EDIZIONE

Enciclopedia Italiana (1932)

EDIZIONE

Giannetto AVANZI
Giorgio PASQUALI

. Locuzione bibliografica che equivale a libro pubblicato in più esemplari mediante la stampa e posto in commercio, o comunque diffuso, da organismi librarî (v. editore).

Le varie caratteristiche delle edizioni che servono a contraddistinguerle e gli elementi esteriori sono trattati nella voce libro. Qui sono illustrati soltanto due speciali tipi di edizioni che hanno una particolare importanza sia per gli studî, sia per la storia tipografica ed editoriale.

Edizione principe. - Termine bibliografico, quasi sempre usato nella forma latina (editio princeps) per indicare genericamente la prima edizione di un'opera. Riportato peraltro nel suo significato più proprio, il termine designa la prima pubblicazione a stampa di testi scritti anteriormente all'invenzione di questa, per modo che tali opere, riprodotte per la prima volta con mezzi tipografici, derivano direttamente da codici scelti fra i più insigni.

La produzione tipografica di edizioni principi viene cronologicamente circoscritta allo stesso periodo di tempo stabilito per gl'incunaboli (v.), e cioè dall'invenzione della stampa al 1500 circa; esistono peraltro prime edizioni di testi antichi pubblicate più tardi. Le edizioni principi hanno, naturalmente, molta importanza per gli studî e rappresentano inoltre, per la gran parte, la primissima e più preziosa produzione tipografica. L'introduzione dell'arte della stampa in Italia coincise col fervore degli studî e con la grande ricerca dei classici latini e greci per opera degli umanisti, cosicché, fatta eccezione per pochissimi testi, moltissimi di questi classici vennero in luce per la prima volta appunto in Italia.

Fra le edizioni principi più preziose vanno citate: De oratore di Cicerone (Subiaco 1465), Epistolae dello stesso (Roma 1467), Opera di Apuleio (Roma 1469), Noctes atticae di Aulo Gellio (Roma 1469), Commentaria di Giulio Cesare (Roma 1469), Opera di Virgilio (Roma 1469), Historiae romanae decades di Tito Livio (Roma 1469), Geographia di Strabone (Roma 1469), Naturalis historia di Plinio (Venezia 1469), Catilina di Sallustio (Venezia 1470), Opera di Prisciano (Venezia 1470), Opera di Tacito (Venezia c. 1470), Punica di Silio Italico (Roma 1471), Opera di Ovidio (Roma e Bologna 1471), Elegiae di Tibullo e Properzio, Carmina di Catullo, Silvae di Stazio (Venezia 1472), Comoediae di Plauto (Venezia 1472), Epistolae di Seneca (Roma 1475), Opera philosophica dello stesso (Napoli 1475); fra i testi greci: le Favole di Esopo (Milano circa 1480), le Opere di Omero (Firenze 1488), le Opere di Aristotele (Venezia 1495), gli Argonauti di Apollonio Rodio (Firenze 1496), le Commedie di Aristofane (Venezia 1498). Le edizioni principi formarono in tutti i tempi oggetto di collezioni; vanno citate quella famosissima di lord J. P. Spencer descritta da T. F. Dibdin (Bioliotheca spenceriana, voll. 4 e suppl., Londra 1814-22), oggi conservata nella biblioteca J. Rylands a Manchester, e quella del conte Angiolo Maria D'Elci, da lui donata alla biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, descritta sommariamente nel Catalogo dei libri dal C.te A. M. D'E. donati, ecc., Firenze 1826.

Il termine edizione principe è usato frequentemente in senso improprio per indicare qualunque prima edizione, sia antica sia moderna, di un'opera; v. qui sotto.

Edizione originale. - Termine bibliografico che indica genericamente la prima pubblicazione a stampa di uno scritto, in volume o fascicolo a sé, con frontespizio (v.) e pagine numerate progressivamente. Si è convenuto di chiamare edizione originale quella eseguita con il consenso dell'autore e per il tramite di un editore, prescindendo, talvolta, dal concetto di priorità materiale della stampa di un'opera. Ciò porta, naturalmente, ad attribuire a tale edizione una garanzia d'integrità e autenticità del testo, secondo la stesura originaria datagli dall'autore, e di valore intrinseco dell'opera. Secondo questo concetto vi possono essere una seconda, una terza, ecc., edizione originale, ogniqualvolta un autore interviene direttamente a modificare la prima stampa della sua opera. Per es., dell'Orlando Furioso di L. Ariosto esistono tre edizioni da considerarsi come originali, tutte di Ferrara: la prima del 1516, in 40 canti; quella del 1521, considerevolmente modificata; l'altra, in 46 canti (l'ultima stampata vivente l'autore), del 1532.

In bibliofilia si considera edizione originale la stampa d'uno scritto secondo un concetto di assoluta priorità cronologica, anche se la pubblicazione sia eseguita senza o contro il consenso dell'autore.

