata di definizione sia all'interno, come ricerca di un minimo comun denominatore dottrinale tra le varie Chiese, sia verso l'esterno nei confronti di 'sette' e Chiese che non aderiscono al CEC: criterio, dunque, sia di inclusione sia di esclusione. Come già accennato, si riprende inizialmente la formula base della YMCA: il CEC è una comunione di Chiese che confessano secondo le Scritture il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore. Si tratta di un credo sufficientemente ristretto per eliminare qualunque pericolo di confusione sincretistica, ma anche del tutto vago dal punto di vista ecclesiologico, in modo da poter permettere, come abbiamo visto, la convivenza di ecclesiologie radicalmente diverse.

Roma dall'unionismo all'ecumenismo

Fino al Concilio Vaticano II (1962-65) la Chiesa cattolico-romana è rimasta ai margini del movimento ecumenico o combattendolo esplicitamente in nome della sua peculiare ecclesiologia o contrapponendogli la propria politica unionista: due volti, in realtà, di una stessa medaglia (v. Velati, 1996). L'ecclesiologia tradizionale, infatti, ruotante intorno alla centralità di un papato che il Concilio Vaticano I aveva proclamato infallibile quando si pronuncia ex cathedra, portava inevitabilmente ad escludere la realtà salvifica di qualsivoglia altra Chiesa: extra ecclesiam [sc. cattolico-romana] nulla salus. In questa prospettiva esclusivista la ricomposizione dell'unità poteva essere concepita soltanto nei termini di un 'ritorno' o di una 'sottomissione' a Roma delle comunità che ne erano separate.Un posto a parte in questa concezione avevano finito per occupare le Chiese orientali, di cui Roma riconosceva volentieri la profondità spirituale e la fermezza dottrinale. Per favorire il processo di riunificazione di queste Chiese, a partire già da Pio IX e poi, in gradi e misure diverse, sotto i suoi successori, si vennero mettendo in atto misure diverse, a cominciare da una serie di encicliche (la Grande Munus del 1880, che estende a tutto il mondo il culto dei santi Cirillo e Metodio, la Orientalium Dignitas del 1894, la Rerum Orientalium del 1928), attraverso la costituzione della nuova Congregazione per la Chiesa orientale (1917) - che sottrae l'Oriente alla giurisdizione di Propaganda Fide nella quale prevaleva una tendenza tradizionale alla latinizzazione, anche dal punto di vista giuridico e liturgico, nei confronti delle Chiese orientali -, per terminare con la creazione di riviste e istituzioni importanti come il collegio Russicum a Roma (1929).

Il progetto unionista, che in un primo tempo aveva tratto vantaggio dalla crisi dell'impero turco e dell'impero zarista, tramonta progressivamente nel corso degli anni venti di fronte alla dura politica di repressione adottata dall'URSS leninista e stalinista, ma anche di fronte all'incalzare dell'ecumenismo protestante. Quest'ultimo viene duramente condannato con l'enciclica Mortalium animos del 6 gennaio 1928, in cui Pio XI fustiga severamente gli errori degli ecumenisti, definiti 'pancristiani'. Anche se gli anni trenta vedranno lentamente e con fatica sorgere i primi segni di un ecumenismo cattolico, l'enciclica (con la parziale eccezione della disposizione del Sant'Uffizio, De motione œcumenica, del 20 dicembre 1949) fisserà la posizione ufficiale della Chiesa romana fino alla svolta conciliare.Al sorgere di un ecumenismo cattolico indipendente dalla posizione ufficiale di Roma hanno contribuito vari fattori (v. Minus, 1976; v. Swindler, 1966), ad esempio il rinnovamento teologico (la cosiddetta 'nouvelle théologie'), che ha favorito un ritorno a fonti comuni come le Scritture e i Padri, e il movimento liturgico; né è un caso che un primo terreno concreto di azione ecumenica sia stato individuato, grazie soprattutto all'attività di Paul Couturier (1881-1953) e del suo 'Ecumenismo spirituale', nella Settimana universale di preghiera per l'unità dei cristiani (18-25 gennaio 1935, alla quale tutti erano invitati e potevano associarsi perché incentrata sulla preghiera in nome di Cristo.

