Eguaglianza

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Eguaglianza

Lorenzo Ornaghi

di Lorenzo Ornaghi

Eguaglianza

sommario: 1. L'idea di eguaglianza e la sua eredità storica. 2. Equità, pluralismo e giustizia sociale nelle analisi contemporanee. 3. L'ineguaglianza come realtà pluridimensionale: 'non equità' del Welfare State e 'disparità' nelle relazioni internazionali. 4. Ragioni dell'eguaglianza e prospettive dell'egualitarismo. □ Bibliografia.

1. L'idea di eguaglianza e la sua eredità storica

Assai più di altre idee politiche, quella di eguaglianza ha racchiuso in sé le contraddizioni e i più stridenti paradossi, manifestati dalla cosiddetta 'politica di massa' nel secolo appena trascorso. Regimi totalitari, del tutto impensabili in passato, sono stati edificati e giustificati in nome del principio dell'eguaglianza, o addirittura dell'abolizione perpetua di ogni forma di diseguaglianza tra gli uomini. Le stesse democrazie liberali, lungo tutto il Novecento, mentre hanno sempre più consacrato l'idea di eguaglianza quale principio fondante e imprescindibile della loro legittimazione, non sono riuscite a sciogliere in maniera originale e del tutto persuasiva il nodo del rapporto tra principio egualitario e tutela della libertà (v. Bobbio, 1977; v. Veca, 1989; v. Berti, 1999).

Proprio rispetto all'idea e alle concrete pratiche dell'eguaglianza il XX secolo ha visto ulteriormente allargarsi quella forbice tra legittimazione generale a governare e legittimazione (altrettanto generale) a rappresentare che oggi costituisce uno dei maggiori ostacoli nell'elaborare, componendole coerentemente tra loro, teorie aggiornate dello Stato e nuove teorie della società (v. Ornaghi, 1998). In modo analogo, riguardo al criterio di eguaglianza politicamente riconosciuta e assicurata, si è andata via via destrutturando e talvolta decomponendo - nel funzionamento ordinario dei sistemi politici, ancor prima che nelle formulazioni dottrinali o ideologiche - quell'effettiva sintesi della 'cittadinanza' (v. Costa, 1999-2001), cui dalla Rivoluzione francese in poi si è demandato l'onere di dare un corpo compiuto, e definitivamente 'moderno', alla triade di eguaglianza, libertà e fraternità.

La storia moderna dell'eguaglianza è assai meno lineare di quanto non sembri. E la sua eredità storica, sul futuro immediato oltre che sul nostro presente, grava più disordinata di quanto non si creda. Nonostante le prime apparenze la triade ideale di eguaglianza, libertà e fraternità - se mai ha davvero consentito di oltrepassare in blocco l'Ancien Régime con tutta la sua complessa stratificazione di status e di ordini, ossia di 'distinzioni' (v. Mousnier, 1969) - non costituisce un robusto e inossidabile filo, capace di legare in sequenze unitarie e reciprocamente funzionali gli sviluppi conclusivi della modernità politica. Che il bilancio dell'eredità consegnataci dalla triade rivoluzionaria non sia per nulla consolidato o inequivocabile è testimoniato dal fatto che tale eredità risulta contesa - universalmente e a ogni latitudine ideologica - in ragione dell'opportunità di non mostrarsi scettici, o addirittura apertamente ostili, verso la prima di quelle idee politiche.

Quand'anche sia apparso e continui a sembrare plausibile e conveniente giustificare generiche o specifiche deroghe agli altri due principî (in forza della necessità ora di sospendere la tutela delle libertà civili in circostanze considerate eccezionali seppur ricorrenti, come lo stato di guerra, ora di riconoscere la scarsa propensione degli esseri umani a fraternizzare, e persino a solidarizzare, tra di loro), non vi è certamente alcuno che oggi si spingerebbe a sostenere in modo esplicito l'urgenza di una pur temporanea reintroduzione di una qualche 'riserva' di ineguaglianza dentro il principio modernamente consacrato dell'eguaglianza. In un certo senso, proprio l'insormontabile difficoltà di allestire schemi conoscitivi e operativi idonei a reintrodurre, sia pure con gradualità e moderazione, le dinamiche dell'ineguaglianza nei principî egualitari espone il discorso politico sull'eguaglianza agli effetti estremi e più contraddittori di quell'onda lunga formatasi con la proclamazione dei principî rivoluzionari del 1789 e riprodottasi come onda d'urto - esattamente due secoli dopo - con la dissoluzione della cortina di ferro che divideva e antagonizzava le democrazie liberal-capitalistiche dell'Ovest e le democrazie socialiste-collettiviste dell'Est.

Appunto in ragione del fatto che l'ideale triade non costituisce un lascito definitivamente acquisito o il sigillo ormai inviolabile della politica moderna, l'eguaglianza ha continuato a rappresentare non solo l'essenziale termine di riscontro della riflessione sull'oggetto stesso della teoria democratica, ma anche un oggetto primario dell'analisi politica (v. Nagel, 1991; tr. it., p. 11). Come ha correttamente osservato Jon Elster, per la teoria politica contemporanea si tratta essenzialmente di "giustificare le deviazioni dall'eguaglianza", più che di provare perché sia indispensabile l'eguaglianza in sé. Al punto che qualsivoglia "proposta di distribuire in parti eguali le libertà, gli obblighi e i beni sembra non aver bisogno di giustificazioni; l'onere della prova è dei sostenitori di una distribuzione ineguale" (v. Elster, 1992; tr. it., p. 187).