Gli scritti pubblicati per la prima volta in periodici, atti accademici e miscellanee sono chiamati edizîoni preoriginali, quando essi siano in seguito ripubblicati come opere a sé.

Edizione critica.

Fine e limiti. - L'editore critico mira a ricostruire il testo di un'opera letteraria nella sua forma genuina, e presenta la propria ricostruzione in tal modo che il lettore possa controllare la sua opera. Il primo è un fine ideale che nella maggior parte dei casi, e specie per opere molto lontane da noi per tempo, non potrà essere adempiuto se non imperfettamente. Cominciamo da una prima limitazione, volontaria. L'edizione critica, tranne quella di testi recenti, rinunzia per lo più a riprodurre la grafia originale: la grafia degli antichi Greci e Romani è molto più imperfetta di quella ch'è ora comunemente in uso. Riprodurre ad es. in un'edizione di Virgilio la scrittura che questo ha certamente adoprato, tutta in maiuscole, senza divisioni di parole; stampare un testo di Omero del pari in maiuscole, anzi in caratteri epigrafici arcaici, con scrittura continua, senza né accenti né spiriti, anzi, a rigore, senza neppur la distinzione tra vocali lunghe e brevi, dittonghi improprî, che nell'età in cui i poemi omerici furono scritti era forse ancora ignota, significherebbe soltanto rendere singolarmente disagevole la lettura dei classici a un lettore moderno. E così non avrebbe senso (e sarebbe oltre a ciò immensamente costoso) stampare una Divina Commedia con parole non scritte per intero, ma abbreviate convenzionalmente, perché certamente anche Dante avrà fatto uso di quelle abbreviazioni che incontriamo a ogni piè sospinto nella gotica del sec. XIV. Del pari il semitista comune non rinunzierà alla puntuazione, che indica le vocali nel testo della Bibbia, perché questa era ignota all'età biblica, e così via. La riproduzione della grafia originale è legittima solo dove non è troppo incomoda, cioè, grosso modo, nei testi posteriori all'invenzione della stampa. Questo non significa che l'ortografia sia negli altri abbandonata all'arbitrio dell'editore, o debba seguire senz'altro l'uso moderno. Nel campo degli studî di filologia classica è stato escogitato un compromesso discreto, che è divenuto tradizionale e che ciascun editore degno del nome segue modificandolo leggermente secondo la varia individualità del testo. Per la filologia romanza e germanica si usò spesso per il passato di attenersi per la grafia ai manoscritti più autorevoli. Quest'era il tempo in cui l'edizione diplomatica, cioè la riproduzione il più possibile fedele di un manoscritto, era ritenuta più scientifica dell'edizione critica. Ora si vede chiaro che riprodurre errori per sfuggire alla fatica del pensiero e al rischio della congettura, è quel che di meno degno di uno scienziato si possa immaginare. E anche in questi campi si agisce con maggior libertà, tanto più da quando i progressi della fotografia hanno reso del tutto inutile l'edizione diplomatica. Quanto all'interpunzione, l'editore moderno suole metterla secondo il criterio proprio; e suole servirsene in modo tale da fare intendere, ogniqualvolta è possibile, come egli interpreti.

Ma altre limitazioni sono inerenti alle condizioni dei mezzi di cui disponiamo, di quella che, come si spiegherà subito, si suol chiamare tradizione. Persino in opere recentissime avviene che tutti gli esemplari siano sfigurati da un errore: può capitare che anche in opere a stampa curate dall'autore, o per sua negligenza o per un qualsiasi accidente tipografico, si produca un errore. Ora alcuni di questi errori sono facilmente sanabili per congettura, tali altri no. Per es., se in una colonna di giornale saranno cadute parecchie righe di seguito o anche a brevi intervalli, il contenuto di queste righe potrà tutt'al più essere ricostruito a un dipresso, talvolta (per es., se queste righe contengono nomi proprî) non potrà essere ricostruito in alcuna maniera.

È spesso avvenuto che di un'opera un autore abbia composto successivamente varie redazioni, e di questa varietà sia rimasta traccia nella tradizione. Se ogni redazione ha una tradizione separata, non sorgono difficoltà speciali: converrà stabilire se valga la pena di pubblicare ogni redazione per sé, o se basti sceglierne una, la più importante, e porre tuttavia sott'occhio al lettore con accorgimenti speciali le varietà delle altre redazioni. Si suole per lo più scegliere la redazione ultima, ma questo metodo appare troppo schematico: p. es. scrittori di lettere, segnatamente il Petrarca, sogliono nelle redazioni successive, sia per scrupolo di dignità letteraria, sia per riguardi personali, eliminare molto di quello che per noi moderni è interessante. Ma più difficile è il caso, quando le varie redazioni si sono confuse in un'unica tradizione, come nella Storia Ecclesiastica di Eusebio, o quando nell'esemplare stesso dell'autore erano qua e là varianti originali, come in Tucidide e Lucano, per citare solo due esempî sicuri. In questo caso l'analisi non risolve interamente il problema, ed è dubbio quanta parte dei suoi risultati si possa comunicare o accennare nell'edizione.