Il CEC nel secondo dopoguerra

Dopo Amsterdam, il CEC si è riunito in assemblea plenaria a Evanston nel 1954, a New Delhi nel 1961, a Uppsala nel 1968, a Nairobi nel 1975, a Vancouver nel 1983, a Canberra nel 1991, infine, ad Harare nello Zimbabwe nel 1998. Col trascorrere degli anni, esso è diventato un vero organismo internazionale, che comprende attualmente 337 Chiese più un certo numero di Chiese associate (per aderirvi occorre avere almeno 25.000 fedeli) in rappresentanza di circa mezzo miliardo di cristiani (la Chiesa cattolico-romana, con il suo miliardo e quaranta milioni, cioè 17,8% di aderenti, continua a costituire di gran lunga la confessione cristiana più numerosa). Con sede a Ginevra, dotato di una complessa struttura burocratica avente al vertice un Comitato centrale composto da un centinaio di membri scelti in funzione di delicate alchimie rappresentative e presieduto da un Segretario generale, il CEC coordina e promuove una complessa attività di relazioni che lo rendono l'organismo più significativo del movimento ecumenico. Dispone inoltre, oltre che di adeguati organi di stampa, di un seminario teologico internazionale che ha sede a Bossey, nei pressi di Ginevra.

Delle varie assemblee, è particolarmente importante quella tenutasi a New Delhi nel 1961. Al termine di negoziati delicati, essa accoglie nel suo seno non solo il Consiglio Internazionale delle Missioni a prevalenza anglo-protestante, ma anche le Chiese ortodosse del blocco sovietico, compreso il patriarcato di Mosca. Giudicato talvolta nel passato troppo 'occidentale' se non filoamericano, il Consiglio ottiene così una maggiore rappresentatività internazionale: con l'eccezione, che perdura a tutt'oggi, delle correnti fondamentaliste americane, a partire da New Delhi esso raggruppa ormai la quasi totalità delle comunità cristiane non cattoliche. L'adesione dell'Oriente slavo sposta il suo centro di gravità verso l'Est: d'ora in avanti gli ortodossi si batteranno per una rappresentatività migliore in seno ai vari organismi del CEC. A conferma di questo spostamento si ha l'adozione di una 'base' teologica trinitaria ("Il Consiglio Ecumenico delle Chiese è un'associazione fraterna di Chiese che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le Scritture e si sforzano di rispondere insieme alla loro comune vocazione per la gloria dell'unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo"), che completa quella del 1948.

Gli scopi del CEC, rimasti abbastanza vaghi ad Amsterdam, sono stati precisati nella Conferenza di Nairobi del 1975. Essi comprendono: 1) indirizzare le Chiese verso lo scopo dell'unità visibile in una fede e in una comunione eucaristica espressa nel culto e nella vita comune in Cristo, e camminare insieme verso questa unità, in modo che il mondo creda; 2) portare la comune testimonianza delle Chiese in ogni luogo; 3) sostenere le Chiese nel loro compito missionario ed evangelico; 4) aiutare a realizzare il compito comune delle Chiese al servizio degli uomini bisognosi, combattere tutto ciò che separa gli uomini, promuovere la vita in comune nella giustizia e nella pace della famiglia umana; 5) promuovere il rinnovamento della Chiesa nell'unità, nel culto, nella missione e nella diaconia; 6) farsi carico e sostenere le relazioni sulle conferenze nazionali delle Chiese, le unioni confessionali mondiali e altre organizzazioni ecumeniche; 7) continuare il lavoro sia di Life and Work e Faith and Order sia del Consiglio Missionario Internazionale e di quello per l'Educazione Cristiana.Tra questi scopi merita di essere sottolineato prima di tutto il punto 4). Di fatto - siamo negli anni della contestazione - il CEC accorderà nel decennio successivo una priorità al sociale che lo porterà a sostenere una serie di lotte contro l'apartheid in Sudafrica, contro il razzismo nel mondo, contro le disuguaglianze socioeconomiche in particolare nel Terzo Mondo, a favore di bisognosi e poveri in America Latina. Solo negli anni ottanta, anche in conseguenza di una contestazione interna da parte di gruppi e Chiese conservatrici, l'istituzione ecumenica cercherà di reagire alle accuse e al sospetto di essere diventata cassa di risonanza di lotte politico-sociali, per un verso spostando l'attenzione sui nuovi problemi di tipo etico (v. Mützenberg, 1992), per un altro, prestando maggior attenzione alla questione delle identità confessionali. Per questo merita attenzione anche il punto 6) di Nairobi. Esso ricorda come, dopo il Concilio Vaticano II, pure in conseguenza della presenza crescente della Chiesa cattolica, il movimento ecumenico abbia di fatto trovato un canale preferenziale, oltre che nell'attività promossa dal CEC e al suo interno, in dialoghi sia multilaterali (ad esempio tra lo stesso CEC e la Chiesa cattolica), sia soprattutto bilaterali (come quello, recentissimo, tra la Federazione Luterana Mondiale e il Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani della Chiesa cattolica sulla giustificazione che ha portato al documento firmato ad Augusta il 31 ottobre 1999: v. Ferrario e Ricca, 1999). Questi dialoghi si sono rivelati più funzionali e pratici perché implicano soltanto due controparti, anche se tendono a creare l'illusione che il passo compiuto verso l'unione sacramentaria o dottrinale tra due organizzazioni sia, nel contempo, un passo di tutte le Chiese: in realtà, in non pochi casi, queste unioni bilaterali hanno provocato controreazioni negative che ne hanno sminuito l'efficacia. È il caso, ad esempio, del documento sul battesimo, l'eucaristia e il ministero sottoscritto in occasione della conferenza di Lima nel 1982, un accordo particolarmente significativo: ma le critiche di cui è stato oggetto in diversi ambienti protestanti lo hanno rapidamente privato di una parte della sua efficacia.

