Elusione e abuso del diritto [dir. trib.]

Diritto on line (2014)

Mauro Beghin

Abstract

Viene esaminata la disciplina fiscale dell’elusione tributaria siccome desumibile dall’art. 37-bis del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 soffermandosi altresì sul “prodotto giurisprudenziale” del cd. “divieto di abuso del diritto”.

La distinzione tra evasione ed elusione tributaria. L’elusione come “tassazione differenziale”

Nelle fattispecie dell’evasione fiscale il contribuente nasconde al Fisco, in tutto o in parte, la ricchezza che egli dovrebbe indicare nella propria dichiarazione. L’evasore paga perciò un’imposta inferiore rispetto a quanto dovrebbe e tale minore versamento è commisurato a fatti, atti, attività e, in genere, situazioni economiche che si sono concretamente verificate e che il suddetto contribuente tiene nascoste all’Amministrazione finanziaria, omettendo di riportarle – come precisato – nella propria dichiarazione. Nell’evasione tributaria, il reddito nascosto è un reddito reale, concreto; il patrimonio occultato è, del pari, un patrimonio esistente, tangibile; il volume d’affari Iva celato al Fisco non rappresenta un dato di fantasia, bensì un dato effettivo, che il contribuente occulta come può, magari confidando nella possibilità di non essere scoperto, nell’inefficienza degli uffici finanziari oppure nella speranza di un “condono riparatore”.

Lo scenario muta radicalmente quando si parla di elusione tributaria.

Non c’è dubbio che, anche nell’elusione, il contribuente versi un’imposta inferiore rispetto a un’altra. Ma questa minore imposta, diversamente da quanto si verifica nell’evasione, è commisurata a un fatto, a un atto oppure a un’operazione economica che il contribuente non ha mai posto in essere, ma che, ad avviso dell’ente accertatore, avrebbe dovuto porre in essere.

L’elusione risponde, quindi, a un modello di tassazione “differenziale”. Il contribuente realizza, in concreto, l’operazione che potremmo chiamare “elusiva”, ma l’Amministrazione finanziaria manda a tassazione, attraverso il proprio provvedimento impositivo, un’altra operazione: si tratta dell’operazione “elusa”, vale a dire quella che il contribuente, nel ricercare il percorso per lui più favorevole, si è guardato bene dal realizzare. Nel procedere in questa direzione (e nell’accertare, dunque, l’elusione tributaria), l’Agenzia delle entrate è tenuta a scomputare dall’imposta dovuta sull’operazione elusa l’imposta concretamente versata dal contribuente sull’operazione elusiva, come si evince inequivocabilmente dall’art. 37-bis, co. 2, d.P.R. 29.9.1973, n. 600. Per questo siamo di fronte ad uno schema di tassazione “differenziale”.

Sulla base di queste prime osservazioni, esiste, pertanto, un elemento che accomuna le fattispecie di evasione e quelle di elusione: il versamento di un’imposta inferiore rispetto a un’altra. Tuttavia, mentre nell’evasione la maggiore imposta dovrebbe essere versata in virtù di fatti economici concretamente realizzati dal contribuente (il reddito, il fatturato, il patrimonio, il consumo, la spesa, ecc.), nell’elusione la maggiore imposta richiesta dal Fisco si riferisce a fatti economici non realizzati dal contribuente, ma che il contribuente avrebbe dovuto porre in essere se non avesse aggirato la disciplina fiscale per lui più gravosa.

In questa prospettiva si può pertanto affermare che, quando si parla di elusione fiscale, ci si riferisce a un contribuente il quale, scegliendo un particolare percorso negoziale (quello dell’operazione “elusiva”), si assicura un risparmio rispetto a un altro percorso (quello dell’operazione “elusa”), più impegnativo dal punto di vista delle imposte da versare.

Ci chiediamo pertanto: è lecito realizzare pianificazioni fiscali nella prospettiva di ridurre, se non addirittura azzerare, il carico fiscale? La pianificazione fiscale è sottoposta a un limite, oltre il quale essa si trasforma in pianificazione fiscale “illecita” e, pertanto, contrastata dal sistema? Ed ancora: quello di “elusione fiscale” è un concetto adattabile a qualsiasi tributo oppure esso riguarda solamente talune tipologie di prelievo previamente selezionate dal legislatore?

L’elusione e la pianificazione fiscale

È opportuno avviare il discorso con qualche considerazione sugli atti e sulle attività riconducibili al concetto di “pianificazione fiscale”, attraverso le quali il contribuente, nel porre in essere talune operazioni, cerca di diminuire il carico tributario e, se possibile, di eliminarlo. Per esempio, dovendo eseguire un’operazione di riorganizzazione societaria, le parti potrebbero interrogarsi sull’opportunità di conferire un’azienda piuttosto che permutarla o venderla; le stesse parti potrebbero interrogarsi – sempre nella prospettiva del “pagare di meno” – sull’opportunità di sostituire al conferimento di azienda una scissione. Ancora: dovendo mettere a disposizione di un determinato soggetto alcuni beni strumentali, l’imprenditore potrebbe interrogarsi sulla convenienza a venderli piuttosto che a locarli, mentre, nella prospettiva di avviare una nuova attività economica, ci si potrebbe interrogare sull’opportunità di impiantarla in un Paese piuttosto che in un altro; se utilizzare dipendenti italiani o non italiani; se optare per la forma della società di persone o per quella della società di capitali.

È chiaro che non ci stiamo riferendo ad abbattimenti dell’imposta caratterizzati dall’occultamento totale o parziale di un fatto economico oppure da funambolici esercizi sul filo dell’interpretazione del diritto, perché, se così fosse, si sconfinerebbe nell’evasione fiscale, con le conseguenze ben note al lettore (notifica dell’avviso di accertamento da parte dell’Ufficio fiscale; liquidazione e richiesta della maggiore imposta dovuta; inoltre, irrogazione delle sanzioni tributarie).

Ci stiamo riferendo, al contrario, a situazioni nelle quali i fatti sono integralmente rappresentati al Fisco e ben qualificati sul piano giuridico, pur nel contesto di una sequenza operativa che permette di ridurre l’onere impositivo rispetto a operazioni capaci di garantire un analogo risultato.