In realtà, l'obiettivo e le prassi di una 'pari' spartizione e distribuzione dei vantaggi, non meno che (e altrettanto tendenzialmente) degli oneri collettivi, assumono un ruolo di primo piano - com'è ben noto - in tutte le forme di società, da quelle più arcaiche dell'antica Grecia fino agli ordinamenti dell'età classica e medievale. Con una non eludibile discriminante storica, però, la quale si può compendiare nei suoi termini più sintetici con la seguente osservazione: la prassi egualitaria si sarebbe manifestata in passato non come progressiva universalizzazione dell'idea di eguaglianza, bensì quale contenimento della sua estensione e riproducibilità. E proprio a tale discriminante, di cui la moderna elaborazione dei principî egualitari non sembra più in grado di farsi carico, va attribuita l'improponibilità di ammettere oggi che l'eguaglianza degli 'antichi' - in maniera analoga al concetto di libertà - possa in qualche modo coesistere fianco a fianco con quella dei 'moderni' (v. Matteucci, 1989).

Il tratto dominante dell'evoluzione storica or ora accennata è testimoniato, in modo assai significativo, dall'uso delle formule egualitarie succedutesi nell'antichità, a partire da quel concetto greco di 'isonomia' che può essere inteso sia nel più noto significato di 'eguaglianza di fronte alla legge', o di 'eguaglianza stabilita attraverso la legge' (da isos, 'simile, eguale', e nomos, 'legge'), sia nel senso di 'equa ripartizione' (da nemein, 'distribuire' e anche 'ripartire', ovvero 'appropriarsi per distribuzione') e di 'eguaglianza proporzionale' (v. Thesleff, 1984, p. 25). Analogo discorso vale anche per il concetto medievale di aequalitas (v. Dann, 1975), che "traduce l'idea greca della proporzionalità geometrica e poi si specifica come principio di identificazione interno a un gruppo, che è costituito appunto da aequales" (v. De Giorgi, 1993, p. 361). In tal senso, l'eguaglianza che si determina entro la cerchia dei 'simili' o dei 'pari' (siano essi denominati isoi, homoioi, aequales) avrebbe potuto riguardare sì tutti gli uomini, ma sempre e comunque all'interno "di cerchie non comunicanti" (v. Gilli, 1988, p. 152).

Quanto sia distante il moderno termine-concetto di eguaglianza rispetto ai significati espressi dai modelli egualitari del passato, lo si capisce anche dal modo in cui i suoi sinonimi e contrari hanno alimentato e continuano ad alimentare l'opposizione discorsiva tra le correnti dell'egualitarismo e le tendenze, spesso latenti ma non meno pressanti, verso il più schietto anti-egualitarismo. Per le prime, l'eguaglianza dovrebbe essere sinonimo di parità di diritti (l''equivalersi' dei cittadini di fronte alla legge), mentre il suo contrario sarebbe l'iniquità; per le seconde, l'eguaglianza coinciderebbe piuttosto con l'annullamento delle differenze, così come il suo opposto indicherebbe la 'differenza' di trattamento e riconoscimento sociale (v. Revelli, 1995, pp. 55-56).

Nondimeno, proprio l'articolarsi di queste contrapposizioni consente di individuare l'instabile connubio che si è prodotto nell'età moderna tra due differenti "schemi di distinzione", o habitus, come li ha chiamati Pierre Bourdieu (v., 1979): l'uno basato sulla disparità delle ricchezze e la competizione per le risorse materiali, l'altro sulle differenze di status, di prestigio, o addirittura di privilegio, che a loro volta insidiano la pretesa di ricomporre le distinzioni nel principio della pari dignità umana (v. Lenski, 1966; v. Miller, 1998, p. 22). È appunto questo instabile connubio che, continuamente inclinando verso un'insanabile lacerazione, obbliga pressoché ogni discorso sull'eguaglianza a oscillazioni così frequenti e ripetute tra l'uno e l'altro schema di distinzione, da rendere assai difficile definire le diverse forme di ineguaglianza, il loro grado di tollerabilità sociale, la loro ragion d'essere.

Ciò spiega anche i principali motivi per cui, in ordine alla praticabilità effettiva delle condizioni che vincolano (per dir così) la fruizione dell'eguaglianza, la stessa eredità storica trasmessa da quest'idea possa alimentare riflessioni di segno opposto. Per taluni, nel momento in cui l'ideale dell'eguaglianza sociale, o della parità di status tra cittadini, si afferma quale valore politico essenziale, le ineguaglianze pratiche - di risorse, di opportunità, di tutela dei diritti - possono essere percepite e vissute come discriminazioni intollerabili. O tollerabili solo a patto che si reintroducano modelli di 'distinzione' in grado di rendere visibili e largamente accettabili le disparità di trattamento, in ragione della necessità di tutelare forme di esistenza o di appartenenza differenziate e, per loro natura, assai poco comunicanti. Per coloro i quali ritengono che l'eguaglianza sia un prodotto artificiale, una "costruzione sociale" (v. Harris, 2000), occorre viceversa farsi interamente carico dell'enormità dei problemi sollevati dal principio della pari ed eguale dignità umana.

Il riaccendersi delle discussioni attorno all'idea di eguaglianza viene così ad assumere - nei decenni conclusivi del Novecento - un duplice, rilevante significato. Il principio fondamentale dell'eguaglianza morale degli esseri umani, riportato in primo piano dalle teorie 'rivali' della giustizia e dell'equità, viene inevitabilmente a confrontarsi anche con la rete di tutte quelle diseguaglianze politicamente conservate o prodotte, le quali costituiscono l'effetto e al tempo stesso la causa di non poche delle trasformazioni (e delle connesse ridistribuzioni o nuove produzioni di potere) sia del welfare interno a ogni sistema statale, sia del sistema internazionale e della crescente globalizzazione. Rispetto alla questione del grado attuale e possibile di compatibilità tra le esigenze dell'egualitarismo e quelle del liberalismo, l'idea di eguaglianza risulta invece destinata a trascinare con sé, giocoforza, la riflessione tanto sui principî e sulle regole del liberalismo e della democrazia, quanto sulle ragioni (e persino sulle passioni ed emozioni) di cui è oggi intessuta l''obbligazione' posta alla base di ogni appartenenza, di ciascun livello di cittadinanza, di tutte le molteplici comunità e ordinamenti, che sempre più compongono - all'avvio del XXI secolo - le plurime 'parti' dei sistemi di convivenza politica interna e internazionale.