Anche di testi popolari l'edizione critica mira a ricostruire la forma originaria. Ma forme posteriori possono avere altrettanta importanza storica o letteraria quanta l'originale: e a ogni modo le alterazioni successive, le innovazioni non possono essere qui considerate quali errori da eliminare. In tal caso può convenire di pubblicare per intero, oltre alla redazione originale, anche altre redazioni, ciascuna delle quali va considerata del pari come originale. E questo avviene ordinariamente in versioni le quali servono sì quale strumento critico per la ricostruzione del testo su cui sono state condotte, ma hanno anche valore di originale. Così la Vulgata serve alla ricostruzione della Bibbia greca, ma deve essere anche (ed è) pubblicata criticamente per conto proprio. Ancora: forme di testi, pure inferiori a quelle che noi grazie alla maggior mole di materiale e all'eccellenza del metodo critico possiamo ricostruire meritano di essere pubblicate per sé (oltre l'originale) perché hanno avuto voga in un certo periodo storico, e hanno importanza per la storia della cultura. Esempio la Vulgata dei Digesti nel Medioevo, che servì di fondamento all'opera dei giuristi bolognesi.

Fonti della ricostruzione. - Il complesso dei materiali che servono alla ricostruzione del testo originario, si suol chiamare tradizione. La tradizione si suole dividere in diretta e indiretta. La tradizione diretta è costituita dai manoscritti, dattilogrammi, stampe che ci trasmettono l'opera stessa. Nelle stampe si debbono, naturalmente, comprendere anche bozze, specie se corrette dall'autore. La tradizione indiretta è molto più varia: rientrano in essa:1. Versioni dell'opera in altre lingue e dialetti, dalle quali si possa ricostruire (o ricostruir meglio) una redazione non nota (o imperfettamente nota). 2. Citazioni dell'opera, sia che autore o opera vengano citati nominatamente, sia che la citazione sia tacita. In questa categoria rientrano anche commenti antichi all'opera, i cui autori possono avere adoprato redazioni migliori di quelle conservate dalla tradizione diretta. Ma convien dire che spessissimo in tali commenti il tratto di testo trascritto come richiamo ("lemma") è stato dagli amanuensi corretto di sulla tradizione diretta: cosicché convien leggere il commento attentamente per vedere quale testo esso presupponga, prescindendo almeno provvisoriamente dal lemma. 3. Imitazioni e allusioni. Può avvenire che un'imitazione sicura conservi il testo originario, perduto nella tradizione diretta. 4. Persino modelli dell'opera: può capitare che dove l'opera da pubblicare criticamente offre una lezione poco soddisfacente, un'altra opera che la prima dimostratamente imita, conservi nel punto corrispondente una lezione più soddisfacente, che l'imitatore non può avere alterata così. In questo caso è lecito sostituire la lezione dell'opera imitata a quella dell'imitazione. Quest'enumerazione di categorie di tradizione indiretta ha valore esemplificativo, non esaustivo.

Metodo della ricostruzione: "recensio" - Chi vuol pubblicare criticamente un'opera, deve in primo luogo raccogliere la tradizione. Sebbene molte delle grandi biblioteche abbiano pubblicato i cataloghi delle loro raccolte manoscritte, sebbene persino di questi cataloghi siano stati (almeno per certi particolari campi) pubblicati repertorî, tuttavia tale operazione preliminare è più difficile che uno non crederebbe. Per esempio il numero dei manoscritti latini conservati nelle innumerevoli biblioteche francesi e italiane è infinito; molti codici sono nascosti, in possesso di privati che non ne consentono la consultazione; spesso manoscritti orientali non sono accessibili in Europa. Si aggiunga che pseudonimia di opere note per lo più sotto altro nome, acefalia (cioè mancanza, nel codice, delle prime pagine che per lo più portano il nome dell'autore e il titolo) traviano spesso il raccoglitore. Ancor più difficile è, come ognuno può intendere, la raccolta della tradizione indiretta.

La tradizione diretta dev'essere collazionata, cioè, posta provvisoriamente a fondamento un'edizione precedente (quando c'è) o la copia di un manoscritto ("esemplare di collazione"), l'editore deve stabilire in quali lezioni queste fonti si allontanino dall'edizione. L'ideale sarebbe che questo lavoro fosse compiuto per tutte le fonti e per tutta l'estensione dell'opera; ma per ragioni di economia di lavoro si può consentire all'editore di contentarsi di saggi, quando la tradizione diretta sia troppo estesa. Ma bisogna che l'editore sia consapevole del rischio ch'egli corre operando così. Il lavoro di collazione è agevolato e reso più sicuro dai nuovi metodi fotografici ("bianco su nero"), che consentono a ogni studioso di raccogliere per un prezzo moderato nella propria abitazione e confrontare tutta la tradizione diretta del testo che lo interessa.