In questa prospettiva, la scelta di un regime fiscale più vantaggioso e il conseguente risparmio d’imposta non sono certamente vietati dal nostro ordinamento, né osteggiati dall’ordinamento sovranazionale. Sono ricorrenti le pronunce della Corte di Giustizia UE – ma anche alcune pronunce della nostra Corte di cassazione – che elevano a principio generale del diritto dell’economia la libertà di orientare le proprie scelte anche o esclusivamente in considerazione del peso fiscale che ad esse la legge colleghi (si veda sent. C-196/04, Cadbury Schweppes; commentata da Beghin, M., La sentenza Cadbury Schweppes e il “malleabile” principio della libertà di stabilimento, in Rass. trib., 2007, 983 ss.).

In presenza di regimi fiscali che il sistema proponga come strutturalmente alternativi (ad es. la scelta di costituire una società come società di capitali anziché come società di persone; la scelta di collocare la sede operativa in Italia oppure all’estero; la scelta di optare, laddove previsto, per il regime di tassazione per trasparenza; l’opzione per l’applicazione delle disposizioni sul consolidato fiscale), vale a dire dotati di pari dignità, il contribuente può decidere di realizzare l’operazione alfa piuttosto che l’operazione beta con l’obiettivo di “pagare di meno”. È dunque da escludere che l’Amministrazione finanziaria, di fronte a scelte che sono metabolizzate dal sistema (ergo, prive di forzature rispetto alle indicazioni che dal sistema stesso promanano) possa imporre al contribuente, attraverso i propri provvedimenti impositivi, l’adozione della linea operativa per lui più onerosa.

La pianificazione fiscale, pur riconosciuta – come detto – a livello di principio, può tuttavia trovare un limite normativo. Di fronte a soluzioni particolarmente aggressive sul versante fiscale, il legislatore può in effetti impedire il consolidamento di taluni vantaggi (sotto forma di riduzione delle imposte da versare oppure di rimborso di imposte già versate)i quali presentino profili di contrarietà rispetto ai principi emergenti dal nostro sistema (con l’espressione “spirito del sistema” intendiamo riferirci agli elementi strutturali emergenti dalla disciplina riguardante le imposte sul reddito o altri tributi per i quali si pone, appunto, la questione della elusione. Ad esempio, le scelte negoziali effettuate dal contribuente non dovrebbero condurre a risultati contrastanti con le regole generali in punto di detrazione dell’Iva, di riporto delle perdite fiscali pregresse, di neutralità delle operazioni straordinarie, di coordinamento tra la fiscalità della società e la fiscalità dei soci e così via).

Pertanto, affinché si possa configurare l’elusione non è sufficiente che l’operazione alfa, concretamente effettuata, abbia condotto il contribuente al medesimo risultato che questi avrebbe raggiunto se avesse compiuto l’operazione beta. Serve un quid pluris, vale a dire un risparmio d’imposta contrastante con lo spirito del sistema. Un vantaggio fiscale, in definitiva, “qualificato”.

Conseguentemente, la pianificazione fiscale potrà condurre, di volta in volta, a vantaggi tributari leciti (vale a dire, conformi al sistema), dei quali il contribuente può tranquillamente profittare. Ma la pianificazione fiscale potrà condurre anche a vantaggi fiscali che il sistema disapprova (elusivi), in relazione ai quali vanno azionati i procedimenti amministrativi previsti per il contrasto di tali fattispecie.

È questa la linea sulla quale si è mosso il nostro legislatore mediante l’emanazione della l. 29.12.1990, n. 408 (vedi l’art. 10) e, dipoi, con l’inserimento, nel corpo del d.P.R. n. 600/1973, dell’art. 37-bis (sulla possibilità di contrastare i fenomeni elusivi anche attraverso la strumentazione civilistica – segnatamente, con l’applicazione dell’art. 1344 c.c. – vedi, per i casi riconducibili al dividend washing e al dividend stripping, Cass., sez. trib., 21.10.2005, n. 20398, in Riv. giur. trib., 2006, 19; Cass., sez. trib., 26.10.2005, n. 20816, in Banca Dati BIG, IPSOA; Cass., sez. trib., 14.11.2005, n. 22932, in Corr. trib., 2006, 555, e in Riv. giur. trib., 2006, 212, con commento di Beghin, M., L’usufrutto azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione tributaria e interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale).

Stando a quest’ultima disposizione (art. 37-bis), originariamente limitata al comparto delle imposte sul reddito ma oggi applicabile anche in altri settori impositivi (per esempio, all’imposta sulle successioni e sulle donazioni; è invece discussa l’applicabilità della disposizione all’imposta di registro, alla luce di quanto stabilito dall’art. 53-bis del d.P.R. 26.4.1986, n. 131; per l’applicabilità all’imposta di registro cfr. Tabellini, P. M., L’elusione della norma tributaria, Milano, 2007, 212 ss., contra, Cerrato, M., Elusione fiscale ed imposizione indiretta nelle operazioni societarie, in Maisto, G., a cura di, Elusione ed abuso del diritto tributario, Quaderni della Rivista di diritto tributario, Milano, 2009, n. 4, 387 ss.), i tratti caratteristici dell’elusione fiscale declinano sul duplice fronte (a) del vantaggio fiscale e (b) della contrarietà del medesimo vantaggio rispetto al sistema. La stessa disposizione prevede, sul piano delle esimenti, la non elusività delle operazioni che, pur finalizzate all’ottenimento di vantaggi tributari asistematici, siano state realizzate sulla base di valide ragioni economiche. È doveroso soffermarsi un poco su questi passaggi, prendendo le mosse dal concetto di “vantaggio fiscale”.