2. Equità, pluralismo e giustizia sociale nelle analisi contemporanee

Tra gli obiettivi principali delle teorie della giustizia e dell'equità (teorie differenti e tra loro spesso antagoniste), vi è quello di riuscire a formulare i criteri analitici in base ai quali stabilire se e come le ineguaglianze si possano considerare giuste o ingiuste, eque o inique, tollerabili o mortificanti, utili o dannose per il benessere degli individui e delle collettività. Ognuna di queste antinomie, però, già presuppone - lo ha notato correttamente Amartya Sen (v., 1980; tr. it., p. 42) - una (qualche) risposta all'interrogativo che, nella sua formulazione più diretta ed esplicita, è sintetizzabile come segue: "eguaglianza di che cosa?". Si può infatti trattare di eguaglianza delle utilità o del benessere materiale, ovvero delle opportunità o delle "capacità" - come ha preferito considerarle lo stesso Sen - per mezzo delle quali realizzare le proprie disposizioni e preferenze. Di conseguenza, e proprio per questo motivo, ciascuna teoria finisce quasi inesorabilmente col privilegiare "interpretazioni diverse dell'idea fondamentale dell'eguaglianza morale degli esseri umani" (v. Carter, 2001, p. 12).

In realtà, per quanto distanti possano risultare tra loro, tutte queste interpretazioni sono accomunate da qualcosa di più specifico che non il semplice riconoscersi unanimemente nell'idea dell'eguaglianza, declinata nel più ampio senso della pari "dignità" umana (v. Williams, 1962; tr. it., p. 28). L'elemento che più profondamente unisce tali teorie è infatti l'intento di chiarire se e in qual modo la realizzazione di un simile principio possa rivelarsi compatibile con la salvaguardia della "equità": un'equità da intendersi non solo e non tanto come giustizia del caso singolo (jus aequum), bensì e soprattutto quale correttivo della giustizia sociale, sia quest'ultima distributiva o commutativa, idealmente egualitaria o necessariamente inegualitaria.

Ricostruire, anche se brevemente, i termini principali o più ricorrenti degli attuali dibattiti su eguaglianza ed equità risulta pertanto indispensabile. La loro astrattezza e difficoltà (talvolta effettive, talaltra più apparenti o convenzionali) - così come la loro discontinuità rispetto alle riflessioni e analisi che hanno attraversato il pensiero europeo dalla seconda metà dell'Ottocento a tutta la prima parte del Novecento (v. Runciman, 1966) - non devono distrarci dal fatto che proprio in tali discussioni si manifestano appieno i problemi e le possibili prospettive di ogni idea di eguaglianza rispetto alla realtà sia del persistere di tradizionali forme (e cause) di ineguaglianze, sia e soprattutto dell'accentuarsi o profilarsi, nel passaggio dal XX al XXI secolo, di forme nuove e di imprevisti fattori di ulteriori, più minacciose e destabilizzanti ineguaglianze. Essendo ancora viva nei più recenti dibattiti l'influenza dispiegata dalle originali riflessioni di John Rawls e di Robert Nozick, conviene ripartire da questi due autori per renderci conto dei differenti modi in cui il tema dell'eguaglianza può essere inteso essenzialmente (e poi traslitterato politicamente) in termini di equità.

Le ineguaglianze sociali ed economiche - all'interno della teoria della giustizia di Rawls (v., 1971), e particolarmente in quella sua parte che va sotto il nome di "principio di differenza" - si possono considerare eque nella misura in cui contribuiscono a favorire, a conti fatti, anche un miglioramento di coloro che occupano la posizione peggiore nella società (v. Sandel, 1982). Nella prospettiva della "teoria del titolo acquisito" (entitlement theory) formulata da Nozick (v., 1974), occorre invece considerare non già le finalità, bensì il processo di ripartizione di quelle opportunità (di lavoro, di remunerazione economica, di prestigio), la cui equità va giudicata solo ed esclusivamente sulla base del fatto che le posizioni di vantaggio sono state conseguite in modo tale da non precludere agli altri l'accesso alle risorse disponibili nello "stato di natura" (ovvero nella condizione che Rawls, pur con implicazioni assai diverse, indica e analizza come la "posizione originaria").

Nelle dispute sul tema della giustizia sociale, nondimeno, l'eguaglianza figura in maniera talmente prominente che persino un autore come Nozick - dichiaratamente anti-egualitario rispetto alle norme distributive, anche se non contrario all'idea di eguaglianza - è costretto a ricorrere a un argomento egualitario, allorquando invoca il principio per cui ognuno ha un eguale diritto a godere di ciò che ha ottenuto dagli altri in modo lecito e senza prevaricazione. Solo che, diversamente da quanto accade in altre formulazioni egualitarie, per Nozick l'uguaglianza si applica in modo esclusivo alla sfera dei diritti lecitamente acquisiti. In tal senso, allora, è del tutto naturale che possa "sorgere un conflitto fra chi sostiene l'eguaglianza di qualche variabile diversa dalla libertà (come il reddito o la ricchezza o il well-being) e chi vuole soltanto eguale libertà" (v. Sen, 1980; tr. it., p. 42). Di nuovo, e con forza maggiore, rispunta allora l'interrogativo: "eguaglianza di che cosa?".