Il lavoro che teoricamente segue immediatamente alla collazione, ma che praticamente s'intreccia con essa e può risparmiare di essa buona parte, è l'eliminazione delle copie (eliminatio codicum descriptorum). È evidente che la copia non giova a nulla, almeno in quanto copia, ogniqualvolta è conservato l'originale trascritto. Quest'operazione è più delicata di quanto possa sembrare a prima vista: indizî esterni sogliono fornire le prove migliori di dipendenza diretta: per es. se il presunto originale è danneggiato meccanicamente (buchi o macchie) e la presunta copia in corrispondenza di questi danni omette parole o parti di parole o non dà senso intelligibile o dà un senso raffazzonato, la dipendenza è certa. Del pari prova sicura è l'omissione di una riga intera del presunto originale, ogniqualvolta essa non dia un senso compiuto (non possa cioè essere stata omessa intenzionalmente) o non finisca nello stesso modo di una delle righe precedenti o seguenti (omeoteleuto), nei quali casi la coincidenza nell'omissione può esser casuale. Anche la constatazione di errori là dove la scrittura del presunto originale si presta a essere fraintesa, è buon indizio. Ma convien dire che, per poter dare un giudizio sicuro, non basta per lo più un luogo solo, perché può essere in giuoco il caso: specie segni peculiari della scrittura di un certo periodo e di una certa regione possono essere fraintesi nello stesso modo indipendentemente da amanuensi diversi. Lezioni apparentemente o realmente migliori nella presunta copia non bastano a escludere la dipendenza, ogniqualvolta esse possono con verosimiglianza essere ritenute frutto di congettura.

Compiuta anche quest'operazione, si passa a determinare le relazioni reciproche dei manoscritti (o stampe) che non risultano copie di originali conservati. Per l'aggruppamento conviene partire da concordanze non già nella conservazione della lezione genuina, ma in errori, perché la lezione genuina, poiché era nell'originale, può essere stata conservata indipendentemente in rami diversi della tradizione, mentre almeno certi generi di errori non è probabile si siano prodotti indipendentemente in manoscritti diversi. Nello stesso modo la glottologia per determinare la parentela di dialetti si serve principalmente di coincidenze nelle innovazioni. Ma conviene saper scegliere gli errori, cioè non servirsi di quelli nei quali ogni amanuense e ogni stampatore cade quasi per necessità.

Se la tradizione non è ampia e specie se il testo è stato tramandato per copia meccanica, si può mediante questo lavoro giungere a costruire uno stemma dei manoscritti. Se ABC coincidono in certi errori dai quali D è esente, ABC formano rispetto a D una famiglia. Se in più A e B coincidono in altri errori dai quali non solo D ma anche C è esente, essi formano rispetto a C una sottofamiglia (classe, stirpe, ecc.). Dunque, chiamando O l'originale, le relazioni tra i manoscritti possono essere simboleggiate da quest'albero genealogico, nel quale le lettere minuscole indicano codici (capistipiti) perduti.

È questo un caso straordinariamente favorevole, perché qui, ogni qualvolta C coincide con D in lezioni caratteristiche, si può esser sicuri che quest'era la lezione dell'originale; del pari se ABD o anche AD o anche BD coincidono. Il dubbio rimane solo là dove CAB (cioè Cb, cioè a) coincidono contro D, oppure dove ognuno dei manoscritti presenta una lezione propria, e allora converrà dirimere la controversia con criterî interni. Se si chiama, come dal Lachmann in poi si suole, recensio la determinazione della lezione dell'originale (e le operazioni che a essa portano), si può nel caso in cui la lezione dell'originale è ricostruibile immediatamente, senz'uso di criterî interni, solo mediante la constatazione di certe coincidenze fra i manoscritti (stampe, bozze), parlare di "recensione chiusa"; nel caso opposto di "recensione aperta".

Ma, come abbiamo detto, l'esempio da noi scelto è eccezionalmente semplice e favorevole. Spesso la trasmissione, come l'esperienza per esempio della filologia classica negli ultimi cinquant'anni mostra ineccepibilmente, non è proceduta in modo così meccanico: già ogni amanuense tende anche involontariamente a render migliore il testo copiato, se in qualche modo lo intende. Testi non troppo difficili non sono stati copiati meccanicamente, ma abbelliti nel copiare. Quindi molte delle corruttele, che sarebbero indizio prezioso di parentela, sono in certe tradizioni ricoperte nei singoli manoscritti da congetture, giuste o no. Inoltre in quasi tutti i periodi nei quali opere antiche sono state riprodotte, l'interesse per esse ha indotto anche a collazione di diversi esemplari. E le lezioni che in un esemplare perduto saranno state scritte sui margini, nelle copie conservate sono spesso penetrate in varia misura nel testo, eliminando le lezioni trasmesse direttamente (contaminazione). Talvolta dotti antichi o medievali o umanistici hanno curato vere edizioni dei testi, che si distinguono dalle moderne in ciò che esse non rendono conto delle fonti adoprate né delle lezioni derivate dalle singole fonti. Per lo più alle lezioni tradizionali derivate da fonti diverse si aggiungono anche in tali edizioni congetture non contrassegnate come tali. Onde i cosiddetti "codici interpolati", i quali tuttavia non possono essere buttati via, come voleva fare la filologia di cinquant'anni fa, perché nulla esclude che possano, accanto a congetture, conservare lezioni genuine ignote al resto della tradizione, ma devono essere adoprati, quantunque con cautela.