I vantaggi fiscali sindacabili sul piano dell'elusione

L’elusione tributaria non costituisce un problema di “percorsi”, bensì di “risultati” (cfr. Beghin, M., Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra Fisco e contribuente, in Riv. dir. trib., 2009, II, 412). A poco importa che il contribuente si sia assicurato un determinato vantaggio seguendo il percorso alfa, il percorso beta oppure il percorso gamma. Conta, invece, che quel risultato sia effettivamente conseguito e che esso possa reputarsi in contrasto rispetto al sistema fiscale di riferimento (per esempio, rispetto al sistema delle imposte sul reddito e, con riguardo a questo, rispetto ai micro-sistemi di disposizioni riguardanti la deducibilità dei costi, i rapporti società-soci, la regola della competenza, le norme in punto di utilizzo e riporto in avanti delle perdite fiscali e così via). Certamente: l’impiego di percorsi anomali, inadeguati o inusuali può essere indicativo della volontà del contribuente di ricercare un vantaggio asistematico. Si tratta, però, di un semplice indizio, che non declina solo per questo in presupposto dell’elusione. Se così fosse (e, dunque, se si ragionasse sull’equazione “percorso negoziale anomalo = elusione”), si dovrebbe dire che tanto più l’operazione è diretta, lineare, usuale, tipica e ricadente nel circuito della normalità, tanto minori sono le possibilità di inquadrarla tra le operazioni elusive. Così, però, non è: possono invero esistere operazioni molto articolate e complesse che nulla hanno a che vedere con l’elusione tributaria; del pari possono esistere operazioni evidentemente lineari, ma dotate di una spiccata connotazione elusiva.

Al “vantaggio fiscale” fa riferimento, testualmente, l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/73, il quale, appunto, è costruito intorno alle riduzioni d’imposta oppure ai rimborsi d’imposta «altrimenti indebiti», dove l’aggettivo “indebiti” qualifica i vantaggi suddetti nel senso di “non spettanti in base alle indicazioni sistematiche”.

Il concetto di “vantaggio” richiede alcune puntualizzazioni.

Tale sostantivo evoca, infatti, l’idea del confronto tra due risultati: da una parte, il risultato concretamente raggiunto, in termini di carico fiscale, con l’operazione “elusiva”; dall'altra, quello che si sarebbe raggiunto attraverso l’operazione “elusa”, vale a dire con l’operazione che il contribuente non ha posto in essere ma che, ad avviso dell'Amministrazione finanziaria, avrebbe dovuto porre in essere. Ci troviamo pertanto in un contesto di necessaria comparazione tra operazioni effettivamente realizzate dal contribuente e operazioni che il medesimo contribuente avrebbe potuto realizzare, ma che, per sua scelta, non ha realizzato affatto.

Per ragionare sull’esistenza di un “vantaggio” ci si deve quindi interrogare sull’operazione alternativa rispetto a quella realmente effettuata dal contribuente («vantaggio rispetto a che cosa?»), consapevoli del fatto che, per esprimere un giudizio su questo elemento, è necessario disporre di termini di raffronto omogenei. In altre parole, per affermare che una determinata operazione ha consentito di ottenere un risparmio fiscale è necessario individuare, quale punto di riferimento, un’altra operazione che avrebbe consentito di giungere, con un carico tributario superiore, al medesimo risultato ottenuto con la prima. Se il risultato è diverso – lo si capisce – nessuna comparazione è possibile e di “vantaggio fiscale” non si può certamente parlare.

Si discute – per la verità con un po’ di confusione – circa il criterio da utilizzare per la suddetta comparazione e, in particolare, se tale criterio debba essere di stampo meramente economico, di stampo strettamente giuridico, oppure misto, vale a dire in parte economico e in parte giuridico.

A nostro avviso, sono da scartare i due estremi (metodo esclusivamente economico e metodo esclusivamente giuridico), mentre è da privilegiare il riferimento intermedio (mix tra profili economici e giuridici).

Si dovrebbe scartare il criterio puramente economico perché eccessivamente elastico, impreciso e, pertanto, non sufficientemente garantista dal punto di vista della certezza circa gli effetti giuridici dell’operazione. Quando un contribuente stipula un contratto di compravendita, oppure un contratto di locazione o di comodato d’uso, quel contribuente “vuole” gli effetti giuridici previsti da tali forme negoziali, non già effetti giuridici diversi (non prendiamo qui in considerazione – ovviamente – il caso della simulazione).

Per ragionare meglio su quest’ultima affermazione, il lettore rifletta sull’operazione consistente nella cessione a titolo oneroso di partecipazioni di controllo rappresentative del capitale di una società il cui patrimonio sia rappresentato da un’azienda. Orbene, da un punto di vista meramente economico – ergo, da un punto di vista di attenzione al profilo della gestione del complesso produttivo – si potrebbe sostenere che non v’è alcuna differenza tra la vendita delle azioni di controllo e la vendita dell’azienda. In entrambi i casi, infatti, l’acquirente si assicura una posizione che gli consente di utilizzare quel complesso produttivo secondo le proprie esigenze e in linea con le proprie aspettative. Codesta utilizzazione potrà avvenire secondo schemi di diretta determinazione delle più importanti scelte aziendali, nel caso in cui sia stata acquisita la proprietà dell'azienda; oppure potrà avvenire secondo schemi di gestione indiretta, vale a dire in veste di socio di maggioranza al quale spetta il potere di nomina degli amministratori e, de plano, anche il potere gestionale sul complesso produttivo.

Dal punto di vista giuridico, però, il ragionamento è diverso, perché l’effetto giuridico della cessione di azioni di controllo è differente dall’effetto giuridico derivante dalla cessione di un’azienda. Il soggetto che vende le azioni non si spoglia soltanto di un bene, ma anche della qualifica di socio. Parimenti, chi acquista le azioni (ma analogo ragionamento si può fare per le quote) non si limita ad effettuare un investimento, dato che egli assume, appunto, anche la qualifica di socio.

Riteniamo si debba dipoi scartare, sul piano della comparazione tra risultati, anche il criterio esclusivamente giuridico, per l’evidente ragione che, in questa prospettiva, una locazione sarebbe sempre “giuridicamente” diversa da una “vendita”, mentre la cessione a titolo oneroso di azioni, a sua volta, sarebbe sempre “giuridicamente” differente rispetto alla cessione dei beni di primo grado appartenenti alla società controllata. In breve, il metodo giuridico pare condurre, se impiegato con criterio di esclusività, alla pratica impossibilità di comparazione tra operazioni, cosicché non esisterebbe mai un vantaggio e tanto meno si profilerebbe l’ipotesi di sindacabilità di codesto vantaggio sul piano elusivo.