Il principio del "titolo acquisito", a onor del vero, è qualificabile come egualitario solo nella misura in cui si estende universalmente a tutti coloro i quali ne sono investiti allo stesso e (appunto) "eguale titolo". Certamente non è tale, invece, per il modo in cui risulta distribuito. In sostanza, richiamando le distinzioni e i termini impiegati da Felix E. Oppenheim (v., 1980), si potrebbe concludere che l'egualitarismo, cui pare obbligato a piegarsi anche Nozick, si applica esclusivamente come rule of selection universale: vale a dire, come regola dai cui benefici e oneri nessuno può essere escluso in linea di principio. Esso non vale affatto, invece, come rule of apportionment, dal momento che le quote di libertà (intese quali beni e risorse d'azione) potrebbero essere ripartite in maniera più che diseguale, a seconda delle capacità e dei talenti naturali degli individui.

Quest'ultima prospettiva, com'è facile intuire, ha sollevato il maggior numero di obiezioni. E continua ad alimentare critiche o perplessità, non tanto per gli esiti anti-egualitari cui una tale prospettiva condurrebbe sotto il profilo del cosiddetto "egualitarismo dei risultati", quanto perché essa sembra non prendere in seria considerazione le differenze tra le posizioni di partenza (v. Cohen, 1995). Il fatto di ignorare la questione della eguaglianza delle opportunità, o di darla per scontata, rappresenterebbe da questo punto di vista il limite maggiore della teoria dei diritti acquisiti, giacché in questo modo si finirebbe col sostenere la "inoppugnabilità delle ineguaglianze dovute al puro caso" (v. Somaini, 2002, p. 62).

In effetti (anche se occorre notare, almeno di sfuggita, che l'impianto argomentativo della teoria del titolo acquisito potrebbe illuminare, anziché occultare, il problema delle strategie di 'chiusura sociale' delle opportunità: v. Haller, 1993), il rapporto tra eguaglianza e caso ha ormai conquistato un posto centrale in quel campo di analisi delle opportunità cui si è andata rapidamente indirizzando molta parte del dibattito politico sull'idea di eguaglianza. Non vi sarebbe neppure motivo di teorizzare l'egualitarismo distributivo (di qualsiasi tipo lo si voglia immaginare), se non riconoscessimo che molte delle posizioni di svantaggio sociale ed economico sono imputabili non già alla responsabilità o al demerito di chi le occupa, bensì al "puro caso": cioè quel brute luck, che va distinto - come ha fatto Ronald Dworkin (v., 2000) - dall'option luck, ovverosia il "caso opzionale", non di rado foriero di avversità in qualche modo messe in conto da chi decide di fare scelte altamente rischiose.

Per quanto possa apparire recisa (e poco sensibile a quelle dimensioni psicologiche che, insieme alle rappresentazioni sociali, risultano sempre connesse a ogni scelta individuale), la distinzione tra "caso puro" e "caso opzionale" è sicuramente utile a inquadrare con maggior precisione il problema della responsabilità all'interno delle discussioni intorno all'eguaglianza distributiva. In maniera per certi versi analoga a quella per cui Rawls si trovò a richiamare l'ambigua funzione del "velo di ignoranza", anche Dworkin muove dal presupposto che i singoli abbiano una naturale "avversione al rischio", e che quindi siano propensi a garantirsi il più possibile da future evenienze sfavorevoli. Una tale prospettiva implica l'ipotesi secondo cui sussistono fattori aleatori di diseguaglianza che potrebbero essere corretti o compensati solo stipulando contratti di assicurazione reciproca, in grado di mettere gli individui al riparo (almeno in parte) da una sorte sfavorevole. In sostanza - ma vedremo meglio più avanti quali siano i concreti risvolti di una tale teoria - si tratta di configurare e congegnare una serie di meccanismi assicurativi alla cui formazione dovrebbero provvedere sia le libere transazioni di mercato, sia le politiche pubbliche distributive indirizzate a coloro i quali non sono in condizione di potersi garantire da e per se stessi.

Le argomentazioni di Dworkin, oltre a numerosi problemi in ordine all'egualitarismo delle opportunità, pongono questioni di natura etica e pratica rispetto alle quali la teoria politica contemporanea è ancora lungi dal riuscire a prospettare soluzioni adeguate e universalmente persuasive: a cominciare dall'individuazione del puro caso, o della gratuità delle motivazioni che possono avvantaggiare oppure danneggiare i singoli (il colore della pelle, per esempio), fino a giungere al riconoscimento delle condizioni di povertà e di esclusione sociale dovute a responsabilità proprie o al caso opzionale (condizioni, queste, che secondo Dworkin non dovrebbero prevedere il benché minimo diritto a essere tutelati dalla collettività). Ma lo stesso si può oggi affermare, con ogni evidenza, di qualunque altra teoria egualitaria, sia essa di tipo distributivo oppure selettivo, commutativo o proporzionale.

Poiché non sembra vi possa essere un modo alternativo di concepire l'eguaglianza a partire dai singoli punti di vista personali, parrebbe allora indispensabile assumere un "punto di vista impersonale", una sorta di 'punto archimedeo', che Thomas Nagel (v., 1991; tr. it., p. 12) ha descritto così: "Il punto di vista impersonale produce in ciascuno di noi [...] una richiesta molto forte di imparzialità e uguaglianza universali, mentre il punto di vista personale genera motivazioni individualistiche e avanza richieste che sono di ostacolo al perseguimento e alla realizzazione di quegli ideali".