In tali casi, o lo stemma non può essere costruito o le linee che indicano derivazione diretta sono intersecate da altre, punteggiate, spesso numerose, che indicano contaminazione con altre fonti. In casi di questo genere spesso le relazioni genetiche possono essere stabilite con certa sicurezza tutt'al più solo nell'interno di ogni famiglia, ma rimangono incerte le relazioni tra le singole famiglie e l'originale comune. Per l'aggruppamento in famiglie può a volte fornire indizî preziosi l'origine geografica. Manoscritti di una medesima provincia scrittoria, o provenienti (parliamo soprattutto di codici medievali latini) da conventi che avevano tra loro relazione, è probabile che derivino da fonte comune. Ma la recensio rimane, in tal caso, essenzialmente aperta. Questo avviene ancor più completamente, ogniqualvolta tutta la nostra tradizione diretta presenta contaminazione totale, vale a dire quando non sussistono più altre fonti che contaminate. Allora, tranne casi particolari (per poeti latini esametrici di non facile comprensione, specie Giovenale, sono stati di recente escogitati, con buon successo, metodi nuovi, troppo complicati perché qui se ne parli), ogni lezione di qualunque manoscritto può essere genuina.

Recensio aperta significa necessità dell'uso di criterî interni. Questi si riducono in complesso a due categorie: usus scribendi e lectio difficilior. 1. Tra due o più lezioni è preferibile quella che risponde meglio alle consuetudini grammaticali e stilistiche dell'autore (intesi grammatica e stile nel senso più ampio, comprendendo dunque anche consuetudini metriche e, in prosa d'arte, quantitative, accentuative, ecc.). Questo criterio ha: a) un presupposto, che ogni autore abbia una certa costanza linguistica e stilistica; b) un limite, che in casi eccezionali ogni autore può avere espresso il suo pensiero in forma eccezionale. L'uso di questo criterio implica dunque nell'editore, oltre che dottrina, capacità esegetiche e sicurezza di gusto. 2. Ogni testo tende nel corso della tradizione a divenire più facile: tra due lezioni la più difficile ha maggior probabilità di essere genuina, perché non si vede come essa sarebbe potuta nascere dalla più facile, mentre l'opposto appare a priori probabile. È evidente che questi due criterî, applicati rigidamente, meccanicamente, senza discrezione, possono persino venire a contrasto tra loro. Armonizzarli dipende dalla dottrina e dall'arte dell'editore.

Abbiamo parlato sin qui di tradizione diretta. Per la tradizione indiretta converrà, raccoltala, stabilire i rapporti con la diretta o con singoli rami di essa. Anche qui operazione preliminare è la collazione.

Emendatio. - Se la tradizione indiretta, pur essendo, com'è per lo più, frammentaria, ci conserva lezioni migliori della diretta, dobbiamo concludere che lo studio di questa non ci ha consentito di ricostruire l'originale. In genere, ogniqualvolta tutta la tradizione diretta concorda in errori, si deve concludere che essa deriva dall'originale non immediatamente ma attraverso un "archetipo" (v.), un capostipite comune che già si diversificava dall'originale per errori dai quali questo per sua natura (se si eccettuano errori di scrittura, come chiunque di noi suole commettere ogni giorno) era esente. Questo è nelle letterature classiche greci e latina il caso più frequente, se pure non del tutto ineccezionabile, come si credeva sino ad alcuni anni or sono. Procedere oltre l'archetipo per mezzo di recensio non si può se non là dove soccorre la tradizione indiretta, che è per lo più, ripetiamo (tranne il caso di versioni e quello di commenti), frammentaria. Ma qui soccorre in casi singoli un'altra operazione, l'emendatio. Se l'errore è diagnosticato chiaramente, è possibile che l'editore (o un altro studioso dei cui lumi l'editore si serve) ritrovi per congettura il testo giusto. Vi sono errori assolutamente inemendabili: tali le lacune di una certa estensione. Vi sono errori emendabili solo quanto al senso: il filologo scorge che cosa doveva esser detto nel passo errato, ma non può determinare di che parole l'autore si serviva: in tal caso è ricuperabile il pensiero, non la forma. Ancora: congetture che mirano a ricuperare anche la parola, sono tanto più probabili quanto meglio dalla lezione congetturata appare verosimile che sia sorta quella presentata dalla tradizione. Ma convien dire che vi sono congetture necessarie ed evidenti anche là dove l'errore non si spiega: capita ogni giorno a ciascuno di noi di scrivere invece della parola giusta un'altra che casualmente ha in mente. Se da un editore degno del nome si può esigere che egli nella recensio giunga normalmente al risultato giusto, l'emendatio non può riuscire se non in casi eccezionali. Essa esige, oltre tutto, um certa congenialità non solo razionale ma anche artistica con l'autore e l'opera da emendare. Chi emenda, poniamo, Eschilo o Dante, deve sentire in sé una scintilla dello spirito eschileo o dantesco; e poiché l'emendatio è arte, essa non è suscettibile di regole.