Ci sembra pertanto preferibile il criterio misto, vale a dire in parte giuridico, in parte economico. Il profilo giuridico non va abbandonato, perché il nostro sistema è incentrato, tra l’altro, sul principio della riserva di legge, che è la porta di ingresso della certezza nei rapporti tra Fisco e contribuente. In altre parole, la misurazione della capacità contributiva non costituisce un’attività “a schema libero”, esercitabile senza vincoli da parte dei consulenti, dei funzionari dell’Agenzia delle entrate oppure dei giudici. Al contrario, nel diritto tributario l’individuazione della citata attitudine alla contribuzione soggiace ai limiti e, ad un tempo, alle garanzie radicate nel citato art. 23 Cost., dimodoché spetta al legislatore il compito di selezionare, mediante le disposizioni sostanziali, le fattispecie che manifestano idoneità alla contribuzione. Qualora questa selezione avvenga (come in effetti oggi avviene) sulla base di criteri giuridici, è su questi ultimi, non già su quelli economici, che si dovrà far leva per stabilire se l’operazione asseritamente elusiva e l’operazione asseritamente elusa sono confrontabili in termini di risultati. È insomma il legislatore che, nella sua discrezionalità e sotto il controllo della Corte costituzionale, deve preoccuparsi del filtraggio delle situazioni capaci di manifestare, in capo al soggetto che le abbia realizzate, l’attitudine al concorso. Peraltro, nemmeno va abbandonato il profilo economico della comparazione, perché il diritto tributario misura pur sempre ricchezze (dunque, “sostanza” sotto forma di reddito, di patrimonio, di spese ecc…), in funzione della loro tassazione attraverso gli schemi giuridici elaborati dal diritto. Nella prospettiva del contrasto all’elusione tributaria non è pertanto richiesta la millimetrica sovrapposizione tra il risultato raggiunto con l’operazione elusiva e quello ottenibile attraverso l’operazione elusa. Ci si accontenta, invero, di un giudizio di somiglianza, affinità o, se si vuole, di analogia, tenendo presente che la chiave di lettura dei fatti in esame dovrà coordinarsi con la struttura dell’imposta di riferimento (cfr. Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, parte generale, Padova, 2012, 223 ss.).

Una notazione conclusiva. Poiché il primo elemento costitutivo dell’elusione tributaria è rappresentato dal “vantaggio fiscale”, si può nuovamente affermare che, ai fini dell’inquadramento di tale fattispecie, passino in secondo piano i percorsi giuridici adottati dal contribuente.

Poco importa, pertanto, se, per arrivare a un certo obiettivo, il contribuente abbia seguito un percorso diretto o indiretto, normale o abnorme, articolato o semplificato, consueto o inconsueto. Possono darsi scelte negoziali cristalline, che non conducono tuttavia ad alcun vantaggio tributario. Del pari, si possono avere scelte negoziali asettiche e prive di contorcimenti, sfocianti però in una fattispecie elusiva. È pertanto da respingere la linea argomentativa stando alla quale tra gli elementi costitutivi dell’elusione dovrebbe trovarsi anche quello dell’anormalità della strumentazione prescelta. Tale anormalità può in taluni casi rappresentare un indice della volontà di conseguire un vantaggio fiscale, ma è soltanto su quest’ultimo che ha senso calare quella tassazione differenziale della quale ho detto all’inizio del capitolo. In sintesi, l’elusione è fenomeno che si sviluppa intorno ai risultati raggiunti dal contribuente, non già intorno ai mezzi che il contribuente abbia utilizzato.

L’asistematicità del vantaggio fiscale conseguito attraverso l’operazione elusiva

Affinché si possa parlare di elusione è pertanto necessario individuare un vantaggio, sotto forma di minore imposta dovuta oppure di rimborso d’imposta. Il vantaggio si intercetta sul piano della comparazione tra il risultato raggiunto con l’operazione elusiva e quello raggiungibile con quella elusa e deve essere – lo si capisce – un vantaggio effettivo, concreto, non un vantaggio sperato, immaginato, supposto o meramente ipotetico. Tale vantaggio deve altresì connotarsi – come ho più volte ricordato nel testo – per la sua contrarietà al sistema.

Ma quando si verifica questa “contrarietà al sistema”?

Per rispondere a questa domanda è necessario riflettere sui principi che regolano l’imposta di riferimento (per esempio, l’imposta sul reddito) e che non necessariamente coincidono, come subito dirò, con i principi costituzionali. Si tratta, in effetti, di ragionare non tanto sulla capacità contributiva, sull’uguaglianza, sulla riserva di legge e così via, quanto sull’intima struttura dell’imposta della quale ci si sta occupando e, in definitiva, sulla sua conformazione giuridica.

A titolo di esempio, si potrà dire che i rapporti tra la fiscalità della società e la fiscalità dei soci sono improntati, quanto all’imposta sul reddito, alla tassazione dell’ente e alla tendenziale esclusione da imposta del soggetto partecipante; quanto alla rilevanza, sempre in materia di imposte sul reddito, delle perdite fiscali generate dal contribuente, il sistema è generalmente orientato nel senso della utilizzabilità di tali perdite soltanto da parte di colui che può definirsi “il produttore” delle medesime; in materia di imposta sul valore aggiunto, per rimanere nel campo delle esemplificazioni, sono vigenti i principi della neutralità e, limitatamente ai soggetti che svolgono operazioni esenti, dell’indetraibilità pro rata del tributo addebitato in occasione degli acquisti.

Non esiste, pertanto, un elenco tassativo di situazioni volte ad esprimere dati sistematici. Tali dati vanno ricercati caso per caso da parte dell’operatore e ricondotti, a questo punto, sul piano dell’elusione.

L’esimente delle valide ragioni economiche

Qualora l’operazione realizzata dal contribuente si connoti sul piano elusivo, è possibile la rimozione di tale connotazione in presenza di ragioni economiche definite dal legislatore attraverso l’impiego dell’aggettivo «valide». Detto altrimenti, in presenza di valide ragioni economiche la patina di elusività che è stata collocata sull’operazione in ragione della asistematicità del vantaggio deve essere rimossa (cfr. Falsitta, G., Manuale, cit., 224; Beghin, M., La scissione parziale non proporzionale e l’elusione condizionata, in Riv. dir. trib., 2007, II, 386 ss.; Vanz, G., Distribuzione di riserve di utili anteriori all’acquisizione della partecipazione. Svalutazione della partecipazione ed elusione fiscale, in Riv. dir. trib., 2006, II, 492; Stevanato, D., Scissione proporzionale e «valorizzazione» del patrimonio immobiliare, in Dir. prat. trib., 2005, I, 957 ss.).

