FITZGERALD, Edward

Enciclopedia Italiana (1932)

FITZGERALD, Edward

Mario Praz

Scrittore eccentrico e traduttore nato a Bredfield House (presso Woodbridge nel Suffolk) il 31 marzo 1809: il cognome è quello del nonno materno, assunto dal padre John Purcell, insieme con lo stemma, alla morte di lui nel 1818. Laureatosi a Cambridge nel 1830, passò gran parte della sua vita nel Suffolk, distraendo la sua solitudine con fatiche di studioso letterato, con veleggiate in yacht, con giardinaggio. Il F. offre caratteristico esempio d'un tipo di raffinato "virtuoso" assai frequente in Inghilterra: appartatosi dalla vita, coltiva una squisita specialità e in essa raggiunge la perfezione. Morì il 14 giugno 1883 mentre si trovava in visita a Merton Rectory, nel Norfolk.

A parte alcune saltuarie collaborazioni a giornali, il F. non pubblicò nulla di notevole fin dopo il 1850. Euphranor, a Dialogue on Youth (1851), e Polonius, a Collection of Wise Saws and Modern Instances (1852) apparvero anonime; soltanto la versione di sei drammi del Calderón (1853) recava il nome del traduttore. Non incoraggiato dai critici, fece stampare privatamente, per distribuirle agli amici, traduzioni libere di La Vida es Sueño e di El Magico Prodigioso, quindi dell'Agamennone di Eschilo: poco prima di morire aveva compiuto le versioni dell'Edipo re e dell'Edipo a Colono di Sofocle.

L'opera a cui è raccomandata la sua lama è l'adattazione delle Rubāiyyat (Quartine; nell'uso occidentale è usato piuttosto il maschile: i Rubâiyât) di ‛Omar Khayyām (v.). I Quatrains del F., liberamente modellati sulla poesia del Persiano, pubblicati nel 1859, passarono inosservati finché nel 1860 non li scopersero su una bancarella i preraffaelliti, D. G. Rossetti e lo Swinburne, i quali sentirono in quell'elegante mescolanza di edonismo e di sereno scetticismo espressi in immagini e aforismi succosi, una stretta affinità con la loro concezione della vita. ‛Omar Khayyām nella versione del F. fu come il Lucrezio dei Vittoriani. I Rubâiyât divennero popolarissimi, furono spesso ristampati, riveduti a più riprese (1862, 1872) dall'autore e vennero imitati, specie dallo Swinburne nella Laus Veneris, senza conservare in questo poema quel tono di virile castigatezza che fa della versione inglese dei Rubâiyât un'opera d'arte che sopravvive al capriccio d'una moda. La forma metrica, quartine i cui due primi versi rimano col quarto, mentre il terzo rimane libero, contribuì indubbiamente al successo, poiché l'ultimo verso, prolungando e propagando con la rima la vibrazione melodiosa, dà un'impressione di solenne fluire, di nostalgica eco. I Rubâiyât, nel testo conservato in un manoscritto della Biblioteca Bodleiana di Oxford, erano stati rivelati al F. dall'amico Cowel. Già il F. aveva intrapreso altre versioni dal persiano, da Salamān e Absāl di Giamī (1856) e dal Manṭiq uṭ-ṭayr di Farīd ad-din ‛Attār (v.). I poeti persiani offrivano al F. queltanto di stimolo che bastava a dar l'avvio alla sua ispirazione personale: "Io mi diverto a permettermi tutte le libertà che voglio con questi persiani" - scriveva il F. al Cowel nel 1857 - "i quali, per quel che posso dirne, non sono abbastanza poeti da ispirare in alcuno il bisogno di rispettarli".

Gli scritti del F. furono raccolti e pubblicati a cura di W.A. Wright in tre volumi nel 1889. Edizione assai ampliata di Letters and Literary Remains in sette volumi nel 1902. Varî volumi di lettere sulle quali pure riposa la fama dello scrittore: Letters to Fanny Kemble 1871-1883, Londra 1895, More Letters, Londra 1901, Some new Letters a cura di F.R. Barton, Londra 1923, Letters to Bernard Quaritch 1853-1883, a cura di C. Quaritch Wrentmore, Londra 1926. Versione italiana dei Rubâiyât fitzgeraldiani, di Mario Chini, Lanciano 1916.

Bibl.: Saggio di C. A. Benson nella English Men of Letters Series, Londra 1905; studio di H. G. Hutchinson in The Quarterly Review, v. anche la bibl. citata (pp. II-III) nella cit. trad. del Chini.