La formazione di un simile "punto di vista impersonale" sembra voler dare corpo a una rinnovata utopia, che lo stesso Nagel considera come una sorta di "sguardo da nessun luogo" (view from nowhere). E, se non risulta ingiustificato domandarsi quali siano le ragioni pratiche che presiedono al formarsi di questo punto di vista, difficile è oggigiorno illudersi di poter trovare la risposta a un simile quesito attraverso la ricerca di una 'ubiquità' dei sentimenti di giustizia e di eguaglianza sociale. In realtà, quello "sguardo da nessun luogo" che dovrebbe fornire il punto di vista impersonale e imparziale intorno all'idea di eguaglianza intende soprattutto cogliere il fenomeno dell'imprevedibile e vorticoso avvicendarsi intergenerazionale (se non addirittura infragenerazionale) delle posizioni di rendita e dei ruoli di preminenza. In altre parole, un modello di convivenza imparziale si potrebbe affermare solo in ragione della consapevolezza del fatto che, all'interno delle società postindustriali e progressivamente globalizzate, gli insiders che fruiscono delle prestazioni assicurative del Welfare State potrebbero diventare in futuro degli outsiders, così come nei mercati del lavoro a più alto tasso di mobilità e di sviluppo tecnologico il repentino moltiplicarsi delle nuove occupazioni potrebbe preludere a un loro altrettanto rapido "esubero" (v. Bauman, 1999; tr. it., p. 180).

Certo, tutto ciò non accade (soltanto) per puro caso. Ogni forma di società può ambire a durare a lungo nel tempo esclusivamente a condizione di disporre di un qualche "ordine di successioni" che miri "espressamente a favorire l'adeguamento delle aspirazioni alle opportunità, dei bisogni alle possibilità" (v. Bourdieu, 1997; tr. it., p. 228). Una tale prospettiva, proprio perché lascia scorgere la visione di una pluralità e multiformità di "campi" (politico, economico, scientifico, familiare, e così via) da cui sono variamente regolate le "posizioni" e le "disposizioni" individuali, rende ben poco plausibile - se non del tutto insensata - la pretesa di immaginare un sistema unitario di principî applicabile alla distribuzione di un unico valore. Quest'ultima tesi, giudicata eccessivamente 'conservatrice' quando a esprimerla è, a suo modo, uno studioso quale Michael Oakeshott (v., 1991), e valutata non meno radicalmente 'progressista' quando enunciata da un sociologo come (appunto) Bourdieu, ha una delle sue formulazioni più sistematiche e originali nell'opera di Michael Walzer (v., 1983).

L'originalità dell'elaborazione di Walzer (una delle poche fondata su un'analisi dell'eguaglianza che dichiaratamente contravviene all'impegno di costruire un modello tendenzialmente universalistico di giustizia distributiva) sta nel postulare un universo pluralistico di principî distributivi. Tali principî possono dare vita a molteplici "sfere di giustizia", come egli suggestivamente le definisce; e ciascuna sfera - sia essa politica, economica, religiosa, affettiva, e via dicendo - può presentare una conformazione più o meno egualitaria riguardo alla distribuzione delle risorse e dei valori che le sono propri. Ciò che importa, secondo Walzer, non è tanto il fatto che all'interno dell'una o dell'altra sfera di giustizia si possano produrre situazioni di forte disparità nel possesso delle risorse (o, al limite, di "monopolio" nella distribuzione dei valori), quanto che non si vengano a determinare posizioni di "dominanza" di una sfera sulle altre. Le democrazie liberali - assai più dell'obiettivo di realizzare all'interno di ciascuna sfera la "eguaglianza semplice" (di per sé non sempre desiderabile e, anzi, persino dannosa in talune circostanze) - dovrebbero porsi la finalità di conseguire la "eguaglianza complessa" fra le differenti sfere. È questo infatti il solo modo di evitare, anche e soprattutto negli attuali sistemi in cambiamento delle democrazie (o poliarchie), quegli effetti di dominanza che, per esempio, consentono alle posizioni di monopolio economico di penetrare e riprodursi con facilità nella sfera della politica e della competizione partitica.

Benché lasci irrisolta l'esigenza di chiarire se, e con quali concreti dispositivi, dentro le odierne democrazie si debbano e si possano disciplinare (o anche, nella sua accezione più ampia, 'costituzionalmente' regolamentare) le interazioni e i conseguenti effetti di dominanza o di ineguaglianza tra le differenti sfere di giustizia (v. Somaini, 2002, pp. 187-189), la concezione pluralista dell'eguaglianza cerca di rispondere il più possibile alle questioni aperte dalle trasformazioni già avvenute, e da quelle da poco in atto, nei tradizionali sistemi di organizzazione, garanzia e promozione dell'eguaglianza. L'ineguaglianza come realtà pluridimensionale caratterizza sempre di più ogni 'parte' interdipendente con tutte le altre del sistema globale. E la distanza crescente tra le posizioni attuali o attese di individui, gruppi, comunità, se da un lato irrigidisce e stratifica gli status e la loro originaria varietà, dall'altro rischia di trasformare nuovamente il principio di eguaglianza in una formula combinatoria di vecchi e nuovi schemi ideologici.

3. L'ineguaglianza come realtà pluridimensionale: 'non equità' del Welfare State e 'disparità' nelle relazioni internazionali

L'impianto previdenziale e assicurativo, che per diverso tempo ha costituito il cuore dei tradizionali modelli di Welfare State e uno dei più sensibili 'nervi di governo' della politica di massa (v. Ornaghi, 2000), si trova oggi nella condizione - neppure troppo paradossale - di alimentare ulteriori ineguaglianze. Le forme di ineguaglianza, generate politicamente per via diretta o in modo indotto, si sono allargate e moltiplicate non solo e semplicemente tra coloro che risultano ammessi a fruire dei servizi dello Stato e coloro che ne sono esclusi, ma anche e soprattutto tra i differenti circuiti di erogazione del welfare, a partire da quelli assistenziali predisposti dai privati (nell'ambito familiare o nel campo del volontariato), per arrivare a quelli previdenziali gestiti direttamente dal sistema statale. Questi diversi circuiti vengono così a detenere una 'cittadinanza differenziata', in ragione del corrispettivo riconoscimento (economico-finanziario, giuridico, politico) concesso dallo Stato affinché essi possano attivarsi dentro le proprie specifiche sfere di valore.