Il concetto di ragione economica non coincide con le ragioni fiscali. L’espressione “ragioni economiche” significa che l’operazione posta in essere deve manifestare un qualche collegamento con il programma imprenditoriale, sfiorando, in tal modo, il concetto di “inerenza” all’impresa. Peraltro, le ragioni economiche coprono anche situazioni non direttamente riconducibili all’impresa e quindi per definizione non inerenti. Infatti, possono esistere operazioni il cui perfezionamento risponde solo indirettamente alle esigenze dell’imprenditore, mentre risponde direttamente alle esigenze di altri soggetti che con quell’imprenditore si trovano in un particolare rapporto. Il caso più evidente è quello della società commerciale nella quale i soci persone fisiche manifestino un evidente atteggiamento di litigiosità, che potrebbe ripercuotersi sul funzionamento dell’ente e provocare, nei casi più gravi, la sua paralisi. Con riferimento a tali situazioni, si è ritenuta sorretta da valide ragioni economiche la scissione totale o parziale non proporzionale attuata con l’obiettivo di separare i soci litigiosi e di consentire alle società risultanti dall’operazione la prosecuzione dell’attività economica (Comitato, parere 2005/11; 2005/34; 2005/18). Con riferimento alla scissione poc’anzi richiamata, l’operazione risponde in primo luogo all’interesse dei soci a risolvere la situazione conflittuale e, in secondo luogo, all’interesse della società alla prosecuzione dell’attività lavorativa.

Insisto sul fatto che la mancanza di ragioni economiche non costituisce un presupposto dell’elusione fiscale, bensì un’esimente. Le ragioni economiche assumono quindi rilevanza soltanto con riferimento a operazioni che siano già state previamente incardinate nella fattispecie elusiva. Più chiaramente, le ragioni economiche connotate sul piano della validità tolgono l’elusione, non ne costituiscono, laddove esse siano assenti, il fondamento.

Per conseguenza, ci sembra da escludere che l’Amministrazione finanziaria possa muovere una contestazione di elusione fiscale basandosi esclusivamente sulla mancanza di ragioni economiche. Esistono operazioni che il contribuente pone in essere per ragioni esclusivamente fiscali le quali, peraltro, non rientrano nel novero delle fattispecie di elusione per l’evidente assenza dell’asistematicità del vantaggio. Partire dalla mancanza di ragioni economiche equivale, quindi, a una vera e propria inversione dello schema di ragionamento, movendo dalla coda di tale schema, non già dalla testa, con effetti talvolta aberranti dal punto di vista della qualificazione elusiva della fattispecie.

L’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria di fatti, atti e negozi riferibili al contribuente

L’articolo 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 stabilisce, in presenza di operazioni che si qualifichino elusive nel senso più in alto descritto, che i vantaggi acquisiti dall’elusore siano inopponibili al Fisco.

Non si deve confondere l’effetto di inopponibilità generato dall’art. 37-bis cit. con le patologie del negozio giuridico siccome desumibili dalla disciplina del diritto privato. In verità, l’inopponibilità non va confusa con la nullità del contratto e nemmeno può essere assimilata alla situazione di annullamento del contratto medesimo. Infatti, l’effetto generato dall’art. 37-bis è limitato ai soli profili fiscali della fattispecie, mentre rimane inalterata, dal punto di vista civilistico, la situazione sottostante. In altre parole, i contratti o, in genere, le operazioni che l’Amministrazione finanziaria reputi elusive rimangono salde dal punto di vista privatistico, fermo rimanendo che esse sono incapaci di produrre effetti sul piano fiscale.

Qualora l’Amministrazione finanziaria ravvisi l’esistenza di un’operazione elusiva, l’inopponibilità dei fatti, atti o negozi realizzati dal contribuente si traduce, sul piano operativo, nella redazione di un avviso di accertamento la cui funzione è di tassare l’operazione elusa, restituendo l’imposta già versata sull’operazione elusiva. Rammentiamo che l’operazione elusiva è l’unica operazione concretamente realizzata dal contribuente, mentre l’operazione elusa è quella che il contribuente avrebbe dovuto porre in essere, ma non ha, in verità, mai realizzato.

La contestazione e l’accertamento della fattispecie elusiva. Il rapporto tra elusione e riscossione tributaria

Per determinare il carattere elusivo di una determinata operazione, l’Ufficio finanziario non opera attraverso un comune avviso di accertamento volto alla rettifica della dichiarazione. L’accertamento in materia di elusione fiscale, infatti, è regolato, nella fase genetica e negli aspetti contenutistici, dai co. 4 e ss. dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, i quali, sinteticamente, richiedono l’osservanza dei seguenti passaggi:

a) notifica al contribuente che ha realizzato la fattispecie elusiva di un questionario con richiesta di rispondere per iscritto nel termine di sessanta giorni dalla data di ricezione. La funzione di tale questionario è di portare il contribuente a ragionare sugli elementi costitutivi della fattispecie elusiva (vantaggio e asistematicità del vantaggio), oltre che sull’eventuale esistenza dell’esimente rappresentata dalle valide ragioni economiche; la mancata notifica del questionario determina la nullità dell’accertamento dipoi notificato al contribuente;

b) redazione dell’eventuale avviso di accertamento con una specifica motivazione che tenga conto, a pena di nullità dell’accertamento stesso, delle giustificazioni fornite dal contribuente a fronte della richiesta di chiarimenti di cui al punto precedente. La previsione della nullità dell’avviso di accertamento è in questo caso direttamente agganciata allo svolgimento del contraddittorio. Ciò che il legislatore non vuole è che il contribuente risponda alla richiesta di chiarimenti e che, dall’altra parte, l’Amministrazione ignori tale risposta e proceda per la propria strada senza ascoltare quanto il contribuente ha da dire;

c) l’avviso di accertamento emanato ai sensi dell’art. 37-bis deve altresì rispettare lo schema di tassazione differenziale al quale si è fatto più volte riferimento in questo scritto. In altre parole, l’Amministrazione finanziaria deve quantificare l’imposta corrispondente all’operazione elusa e deve, allo stesso tempo, decurtare l’imposta già applicata all’asserito elusore in relazione all’operazione elusiva. Qualora la determinazione dell’imposta richiesta non sia correttamente avvenuta, l’avviso di accertamento potrà essere riformato dal giudice per questa parte, con conseguente abbattimento della richiesta del Fisco in sede giurisdizionale.