Conviene anche dire che può essere persino dubbio se un passo sia o no corrotto. Il canone anche qui non può essere puramente razionale, perché anche un'espressione che dà un senso conveniente sarà corrotta, se stilisticamente intollerabile, cioè impossibile per quell'autore e quell'opera. Una critica conservativa razionale o meglio cavillosa ha prodotto più danni che il pruritus emendandi. Anche per questo rispetto l'attività critica dell'editore è tanto più alta quanto più forte è la sua personalità.

Disposizione dell'edizione critica. - L'edizione critica mira, abbiamo detto, non solo a ricostruire il testo originale di un'opera, ma a rendere possibile a ogni studioso di controllare questa restituzione. Al testo va quindi aggiunto (ed è di solito ora, perché il controllo sia più facile, stampato a piè di pagina) l'apparato critico, l'indicazione cioè dei luoghi nei quali il testo stampato diverge da tutta (emendazione) o parte della tradizione e del modo come diverge. Va da sé che per tradizione si deve intendere solo quella parte di essa che è utile, cioè ch'essa non comprende qui le copie di codici (stampe, ecc.) conservati, né codici che, pur non derivando da altri conservati, si possono dimostrare inutili alla costituzione del testo (caso frequente in recensioni chiuse). Per coordinare l'apparato al testo è necessario numerare le righe di esso, ogniqualvolta manehi una numerazione naturale (versi o versetti); e segnare questi numeri, ciò che si fa di solito a intervalli di cinque, in margine: le distinzioni tradizionali in capitoli e paragrafi sono, per questo fine, troppo estese. Ogni codice (stampa, bozza, ecc.) è rappresentato da una sigla, i codici superstiti per lo più da una lettera maiuscola. Esponenti si devono riserbare finché si può (non si può se i manoscritti sono troppo numerosi) alle indicazioni delle varie mani dello stesso codice. Lettere minuscole indicano codici ricostruiti, cioè gruppi di manoscritti.

L'apparato non deve esser completo: si devono intanto escludere tutte quelle peculiarità ortografiche che ritornano regolarmente in un codice. È insomma indifferente se un codice conservi una peculiarità ortografica in un passo o nell'altro, poiché essa può esser presupposta anche altrove (per questa parte ogni amanuense e ogni stampatore modernizza, inconsciamente, per conto proprio); ed è poi incomodissimo andare alla ricerca di tali peculiarità nell'apparato di tutt'un'opera. Le peculiarità grafiche devono, se ne val la pena, essere raccolte e studiate nella prefazione (praefatio, prolegomena) di cui si parlerà subito. L'apparato può essere positivo o negativo: il positivo registra in primo luogo la lezione seguita nel testo e indica le fonti che la testimoniano. Il negativo registra e documenta solo le lezioni non seguite; la lezione seguita nel testo, e i testimonî che la seguono devono essere indotti ex silentio. L'apparato positivo è più chiaro e ispira maggiore fiducia, ma consuma più spazio. È vero tuttavia che in caso di forti divergenze la lezione seguita deve pure essere indicata ("lemma", per lo più seguita dal segno]), perché s'intenda a che parola della riga le varianti si riferiscano, il che consuma altrettanto spazio. La registrazione di lezioni indotte da versioni, allusioni, ecc. suscita difficoltà considerevoli. In testi nei quali la documentazione muta nelle varie parti, è necessario che a ogni pagina in capo all'apparato sia indicato quali fonti siano qui adoprate. Da qualche anno gli editori sogliono, almeno nei classici greci e latini, indicare brevemente nell'apparato le ragioni della preferenza data all'una o all'altra lezione ed è consuetudine ottima. Tra il testo e l'apparato sarà, se necessario, interposta una rubrica che indichi la tradizione indiretta (anche eventualmente fonti dell'espressione), che è a disposizione per i singoli luoghi. Ma le lezioni da questa tradizione fornite devono in caso di divergenza aver posto nell'apparato insieme con quelle della tradizione diretta.

Citazioni dirette o allusioni dell'opera stessa a scritture precedenti devono essere identificate e registrate, se è possibile, nel margine. L'aggiunta di corrispondenze cronologiche o d'indicazioni di fonti e tradizione parallela in opere storiche o in genere di erudizione, come è sempre più divenuta consueta negli ultimi anni, è utilissima. Ma qui lo spazio e il costo impongono limiti talvolta insuperabili.