Nei termini della teoria formulata da Walzer, pertanto, si potrebbe affermare che il monopolio esercitato dai governi statali nel settore della previdenza, se è di ostacolo al tendenziale raggiungimento della "eguaglianza semplice" (con riguardo in particolare a coloro che non dispongono di risorse previdenziali aggiuntive rispetto a quelle universalmente garantite dal sistema di welfare), si frappone altresì al principio della "eguaglianza complessa" fra le differenti sfere distributive, entro cui si dispongono - non importa se in modo egualitario o gerarchico - i valori, i bisogni, le risorse provenienti dalle famiglie, dai gruppi primari o dalle associazioni di volontariato. Una simile prospettiva appare assai congeniale alle numerose analisi che, oggigiorno, tendono a fermare l'attenzione sulla necessità di predisporre un sistema assistenziale pluralistico, grazie al quale si possano stabilire relazioni paritetiche tra i molteplici e differenziati circuiti erogativi del welfare.

Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che una tale esigenza si ponga in contrasto con i tentativi di universalizzare il principio egualitario. Stagnazione burocratico-istituzionale e deficit di consenso, sempre più incombenti sui tradizionali sistemi di Welfare State, sono infatti da addebitare in buona misura alla loro incapacità di riconoscere e fronteggiare le "diseguaglianze di rischio" a cui vanno incontro i differenti strati della società. Non va dimenticato che, a tale scopo, gli Stati possono stipulare con i singoli individui, o con i nuclei familiari, diverse forme di "contratti assicurativi", proprio nel senso esplicitato da Dworkin e qui ricordato poco sopra. Una prima forma è quella consistente nel collettivizzare i rischi in maniera universale, così da far gravare sull'intera collettività il peso dell'assistenza previdenziale, indipendentemente dalle situazioni individuali di rischio. La seconda e più diffusa modalità previdenziale assume un carattere corporativo, nella misura in cui si presceglie di tutelare gli individui sulla base della loro collocazione socio-economica e occupazionale. Infine, vi possono essere forme di assistenza residuale, nel senso che il sostegno pubblico è limitato a precisi strati ad alto rischio, come nel caso di coloro i quali vivono al di sotto della soglia ufficiale di povertà (v. Esping-Andersen, 1999; tr. it., pp. 75-76).

Ciascuno di questi criteri, a sua volta, genera evidentemente ineguaglianze, che vanno messe nel conto della scelta tra i differenti "modelli di solidarietà" (v. Ferrera, 1993). Il principio universalistico determina una manifesta disparità dal lato dei contribuenti, là dove si prevede un prelievo pro capite (uniforme o progressivo) quale contropartita per quelle misure di sicurezza sociale che, come l'assistenza sanitaria di base, dovrebbero tutelare tutti i cittadini senza riguardo alla capacità contributiva di ciascuno di loro. D'altra parte, il modello corporativo genera forme di chiusura sociale a cui corrispondono profonde e durature differenziazioni di trattamento non solo e non tanto tra le diverse categorie lavorative, quanto piuttosto tra coloro che sono più o meno stabilmente insediati nel mercato del lavoro e coloro che ne sono del tutto esclusi. Da ultimo, il criterio residuale tende a perpetuare le ineguaglianze, se non addirittura a 'colpevolizzarle', com'è dimostrato dal fatto che proprio nei paesi più avanzati i destinatari dell'assistenza preferiscono addirittura non beneficiare delle misure di sostegno predisposte a loro favore, pur di sottrarsi a mortificanti prove di accertamento dell'effettivo stato di povertà o di bisogno nel quale versano.

La "multidimensionalità" delle ineguaglianze richiede di conseguenza "una pluridimensionalità dei livelli di comparazione" (v. Haller, 1993, p. 8). La richiede non solo all'interno delle singole società, fra gli strati e le molteplici cerchie sociali (o le classi: almeno per tutto ciò che, in termini non meramente simbolici, la realtà odierna e quella prevedibile nell'immediato futuro conservano e magari potenziano di un tale concetto), ma anche nei rapporti intercorrenti tra le differenti società e le diverse organizzazioni statali. Al procedere inarrestabile di quel complesso di fenomeni che sinteticamente chiamiamo globalizzazione, la 'disparità' tra Stati quale fonte e moltiplicatore di ulteriori ineguaglianze è infatti destinata a intrecciarsi sempre più con la multidimensionalità delle ineguaglianze interne a ciascuna comunità nazionale (v. Parsi, 2001). E nessuna distribuzione di risorse apparirà tendenzialmente e convincentemente egualitaria se non supererà - anche nel campo internazionale - il 'test dell'invidia', ossia se non verrà percepita, per dirla con Dworkin (v., 1993, p. 481), come idonea a produrre "una situazione in cui nessun membro della comunità invidia l'insieme di risorse possedute da un altro membro di essa".

Che dimensioni interne e dimensioni più genuinamente internazionali delle ineguaglianze vadano considerate congiuntamente, è una necessità ormai sottolineata da tutti coloro che si trovano a constatare come lo Stato sempre meno costituisca il centro principale (e, meno ancora, esclusivo) di imputazione di prassi e aspettative egualitarie.