Da quanto sin qui esposto e, in particolare, dalla riflessione che scaturisce in punto di nullità degli avvisi di accertamento in materia elusiva non preceduti dalla richiesta di chiarimenti e/o non motivati sulle risposte fornite dal contribuente, si evince come la contestazione in materia elusiva assuma, rispetto agli accertamenti ordinari, carattere di specialità.

Possiamo peraltro affermare che il citato carattere di specialità emerge anche sotto un altro punto di vista, sul quale è possibile soffermare sin d’ora l’attenzione. In caso di accertamenti notificati ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 non opera la disciplina di riscossione provvisoria dell’imposta dovuta e delle sanzioni che trova invece applicazione nel caso degli accertamenti in rettifica volti a contestare fattispecie di evasione. Poiché l’elusione fiscale richiede una particolare (e talvolta non agevole) riflessione sulla sistematicità o asistematicità dei vantaggi fiscali conseguiti, il legislatore subordina l’avvio della riscossione provvisoria al fatto che sulla questione elusiva si sia pronunciato il giudice di primo grado con sentenza che, ovviamente, riconosca l’esistenza della suddetta elusione. Detto altrimenti, l’accertamento notificato ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 priva l’Ufficio finanziario del potere di iscrivere a ruolo l’imposta e le sanzioni che sarebbero provvisoriamente riscuotibili se si trattasse di un accertamento riguardante l’evasione fiscale. Dietro a questa scelta legislativa vi è l’implicito riconoscimento da parte del soggetto dotato della potestà di imposizione dell’evidente complessità della materia. Su questa complessità non può fondarsi la ben che minima richiesta di pagamento, dimodoché c’è da interrogarsi sulla possibilità da parte del Fisco di attivare, nonostante il blocco della riscossione, misure cautelari fissate a garanzia della riscossione medesima. Invero, se non c’è riscossione e se questa riscossione è cristallizzata ex lege in ragione della complessità della materia, parrebbe non esservi ragione per attivare misure di sostegno della riscossione (sotto forma di iscrizioni ipotecarie o di sequestri conservativi) se non dopo che il giudice di primo grado si sia pronunciato sulla materia.

L’elusione e le sanzioni (amministrative e penali)

Sulla base di quanto sin qui affermato, si può sottolineare ancora come, nelle fattispecie di evasione, il contribuente versi una minore imposta perché vìola la disposizione. Nell’elusione, per contro, il minore versamento non è in contrasto con una specifica disposizione, bensì disarmonico rispetto alle scelte effettuate, con riferimento a un certo comparto, dal sistema. Poiché nell’evasione fiscale c’è violazione del diritto, la fattispecie costituisce presupposto per l’irrogazione delle sanzioni tributarie di carattere amministrativo e, talvolta, anche di carattere penale.

Iniziamo con qualche considerazione sul versante delle sanzioni amministrative, per le quali l’art. 1, co. 2, del d.lgs 18.12.1997, n. 471 stabilisce quanto segue: «Se nella dichiarazione è indicato, ai fini delle singole imposte, un reddito imponibile inferiore a quello accertato, o, comunque, un’imposta inferiore a quella dovuta …, si applica la sanzione amministrativa dal cento al duecento per cento della maggior imposta …».

È evidente che qualora il contribuente ometta, ad esempio, di registrare in tutto o in parte componenti positive di reddito oppure registri nella contabilità costi inesistenti, si ricade pacificamente nella fattispecie della infedele dichiarazione, dato che il presupposto economico è mal rappresentato al Fisco e, per conseguenza, la base imponibile indicata nella scheda trasmessa all’Amministrazione finanziaria non corrisponde a quella da dichiarare ex lege. In questi casi, la sanzione amministrativa è sacrosanta. La conclusione cambia, peraltro, quando ci si trovi al cospetto di fattispecie di elusione fiscale. Ci chiediamo al riguardo: il contribuente il quale abbia eluso l’imposta sul reddito è tenuto a conformare la propria dichiarazione alla fattispecie elusiva? L’elusione deve entrare periodicamente nelle dichiarazioni fiscali oppure si tratta di fenomeno la cui contestazione è esclusivamente riconducibile all’area degli accertamenti officiosi, senza interferire perciò con la dichiarazione?

Per rispondere a tali quesiti, è necessario soffermarsi su un aspetto apparentemente teorico ma, in verità, ricco di declinazioni operative. Ci riferiamo al carattere “sostanziale” o “procedimentale” dell’elusione tributaria, dal quale dipende, la spiegazione circa la sanzionabilità o meno della fattispecie. Con l’espressione “sostanziale” ci si riferisce a disposizioni delle quali il contribuente deve tenere conto nella fase di predisposizione della propria dichiarazione. Stiamo affermando che, ogniqualvolta il contribuente rediga la propria scheda dichiarativa, egli è tenuto a conformarla anche alle fattispecie di elusione, esponendo nella citata scheda le operazioni eluse (operazioni, queste, mai poste in essere), in luogo delle operazioni elusive (le uniche operazioni che il contribuente abbia in concreto realizzato). Insomma, qualora il Fisco affermi, in ipotesi, che la scissione parziale di Alfa in Beta seguita dalla vendita delle partecipazioni di Beta equivale, sul piano dell’elusione, alla vendita diretta dei beni facenti parte del patrimonio della citata Beta, il contribuente dovrà esporre nella propria dichiarazione il componente positivo di reddito emergente da quest’ultima operazione (plusvalenza o ricavo), ancorché – lo si ripete – mai perfezionata. È chiaro, a questo punto che, se si sposa la tesi secondo la quale l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/73 ha carattere sostanziale, si deve, per coerenza, ribaltare sulla dichiarazione fiscale l’applicazione di tale norma, dimodoché la sua mancata o erronea applicazione, che si traduca nell’esposizione di un reddito inferiore a quello previsto ex lege, ricade nell’area dei fatti illeciti.