Verso un nuovo ecumenismo

L'apporto del Vaticano II all'ecumenismo non va ricercato soltanto nella promulgazione del decreto conciliare Unitatis redintegratio del 1964, in cui si riconosce l'ecclesialità, per quanto sminuita in modo disuguale, delle Chiese e delle comunioni separate. Esso rientra infatti in una più generale prospettiva ecumenica (v. Soetens, 1998), che ha caratterizzato fin dall'inizio il Concilio, tradottasi nella creazione, il 5 giugno 1960, del Segretariato per l'Unità dei Cristiani, che si è rivelato uno strumento decisivo nella promozione del dialogo ecumenico (v. Velati, 1993); nel fatto che la costituzione dogmatica Dei verbum sulla rivelazione abbia ricollocato la Bibbia al centro della fede, gettando un ponte fondamentale verso l'ecumenismo protestante o che la costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa presenti questa come "popolo di Dio" in cammino; né, infine, va dimenticato come più volte nei documenti conciliari si sottolinei che la Chiesa di Cristo "sussiste nella" (subsistit in) Chiesa romana, che non appare più dunque come l'unica Chiesa.

Questa svolta decisiva, se per un verso ha reso obsoleto il parlare di ecumenismo cattolico, per un altro, inserendo anche la Chiesa cattolico-romana nel più generale movimento ecumenico, ne ha mutato profondamente le dinamiche esterne, gli equilibri interni e le politiche organizzative. Anche se, in assenza di lavori scientifici e di fronte a una massa impressionante di documenti confessionali che rendono improbo muoversi nella foresta lussureggiante di dati non facilmente controllabili costituita dalla fase più recente della storia del movimento ecumenico (per un primo accostamento, v. Cereti e Voicu, 1994-1996), ogni prospettiva interpretativa è inevitabilmente soggetta a cauzione, pare evidente che nell'ultimo trentennio del Novecento l'ecumenismo abbia conosciuto in sostanza tre fasi. Ad una prima fase di euforia, conseguente all'evento conciliare, ha fatto ben presto seguito, in parallelo col più generale movimento del '68, un periodo di dura e violenta contestazione, che ha favorito una terza fase, che perdura fino ad oggi, di ripiegamento confessionale in difesa della propria identità minacciata.L'ingresso in campo a pieno titolo nel campo ecumenico della Chiesa cattolico-romana ha messo in moto una serie di dialoghi ufficiali, che hanno teso sempre più a prendere il posto delle iniziative private che avevano precedentemente contraddistinto l'ecumenismo cattolico. Oltre a gesti simbolici significativi da parte del pontefice Paolo VI, come l'incontro e l'abbraccio a Gerusalemme nel gennaio del 1964 con il patriarca Atenagora o l'abolizione, il 7 dicembre 1965, delle reciproche scomuniche tra Roma e Costantinopoli, merita segnalare il fatto che Roma ha stabilito rapporti concreti col CEC. Nel 1965 viene fondato il gruppo misto di lavoro tra il CEC e il Segretariato romano per l'Unità, cui seguirà la creazione di un comune comitato Società, Sviluppo, Pace (o Sodepax: per un'analisi sociologica v. Derr, 1982) nel 1968 e poi, qualche mese dopo, l'ingresso a pieno titolo di teologi cattolici nella sezione dottrinale del CEC, Fede e Costituzione. Il successo di queste iniziative è tale che qualcuno ventila in quel periodo l'ipotesi di una possibile adesione della Chiesa romana allo stesso CEC, adesione che, sconvolgendo gli equilibri interni, avrebbe posto complicatissimi problemi organizzativi. L'iniziativa, ben presto abortita, è però un sintomo evidente del cambiamento radicale nel frattempo intervenuto.