La prefazione (praefatio, prolegomena) deve descrivere brevemente la tradizione, stabilire i rapporti fra i singoli componenti di essa, determinare il valore di ciascuno di essi, delineare la storia del testo, esporre il metodo seguito per la ricostruzione. Se alcuni passi controversi sono di tale natura da non potere essere discussi nell'apparato, sarà bene che ne tratti la prefazione: e in questo caso l'apparato dovrà rimandare a essa. In operette brevi molto lette e quindi di tradizione complicata può avvenire che i prolegomeni riescano più estesi che il testo stesso; ma solo persone superficiali se ne dorranno o ne rideranno. Indici di nomi di persona, di nomi geografici, di particolarità grammaticali rendono più utile l'edizione; l'ideale sarebbe che ogni edizione fosse corredata di un index verborum ben fatto. Ma quest'ideale per lo più non è raggiungibile, quasi mai in scritti troppo estesi. Dalla guerra mondiale in poi la scarsità di danaro ha spesso inceppato i progressi della tecnica editoriale.

Cenni di storia dell'edizione critica. - Le edizioni critiche più antiche, almeno nell'ambito della cultura europea, sono quelle dei poeti greci preellenistici curate dai grandi critici alessandrini, Zenodoto, Aristofane di Bizanzio, Aristarco (v.). Le sole in qualche modo ricostruibili sono quelle omeriche: testi non annotati, ma corredati di segni che esprimevano dubbî sulla genuinità della tradizione o rimandavano al commento; il quale aveva posto in rotoli a parte, e conteneva anche accenni ai manoscritti dei quali i critici si erano serviti e alle lezioni da essi adottate. La recensio avveniva specie per criterî interni, emendazioni non pare fossero accolte nel testo, la tendenza era conservatrice; persino versi riconosciuti non autentici erano trascritti nel testo (seppure contrassegnati), ogniqualvolta tutta la tradizione li presentava. Un lavoro grandioso di critica del testo, sulla Bibbia, fu intrapreso da un altro Alessandrino nel sec. III dell'era volgare: Origene (v.). I suoi Hexapla sono in certa misura ricostruibili. Ma è dubbio se tali lavori di erudizione venissero posti in commercio: probabilmente la diffusione di certi risultati avveniva mediante collazione saltuaria (consultazione) dell'esemplare unico.

I metodi alessandrinì furono trasportati a Roma prima da Varrone Reatino (v.) e poi nell'età imperiale da Probo (v.). Girolamo applica i metodi di Origene alla Vulgata. Segni critici si trovano talvolta persino in manoscritti medievali.

Anche il Medioevo carolingio conosce recensioni di testi: ma i mezzi di cui quell'età dispone non consentono vere edizioni critiche. Si avvicina a questo modello tuttavia l'esemplare della Regula Sancti Benedicti, (v. benedetto di Norcia, San) che fu della biblioteca Reichenau. Anche gli umanisti trascendono di poco il livello dei dotti carolingi.

L'edizione critica nel senso moderno va progredendo dal Cinquecento in poi con gli studî sulla Bibbia greca e latina di eruditi, in primo luogo francesi. Ma il fondatore del metodo che ebbe corso per tutta l'età moderna fu Carlo Lachmann (v.); suo capolavoro la brevissima prefazione a Lucrezio, del 1850. Caratteristiche del metodo del Lachmann sono:1. l'elaborazione dei concetti di recensio ed emendatio; 2. l'elaborazione del concetto di archetipo (v.); 3. il sistema di aggruppare geneticamente i manoscritti per mezzo degli errori comuni; 4. il procedimento meccanico nella ricostruzione dell'archetipo sul fondamento di determinate concordanze (nella nomenclatura del presente articolo la tendenza alla "recensione chiusa"); 5. l'eliminazione dei manoscritti sospetti d'interpolazione; 6. il tentativo di ricostruire da considerazioni diplomatiche e da testimonianze esterne la storia, la fortuna di un testo.

Presupposto di questo metodo è una tradizione ristretta e prevalentemente meccanica, com'era quella dei difficili poeti latini trattati principalmente dal Lachmann, Properzio e specie Lucrezio. Il metodo esposto nella prefazione al Lucrezio fu chiamato senz'altro metodo del Lachmam e canonizzato. Ma il Lachmann stesso aveva veduto come questo metodo non fosse applicabile a un testo trasmesso non meccanicamente ma attraverso recensioni antiche, quale quello del Nuovo Testamento, e aveva accennato a tutt'altri metodi già nel 1842. Per questa parte il Lachmann non ebbe subito prosecutori. Invece la prefazione a Lucrezio esercitò fortissimo influsso anche sulla germanistica (il Lachmann anche quale germanista fu un caposcuola) e sulla filologia romanza.