Francamente, la tesi della connotazione sostanziale dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/73 non ci convince. Ciò sulla base di argomenti di ordine testuale e sistematico. Basti considerare che l’art. 37-bis cit., al quale – seguendo la linea sostanziale – tutti dovrebbero uniformarsi al momento della predisposizione della propria dichiarazione, è collocato nel decreto riguardante l’accertamento delle imposte sul reddito, non già nel testo unico d.P.R. 22.12.1986, n. 917. A ciò si deve aggiungere che lo stesso art. 37-bis, nel configurare l’inopponibilità al Fisco degli atti, dei fatti o dei negozi elusivi, prevede inequivocabilmente che tale inopponibilità si incardini in un disconoscimento dei vantaggi tributari rientrante tra i poteri di azione dell’Amministrazione finanziaria. Più chiaramente, «l’Amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari» (così, testualmente, il secondo comma dell’art. 37-bis cit.), mentre non è previsto, in capo al singolo contribuente, l’obbligo di uniformare la propria dichiarazione alla disposizione precedentemente citata (a favore della natura procedimentale, si veda Zizzo, G., Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, in Miccinesi, M., a cura di, Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 462; Del Federico, L., Elusione tributaria “codificata” e sanzioni amministrative, in Riv. giur. trib., 2007, 284; a favore della natura sostanziale, Nussi, M., Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, in Riv. dir. trib., 1998, I, 503; Gallo, F., Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 321).

In verità, riteniamo che l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 conceda al Fisco un potere di accertamento dell’inopponibilità di taluni vantaggi tributari che può convivere con una situazione di “fedeltà” della dichiarazione presentata. Vogliamo dire che, nel contesto di una dichiarazione “fedele”, possono esserci accertamenti officiosi la cui funzione non è necessariamente quella di rettificare la citata dichiarazione, bensì quella di rendere inopponibili taluni vantaggi. Si tratta di due piani diversi. Nel procedere in questa direzione, potremmo concludere nel senso che la funzione dell’avviso di accertamento officioso consiste, di regola, nella rettifica di quanto il contribuente abbia dichiarato. In taluni casi (ed ecco la specialità dell’accertamento dell’elusione tributaria), l’accertamento officioso può svolgere la mera funzione di dichiarare l’inopponibilità dei vantaggi ai quali si è più volte fatto riferimento in questo scritto. In questa prospettiva, la convivenza tra dichiarazione fedele e accertamento elusivo giustifica la non irrogazione delle sanzioni amministrative e consente di tenere ben separate le fattispecie di evasione fiscale da quelle di elusione tributaria.

Considerazioni analoghe possono valere sul fronte delle sanzioni penali e, segnatamente, su quello del reato di dichiarazione infedele, previsto e punito dall’art. 4, d.lgs. 10.3.2000, n.74. Ci limitiamo a rilevare che il citato art. 4 contempla un reato nella cui struttura è previsto il dolo specifico consistente nel «fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto». Chi assimila l’elusione all’evasione non ha difficoltà a configurare l’illecito penale anche in presenza di fattispecie elusive. Al contrario, chi ha ben chiara la differenza tra elusione ed evasione non avrà difficoltà ad affermare che quando si elude non può esserci dolo specifico di evasione.

Le disposizioni antielusive generali e specifiche

I ragionamenti che abbiamo svolto sopra a proposito del carattere procedimentale o sostanziale dell’elusione consentono di riflettere sul contenuto del co. 8 dell’art. 37-bis, d.P.R. n. 600/1973, il quale prevede la disapplicazione, su richiesta del contribuente, delle disposizioni sostanziali dotate di funzione antielusiva.

Si tratta, in effetti, di disposizioni alle quali il contribuente si deve attenere nel momento in cui egli predispone la propria scheda dichiarativa. L’aggettivo “sostanziali” è dunque qui inteso nel senso di disposizioni ordinariamente applicabili da parte dei soggetti ai quali esse sono rivolte, senza la mediazione o l’intervento dell’Amministrazione finanziaria. È espressamente previsto, in effetti, che le norme tributarie le quali limitino «deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario» possano essere disapplicate a condizione che il contribuente «dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi».

Per ottenere la suddetta disapplicazione, il contribuente è tenuto a presentare istanza alla Direzione regionale delle Entrate, secondo le modalità previste con decreto ministeriale. Si tratta di un interpello cd. “disapplicativo”, che va tenuto distinto dagli interpelli cd. “ordinari” previsti dall’art. 11 dello Statuto dei diritti del contribuente. Ricordiamo, per comodità del lettore, che, attraverso quest’ultimo interpello, il contribuente costringe l’Amministrazione finanziaria ad esporsi, con riferimento ad una fattispecie concreta previamente rappresentata dal contribuente, sul fronte della interpretazione di una disposizione incerta (da qui, appunto, il collegamento tra l’interpello ordinario e l’interpretazione del diritto tributario). L’interpello disapplicativo, invece, non serve a sciogliere dubbi interpretativi, bensì a cristallizzare gli effetti di una disposizione (ben chiara nella sua portata), quando si possa escludere che, attraverso l’operazione realizzata dal contribuente, si consegua un vantaggio di stampo elusivo.

Le norme alle quali fa riferimento il co. 8 cit. (disposizioni ordinarie con funzione antielusiva) sono contenute in articoli di legge che il contribuente deve periodicamente applicare in occasione della predisposizione delle dichiarazioni fiscali. Queste disposizioni, in altri termini, sono astrattamente contemplate nella disposizione procedimentale di cui all’art. 37-bis, ma conservano il loro evidente carattere sostanziale, come risulta dall’esempio che, per ragioni di chiarezza, riportiamo qui di seguito.

Il lettore si soffermi sul caso previsto dall’art. 88, co. 5, TUIR, dove è previsto che «in caso di cessione del contratto di locazione finanziaria il valore normale del bene costituisce sopravvenienza attiva». Questa disposizione obbliga il cedente ad inserire nella propria dichiarazione il valore normale al quale la stessa disposizione fa riferimento. Ciò fa emergere il carattere sostanziale di tale regola, nel senso che, se il cedente non procede all’indicazione del suddetto valore normale, la dichiarazione deve reputarsi infedele e costituisce fattispecie illecita, sanzionabile sul piano fiscale. Poiché quella disposizione mira ad evitare la duplicazione di costi deducibili in assenza di effettive esigenze economiche-operative, è data la possibilità di ottenere la disapplicazione laddove l’effetto testé indicato sia escluso.