Si è venuto così creando uno spettro molto vario di accordi, locali nazionali internazionali intraconfessionali (come ad esempio la cosiddetta Concordia di Leuenberg del 1973 tra le Chiese luterane, riformate e unite europee), infine, interconfessionali (come il già ricordato accordo di Augsburg tra Federazione Luterana mondiale e Chiesa cattolica), che possono concernere l'aspetto dottrinale, liturgico o organizzativo (o un mixing di questi tre): e questo, sia a livello locale, sia a livello europeo. Un esempio recente importante è dato dall'assemblea ecumenica di Graz (23-29 giugno 1997) sulla riconciliazione a cui erano presenti 700 delegati ufficiali delle 124 Chiese protestanti, anglicane, ortodosse, vecchio-cattoliche legate alla Conferenza delle Chiese Europee (KEK) e delle 34 Conferenze Episcopali Europee Cattoliche (CCEE), oltre a 150 rappresentanti di organizzazioni e movimenti ecclesiali ecumenici di altri continenti (per gli Atti dell'assemblea, v. Lingua, 1998).Tali accordi sono il frutto di una macchina diplomatica ecumenica agguerrita, con le correlate organizzazioni, che non ha ormai nulla da invidiare alle organizzazioni politiche internazionali sorte e affermatesi nel secondo dopoguerra: da questo punto di vista, l'ecumenismo costituisce un capitolo importante, ma trascurato, della sociologia dell'organizzazione. D'altro canto, il fatto di firmare un accordo bilaterale tra due confessioni su una questione teologica o liturgica importante si è rivelato spesso un'arma a doppio taglio. È il caso ad esempio del recentissimo accordo di Augsburg. Oggi luterani e cattolici sono giunti a una comprensione della dottrina della giustificazione nella quale gli elementi condivisi prevalgono su quelli sui quali non c'è unanimità: le differenze che permangono su taluni aspetti della dottrina vengono considerate compatibili tra di loro, nel quadro di un sostanziale consenso sui suoi punti qualificanti. D'altro canto, la firma di questo documento ha suscitato le rimostranze di un gruppo qualificato di teologi luterani e di altre Chiese protestanti che si sono sentite escluse o tradite; e in ogni caso esso è disgiunto da ogni implicazione o conseguenza ecclesiologica, non ha cioè alcuna conseguenza sul vero e proprio piano organizzativo dell'unione.