La pretesa degli apparati statali del welfare di porsi quali artefici credibili di una cittadinanza egualitaria e solidale appare oggi gravemente compromessa, proprio perché essi hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo predominante nella gestione delle strategie di chiusura sociale. Oltretutto, per effetto di questo stato di cose, è lo stesso orientamento egualitario a ridiscendere verso il basso, nella scala di valori che presiede all'integrazione culturale e politica delle società con il più elevato tasso di crescita economica. La maggior parte dei sistemi occidentali di welfare, insomma, sembra non di rado inclinare pericolosamente verso un clima di sfiducia nei riguardi delle politiche egualitarie, non troppo dissimile nella sua sostanza da quello che ha accompagnato il fallimento del massiccio e coattivo "esperimento sociale dell'eguaglianza" nei paesi dell'Europa dell'Est (v. Lenski, 1978; v. Haller, 1993, p. 28).

D'altro canto, l'impossibilità per lo Stato di essere il principale centro di imputazione di prassi e aspettative egualitarie risulta accentuata proprio dallo scarto profondo e sempre più stridente tra il principio della 'eguale sovranità' delle nazioni e le enormi diseguaglianze nazionali o regionali che di fatto si riproducono o nascono all'ombra del vertiginoso aumento del commercio mondiale. A questo riguardo, assai più della classica e dibattuta teoria di Rudolf Hilferding sugli ostacoli che lo sviluppo del capitalismo su scala mondiale opporrebbe alla tendenziale perequazione o "equalizzazione" dei saggi di profitto, appare chiarificatrice la semplice registrazione del diffondersi e attestarsi di una nuova oligarchia finanziaria transnazionale. Un tipo di oligarchia o aristocrazia, questa, talmente slegata dalle dinamiche produttive e dai controlli democratici statali o interstatali da far pensare alla profezia con cui già Tocqueville (v., 1835-1840; tr. it., p. 652) ne descriveva la sua possibile rentrée nella vita democratica americana: "semmai la disuguaglianza permanente delle condizioni e l'aristocrazia penetreranno di nuovo nel mondo, si può prevedere che quella ne sarà la porta".

Di fronte alle odierne disparità internazionali e alla disposizione concentrica delle ineguaglianze, anche le comunità politiche particolari - un po' come accade per i singoli individui - si trovano a percepire un senso crescente di inquietudine e di insicurezza diffusa. L''ordine internazionale' attuale non lascia intravedere molto di autenticamente innovativo, al momento, rispetto ai principî di eguaglianza di quel sistema degli Stati-nazione al cui interno si sono venuti costituendo in passato i rapporti di egemonia tra i popoli (v. Hurrel, 1999). Del resto, se provassimo a cercare un ulteriore significato nell'analogia che meno di tre secoli orsono Emerich de Vattel (v., 17732) e altri teorici del diritto naturale andavano ripetendo a proposito dell'eguaglianza degli individui e di quella delle nazioni (v. Kingsbury, 1999), probabilmente lo si potrebbe trovare soltanto nel modo in cui ciascuna comunità politica particolare, proprio come ogni singolo individuo, tende ad accettare (o è costretta a subire) il gioco della disparità fra simili quale prezzo da sopportare per sentirsi parte di una 'famiglia di nazioni'. Con una rilevante differenza, però. Rispetto all'età di Vattel, oggi occorre prendere atto non già di una, bensì di più 'famiglie di nazioni'. Ossia, tante famiglie quanti possono essere i motivi ultimi e più basilari per i quali gli individui e le comunità politiche sono disposti a riconoscersi moderatamente eguali. O invece, magari e altrettanto non irragionevolmente, del tutto ineguali.

4. Ragioni dell'eguaglianza e prospettive dell'egualitarismo

Chiunque - allo scopo di privilegiare ben più concrete e fattibili politiche orientate ad affrontare una serie di ineguaglianze "locali" (v. Elster, 1992) - provi oggi a ravvisare una qualche utilità o convenienza nel lasciarsi alle spalle la pretesa di universalizzare l'ideale egualitario, rischia con ogni probabilità di essere assimilato alla sparuta schiera di coloro i quali si spingerebbero fino al punto di ritenere tollerabile un sistema di apartheid, purché in tal modo si sia in grado di assicurare efficacemente la parità di condizioni all'interno di differenti cerchie etniche o culturali rigorosamente separate l'una dall'altra.

Che storicamente sia sempre stato impervio tradurre in pratica l'idea di eguaglianza, è considerazione sin eccessivamente banale. Lo è anche come controdeduzione arrendevole rispetto alle considerazioni di chi, sulla base del continuo replicarsi dell'eguaglianza quale 'valore politico' destinato a restare naturalmente inappagato, può spingersi soltanto al punto di dialogare sulla necessità e sui modi di sacrificare il principio in sé, per far fronte a una gestione il più possibile 'razionale' delle innumerevoli e disordinanti ineguaglianze. Starebbe infatti in una simile gestione la sola risposta possibile a quell'irresistibile propensione che, pur camuffata in mille modi, sospinge gli individui a non voler mai essere considerati realmente eguali, così da potere non solo dolersi di avere qualcosa di meno degli altri, ma anche disporre pubblicamente di qualcosa di più. Pure in questo caso, soprattutto se la si confronta col valore della libertà, l'eguaglianza (v. Fioravanti, 1999) non risulta certamente l'anello più solido dentro quella 'moderna' triade ideale da cui queste pagine hanno preso avvio.