I metodi dell'edizione critica progredirono per qualche tempo, dalla prefazione del Lucrezio in poi, lentamente. Relativamente presto fu superata la prevenzione contro i codici interpolati poichè, come s'è visto, questi possono consecuare, e spesso hanno conservato, tradizione genuina che altrimenti andrebbe perduta. Pubblicazione dei cataloghi, fotografia bianco su nero, maggiore agevolezza dei trasporti, maggior liberalità delle biblioteche pubbliche e private hanno anche consentito di esplorare largamente la tradizione con minor consumo di tempo. Ma solo recentemente si è veduto come anche tradizioni del primo Medioevo greco e latino, che parevano une, derivassero in fatto da contaminazione, da recensione. E sempre più vengono in luce testi, ogni rappresentante dei quali è contaminato. Fondamentale per tali indagini l'edizione della Storia ecclesiastica di Eusebio, capolavoro di Edoardo Schwartz.

In testi di tal genere si è ridotti sempre più all'uso dei due criteri interni, lectio difficilior e usus scribendi; possono soccorrere anche considerazioni reali.

Per poeti esametrici latini che ci sono giunti in stato di contaminazione totale pretradizionale, progressi metodici sono dovuti all'acume di un giovane, U. Knoche. Esempio del modo come si risolvono problemi complicatissimi di tradizione dànno i più recenti romanologi italiani, specie Michele Barbi, Vittorio Rossi e già il loro maestro Pio Rajna nei loro studî su Dante, il Petrarca, lo stil nuovo e il Boccaccio. Un problema specialmente istruttivo è quello del Milione di Marco Polo, trattato, dopo L. F. Benedetto, da M. Casella, A. Peretti e G. Pasquali.

Bibl.: La bibliografia più essenziale è raccolta sotto archetipo. (Per la teoria dell'archetipo aggiungere: G. Pasquali, in Studi italiani di filologia classica, n. s., VII, p. 320; per il trattamento metodico degl'interpolati, ibidem, p. 316). Ma un libro moderno sul metodo dell'edizione critica manca tuttora, e l'articolo presente non può accennare a problemi e a metodi più complicati. Superficiale P. Collomp, La critique des textes, Strasburgo 1931.

Tecnica editoriale: O. Stählin, Editionstechnik, Lipsia 1914. Per l'uso della fotografia in tali studî, K. Krumbacher, Photographie im Dienste der Geisteswissenchaften, Lipsia 1906. -Per un'estensione importante dei metodi a un campo sinora un po' trascurato: G. Witkowski, Textkritik und Editionstechnik neuerer Schriftwerke, Lipsia 1924. - Per la storia dei testi nell'antichità classica U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Einleitung in dei griechiscke Tragödie, Berlino 1921, p. 121 segg.; Fr. Leo, Plautinische Forschungen, Berlino 1912, p. 1 segg.; nel Medioevo occidentale, L. Traube, Vorlesungen und Abhandlungen, Monaco 1911. - Per gli umanisti, R. Sabbadini, Il metodo degli umanisti, Firenze 1922.

Edizioni istruttive per il metodo (la scelta è un po' casuale): C. Lachmann, In T. Lucretii libros commentarius, Berlino 1850; id., Novum Testamentum graece et latine, Berlino 1842; Codex Theodosianus, a cura di Th. Mommsen e P. M. Meyer, Berlino 1905; Eusebii Historia Ecclesiastica, a cura di E. Schwartz, Lipsia 1903-09 (il terzo volume, contenente i Prolegomena, dovrebbe essee nelle mani di ogni studioso); Gregorii Nysseni epistulae, a cura di G. Pasquali, Berlino 1925.

Il Petrarca e il Boccaccio sono specialmente importanti per la molteplicità delle redazioni originali. Gli scritti critici di V. Rossi sulla tradizione specie delle epistole del Petrarca sono comodamente accessibili nel secondo volume degli Scritti di critica letteraria, Firenze 1930. Ancora sul Petrarca: P. Rajna, in Rendiconti dei Lincei, 1909, p. 408 segg.; Miscellanea Ceriani, Milano 1910, p. 643 segg.; E. Bianchi, in Rendiconti dei Lincei, s. 5ª, XXIX, p. 16; A. Foresti, Aneddoti della vita del Petrarca, Brescia 1928, passim; La Bibliofilia, 1927, p. 158 segg.; E. A. Cesareo, nel volume collettivo Studi petrarcheschi, Arezzo 1928, p. 95 segg. Il problema era stato impostato per la prima volta da P. de Nolhac, per il De viris illustribus, in Notices et extraits de manuscripts, XXXIV, p. 61 segg.

Per il Boccaccio: A. Hortis, Studi sulle opere latine del Boccaccio, Trieste 1879; O. Hecker, Boccaccio-Funde, Brunswick 1902; M. Barbi, specie in Studi di filol. ital., I (1927), p. 9 segg.; G. Vandelli, in Studi di filol. ital., II (1929), p. 1 segg.; e infiniti altri (gli studî sono qui in pieno fervore).

Su Marco Polo, oltre l'ed. fondamentale di L. F. Benedetto (Firenze 1928): M. Casella, in Archivio storico italiano, s. 7ª, XI (1929), p. 193 segg.; A. Peretti, ibid., s. 7ª, XIII (1930), p. 217 segg.; G. Pasquali, in Cultura, 1930, p. 801 segg.

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