Può sorprendere che a questi successi, e alla penetrazione di uno 'spirito' ecumenico anche a livello di parrocchie e di pratica comune dei fedeli, abbia fatto seguito una contestazione sia da parte protestante sia da parte cattolica ad opera di minoranze estremamente aggressive. Essa è stata particolarmente evidente e significativa in ambito cattolico. All'opposizione all'ecumenismo, manifestatasi già in sede conciliare da parte di un'agguerrita minoranza e continuata in seguito dal gruppo lefebvriano, succede nel corso degli anni settanta una serie di critiche questa volta provenienti da teologi famosi, ruotanti intorno all'idea di fondo che il 'vero' ecumenismo deve rispettare integralmente le divergenze dogmatiche, anziché relativizzarle.L'ascesa al soglio pontificio del papa polacco Giovanni Paolo II ha avuto, tra le altre conseguenze, un irrigidimento dell'identità confessionale e uno spostamento del baricentro dell'attenzione dal cristianesimo occidentale a quello orientale, anche se non va dimenticato l'impegno dell'attuale pontefice sia verso gli anglicani sia verso i luterani. Ciò ha significato un inevitabile irrigidimento delle posizioni. L'accentuazione del tema dell'autorità pontificia, che ha finora contraddistinto la politica interna di Giovanni Paolo II, ha riproposto in modo fin troppo evidente uno dei nodi di fondo del dialogo ecumenico. Così, la recente enciclica Ut unum sint (1995), se ha dischiuso prospettive inedite sulla possibilità teologica di una messa tra parentesi del privilegio petrino, nulla ha cambiato per quanto concerne il quadro di fondo relativo al dogma del primato di giurisdizione del pontefice romano sull'intera chiesa cristiana e le pretese che ne conseguono. Ciò risulta incompatibile sia con il principio dell'autocefalia (che vuol anche dire autogoverno) delle Chiese nazionali, profondamente radicato e costitutivo dell'ortodossia, sia con la comprensione protestante della chiesa nelle sue varie espressioni e articolazioni.

Ma il problema forse più serio al volgere del nuovo millennio e come effetto della crisi epocale del 1989 è costituito dall'ortodossia. "Di fatto, il fossato tra Oriente e Occidente, un tempo ridottosi con la caduta degli imperi ottomano e zarista, si è di nuovo allargato dopo la chiusura della 'cortina di ferro' [...] La Chiesa russa e le sue consorelle del campo sovietico sono certamente sopravvissute, ma in un vaso chiuso e nel rispetto minuzioso, perché vitale, delle loro tradizioni. Come potrebbero comprendersi un Occidente appassionato di modernità e un Oriente abbastanza ripiegato su se stesso? A che serve condividere all'incirca la stessa fede, se i modi di esprimerla e di viverla da una parte e dall'altra della frontiera confessionale divergono al punto da renderla irriconoscibile?" (v. Fouilloux, 1994, pp. 267-268).

Conclusioni

Considerato in prospettiva comparativa, l'ecumenismo costituisce un tratto specifico della storia del cristianesimo. In effetti, anche gli altri due monoteismi abramici, l'ebraismo e l'islam, conoscono al proprio interno divisioni, scismi, rotture più o meno radicali, nel caso dell'ebraismo indotte soprattutto dal confronto con la modernità, nel caso dell'islam, invece, prodotto di complesse vicende interne. D'altro canto, al di là delle pur rilevanti differenze, vi sono tratti comuni che meritano di essere sottolineati. Così, le linee di differenziazione interna sono date dal modo diverso in cui individui carismatici e gruppi rispondono a problemi di fondo come il valore della tradizione, la centralità della comunità delle origini, l'unicità o meno come criterio di condotta della rivelazione contenuta nel libro sacro, il problema dell'autorità e dell'ispirazione, il posto da assegnare alla dimensione profetica (fondamentale nei tre monoteismi). Nella tradizione cristiana, le confessioni si differenziano proprio nel modo radicalmente diverso in cui hanno risposto a questi problemi di fondo. Così, semplificando al massimo, il protestantesimo, col principio del sola scriptura, ha concentrato la fonte della rivelazione nella Scrittura; l'ortodossia vi ha aggiunto il principio della tradizione; il cattolicesimo, infine, ha cercato nella successione episcopale e nel primato del pontefice una garanzia visibile di tipo monarchico al problema fondamentale dell'autorità. Mentre nel primo caso la rivelazione è chiusa nei confini ristretti delle Scritture, nel secondo si estende al massimo alla tradizione costituita dai primi sette concili ecumenici, nel terzo, grazie anche al dogma dell'infallibilità pontificia, il canale della rivelazione non si è mai chiuso definitivamente e può sempre riaprirsi, dal momento che lo Spirito divino è presente nel corpo del Cristo, la Chiesa, e nel suo sovrano pontefice.