Eppure, è proprio l'ovvietà di una tale considerazione a imporre di chiedersi per quale motivo, tra quei pochi ed elementari 'sentimenti' che sembrano ancora risultare coessenziali alla vita non solo delle democrazie, ma anche di ogni politica di massa, soltanto quelli egualitari abbiano mostrato una così pervicace resistenza nei riguardi di qualunque tentativo o argomento tendente a ridimensionare il loro campo di validità operativa. È qui - ma il discorso diverrebbe davvero assai complesso - che le prospettive immediate dell'idea di eguaglianza convergono e si intersecano sia con quelle di un'antropologia non interamente ripiegata sul nesso moderno (e ormai antico) di congiunzione-disgiunzione tra umanesimo e scienza, sia con quelle di un'etica individuale e pubblica non riducibile a una rozza precettistica dagli scopi inevitabilmente utilitaristici, oltre che, in forma necessariamente connessa alle precedenti, con le prospettive di trasformazione già in atto nei rapporti tra società e istituzioni politiche dei regimi democratici.

Per delineare - sia pure di sfuggita - alcune di queste prospettive, può allora essere opportuno muovere da una constatazione semplice sì, ma anche pragmatica e (per dir così) realistica. A un diffuso sentimento egualitario non necessariamente può - e deve - corrispondere una disponibilità altrettanto generalizzata a farsi carico degli oneri imposti da un maggior senso di solidarietà tra simili. È questo uno dei "paradossi dell'eguaglianza" evidenziati da Nagel (v., 1991), secondo cui i sentimenti egualitari, che chiunque potrebbe nutrire dal "punto di vista impersonale", sono destinati a scontrarsi inevitabilmente con quei calcoli di convenienza attraverso i quali ognuno si trova a valutare - dal proprio punto di vista personale - i sacrifici da sopportare allo scopo di ridurre le ineguaglianze di trattamento e di opportunità tra gli individui, i gruppi o le nazioni.

Abbiamo già accennato alla necessità di considerare le ragioni pratiche che potrebbero presiedere al formarsi del punto di vista impersonale in materia di politiche distributive. Si tratta, in definitiva, di un argomento che, formulato sotto i più disparati profili da filosofi e teorici della politica, ha pur sempre l'intento di dimostrare (ne troviamo conferma anche in questo caso) come sia indispensabile 'spersonalizzare' l'interesse all'egualitarismo, affinché si possa concepire un punto di vista imparziale sui sentimenti di giustizia e di equità sociale. Rimane però il fatto che le ragioni pratiche sottostanti a un simile punto di vista impersonale non si trovano usualmente in un "interesse politico neutrale" (v. Kymlicka, 1989) - né, ancor meno, nella negazione dell'egoismo personale a beneficio della generosità universale - bensì nel senso di insicurezza e di avversione al rischio con cui i singoli individui potrebbero considerare l'inasprirsi delle ineguaglianze sociali, ovvero nell'interesse strategico dei gruppi più favoriti ad assicurarsi la collaborazione di quelli più svantaggiati. Assai difficilmente, insomma, tali ragioni arriverebbero a superare quel "test di universalità" attraverso cui, secondo Friedrich von Hayek (v., 1973-1979; tr. it., p. 215), si sarebbe dovuta giudicare l'effettiva "riuscita" delle regole adottate dalle società liberali.

Eppure, proprio la 'parzialità' con cui il più delle volte si manifesta l'interesse per l'egualitarismo consente di capire perché un'idea dal carattere così polimorfo e resistente come quella di eguaglianza continui a riproporsi incessantemente, nonostante tutto, quale termine di riscontro e pietra di paragone degli ideali democratici. Sotto questo profilo, più che considerare l'universalità del principio egualitario, occorre soffermarsi sulle concrete 'strategie di universalizzazione' dell'eguaglianza (o, magari, della stessa ineguaglianza). E ricordare ciò che, pur con riferimento ad altri contesti, ha osservato Bourdieu (v., 1997; tr. it., p. 130): "Se l'universale avanza, il suo avanzare dipende dal fatto che esistono microcosmi sociali i quali, al di là di un'ambiguità intrinseca, legata alla loro chiusura nel privilegio e nell'egoismo soddisfatto di una separazione statutaria, sono il luogo di lotte vertenti sull'universale e in cui agenti mossi, a gradi diversi e commisurati alla loro posizione e alla loro traiettoria, da un interesse particolare all'universale, alla ragione, alla verità, alla virtù, ricorrono ad armi che sono semplicemente le conquiste più universali delle lotte precedenti".

Allo stesso modo si potrebbe infatti dire che, se le logiche egualitarie - sia pure all'interno di differenti "sfere di giustizia" più o meno gerarchiche o stratificate - procedono verso un maggior grado di universalità, è perché sussistono campi d'azione regolati da un "interesse particolare all'eguaglianza universale". Proprio come accade nei casi in cui è lo stesso perseguimento degli interessi particolari a dischiudere la strada alla cosiddetta 'democrazia degli interessi' e alle istituzioni che ne disciplinano il funzionamento, così le strategie di universalizzazione dell'eguaglianza conservano in se stesse le tracce delle ineguaglianze, o più specificamente degli effetti di 'dominanza', che le hanno in qualche modo attivate, orientate e magari persino esaltate.

Solo per tale via, con ogni probabilità, un 'valore' come quello di eguaglianza può costituirsi - per dirla col titolo dell'opera di Dworkin (v., 2000) - in autentica "virtù sovrana" di una democrazia che intenda rafforzarsi e migliorarsi, di fronte ai grandi processi di cambiamento interni e internazionali. Ossia, una democrazia in grado di coniugare il consenso selettivo su cui poggiano le odierne poliarchie con il principio inclusivo da cui promana la rappresentanza democratica; il governo di minoranze più o meno intensamente motivate con il rispetto degli orientamenti egualitari delle maggioranze; la discrezionalità delle nuove forme di governance con la legittimazione proveniente dal coinvolgimento delle masse. In breve, la pluralità degli interessi con la "democrazia delle passioni" (v. Duclos, 1996; v. Ornaghi e Cotellessa, 2000).

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