Dietro questi complessi processi storici si celano opzioni ermeneutiche a prima vista inconciliabili. Il processo si complica ulteriormente solo che si pensi alla complessità dei problemi teologici che si celano dietro queste differenti opzioni, a cominciare dall'antropologia (peccato originale, concezione della grazia) attraverso la cristologia per terminare appunto con l'ecclesiologia (si veda al proposito la questione fondamentale dei ministeri, resa di bruciante attualità dalla consacrazione anglicana di donne: attualmente infatti la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse non riconoscono i ministri protestanti come ministri a pieno titolo di Gesù Cristo, né riconoscono l'episcopato luterano presente nelle Chiese scandinave e baltiche, né quello anglicano) o con le differenti liturgie e concezioni sacramentarie sorte sulla base di queste diverse opzioni.

Esse incidono anche sul versante 'pratico' del movimento ecumenico e cioè sul tipo di etica sociale che dev'essere propria dell'ecumenismo nei confronti dell'annuncio cristiano al mondo, ma anche o soprattutto per promuovere la comunione tra le varie Chiese. Semplificando anche in questo caso al massimo, è possibile ritrovare tipi di risposte diverse in funzione delle sopra ricordate 'posizioni' teologiche. Così, le Chiese ortodosse, richiamandosi alla tradizione e rifiutando qualunque compromesso con la cultura moderna, dichiarano l'inesistenza del problema, che si risolve e riassume nell'agape cristiana e nel suo annuncio. La Chiesa cattolico-romana, a sua volta, si richiama a una dottrina sociale fondata sul diritto naturale e su correlati principî, di origine tomistica, come 'persona' o 'solidarietà'. Quanto al variegato mondo protestante, esso ha dato luogo a risposte diverse, a cominciare dalla dottrina luterana dei due regni. Il problema si è posto al CEC fin dai suoi primordi: di quale natura era il Regno che esso si proponeva, in prospettiva ecumenica, di annunciare al mondo? Per un verso, in linea con le matrici del 'vangelo sociale' di Life and Work, si trattava di annunciare un'etica sociale responsabile nei confronti del mondo e delle sue ingiustizie: di qui le varie battaglie relative ai diritti umani, alla difesa dei poveri, alla posizione delle donne e così via. Per un altro, onde evitare ogni integralismo, si trattava di non dare un contenuto preciso a queste esigenze di giustizia, anche sullo sfondo della prospettiva escatologica per cui "passa la forma di questo mondo".

Dal punto di vista sociologico, è interessante osservare come sia in ambito protestante sia in ambito cattolico l'ecumenismo si sia ormai diffuso a livello di massa tra i fedeli, come dimostra il successo della settimana di preghiera, penetrando nella vita concreta delle parrocchie e delle comunità. A ciò hanno contribuito anche le traduzioni interconfessionali della Bibbia, le occasioni per incontri con ministri di altre confessioni, per seminari interconfessionali, ecc. Insomma, l'ecumenismo non è più soltanto un fatto di élites, com'era stato fino agli anni sessanta, ma ha penetrato, in modo che meriterebbe di essere adeguatamente indagato, il tessuto stesso delle differenti Chiese.In attesa che accanto alla teologia e alla storia dell'ecumenismo si affermi anche una sociologia dell'ecumenismo (v. per ora Willaime, 1989), non sembri inopportuno concludere con alcune questioni aperte. Se la funzione manifesta del movimento ecumenico, che ha dominato la storia del protestantesimo nel Novecento finendo per coinvolgere anche le altre confessioni, è stata, indubbiamente, l'esigenza di mettere in moto un processo di riunificazione delle Chiese cristiane, dovrebbe ormai risultare evidente, da quanto precede, che esso è stato ed è anche un modo per rispondere a problemi decisivi come i processi di secolarizzazione, la crisi del clero, le crescenti esigenze provenienti dai laici (e prima di tutto dalle donne), esigenze che hanno finito per recitare una parte sempre più importante.Nonostante contraddizioni e difficoltà crescenti, non è difficile prevedere, sulla soglia del terzo millennio, che, nell'era della globalizzazione, l'ecumenismo continuerà a recitare una parte importante nella diffusione e nell'organizzazione del cristianesimo.

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