Al di là dei casi specifici, emerge sul piano generale il problema dell’esatta identificazione delle disposizioni ordinarie con funzione antielusiva. Il legislatore, infatti, non si preoccupa della previa identificazione della natura delle disposizioni in esame, che è lasciata alla libertà e alle capacità dell’operatore e che, quindi, amplifica le difficoltà di applicazione della regola in esame. Conclusivamente, il lettore avrà a questo punto ben inteso che il legislatore italiano ha adottato un duplice modello di reazione alle fattispecie elusive. Il primo modello è quello riferibile all’art. 37-bis cit., quale disposizione ad ampio spettro e di carattere procedimentale. Il secondo modello è quello delle disposizioni sostanziali connotate, appunto, sul piano antielusivo. L’applicazione dell’art. 37-bis rientra tra i poteri del Fisco. L’applicazione delle disposizioni sostanziali con funzione antielusiva ricade, invece, negli obblighi ordinari del contribuente.

L’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 quale clausola generale antileusiva e l’abuso del diritto

Abbiamo detto sopra che l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 è disposizione applicabile ad una pluralità di imposte (redditi, successioni e donazioni, registro). Aggiungiamo adesso che, in base al terzo comma dell’articolo citato, l’inopponibilità dei vantaggi fiscali presuppone che il contribuente li abbia conseguiti attraverso una o più delle operazioni tassativamente indicate nel terzo comma della disposizione (tra queste, in particolare, le operazioni di trasformazione, di fusione, di scissione, di conferimento in società e di cessione di crediti).

Di fronte a una disposizione così limitata, è naturale che, sul piano pratico, si sia posta l’esigenza di stabilire quale sorte debba toccare alle operazioni non riconducibili nel campo di applicazione dell’art. 37-bis oppure alle operazioni che, per qualche ragione, non siano state contrastate attraverso avvisi di accertamento incentrati sulla norma qui sopra menzionata (sulla portata di “clausola generale” dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, cfr. Falsitta, G., Manuale, cit., 225).

A questa domanda è stata offerta una risposta in sede giurisprudenziale. Infatti, la Corte di cassazione, con alcune sentenze pronunciate a Sezioni Unite nel corso del 2008 (Cass., S.U., 23.12.2008, nn. 30055, 30056, 30057), ha forgiato, con riferimento ai tributi non armonizzati, il principio del cd. “divieto di abuso del diritto” (cfr. Falsitta, G., L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. giur., 2009, 293 ss.; Beghin, M., Evoluzione e stato della giurisprudenza tributaria: dalla nullità negoziale all’abuso del diritto nel sistema impositivo nazionale, in Maisto, G., a cura di, Elusione, cit., 23 ss.; Moschetti, F., Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle Sezioni Unite in tema di “utilizzo abusivo di norme fiscali di favore”, in Riv. giur. trib., 2009, 197 ss.; Lupi, R.-Stevanato, D., Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. trib., 2009, 403 ss.; Zizzo, G., Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. trib., 2009, 487 ss.). Per la Corte – citiamo testualmente – «non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale».

È agevole osservare che la definizione di abuso del diritto estrapolata dalla giurisprudenza presenta molteplici punti di contatto con la nozione di elusione fiscale delineata dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973. Invero, anche nell’abuso del diritto v’è un riferimento al vantaggio fiscale; anche qui, il vantaggio deve connotarsi per il suo carattere “indebito” (nell’elusione si era parlato di vantaggio asistematico); anche qui, poi, è prevista l’esimente delle ragioni economicamente apprezzabili, le quali, al di là delle sfumature linguistiche, ricordano da vicino le valide ragioni economiche contemplate nel citato art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973.

Sono molteplici le ragioni per le quali il principio del divieto di abuso del diritto desta perplessità.

In primo luogo, la giurisprudenza afferma che codesto principio deriverebbe direttamente dalle disposizioni costituzionali di cui all’art. 53, co.1 e 2, Cost., vale a dire dai principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione. Così facendo, però, si finisce per sovradimensionare l’art. 53 Cost., assegnando a quella norma una funzione che ad essa non può essere assegnata: la funzione di selezionare, attraverso la lente della capacità contributiva, le fattispecie da accertare con il principio del divieto di abuso del diritto e quelle che, invece, non sono da accertare.

Nel procedere in questa direzione, ci si dimentica che l’art. 53 Cost. è disposizione rivolta in primis al legislatore, nel senso che l’esercizio della potestà impositiva deve uniformarsi al contenuto del suddetto principio. Quando il legislatore sceglie un’imposta e sceglie l’oggetto della tassazione, esso deve preoccuparsi di calare il carico fiscale su situazioni che denotino un’effettiva idoneità al concorso. Ma detto ciò, la scelta delle fattispecie da tassare ricade nelle prerogative del legislatore e si uniforma a quanto previsto dall’art. 23 Cost.: disposizione, questa, che non ha soltanto la funzione di assicurare la democraticità delle scelte impositive, ma anche quella di conferire certezza ai rapporti Fisco-contribuente. Detto altrimenti, il contribuente dev’essere nella condizione di stabilire, sulla base delle disposizioni esistenti, quali saranno gli effetti degli atti economici da lui compiuti. Se questi effetti sono lasciati all’applicazione di un principio non scritto, la situazione che si ottiene è una situazione di incertezza in quanto i suddetti effetti dipendono, alla fine, dalla personale sensibilità del magistrato.

Aggiungiamo che, negli ultimi anni, la Corte di cassazione ha maldestramente applicato il principio del divieto di abuso, trasformandolo in un contenitore capace di inglobare, senza regole, fattispecie pacificamente riconducibili all’evasione tributaria (si veda, al riguardo, Falsitta, G., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, II, 349 ss.).

Di abuso del diritto si è poi parlato anche con riferimento ai tributi armonizzati, per i quali operano i principi comunitari forgiati dalla Corte di Giustizia UE. In particolare, è costante il riferimento alla sentenza C-255/02 Halifax (cfr. Basilavecchia, M., Norma antielusione e “relatività” delle operazioni imponibili IVA, in Corr. trib., 2006, 1466 ss.; Pistone, P., L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia Europea in tema di IVA, in Riv. dir. trib., 2007, IV, 17 ss.; Lovisolo, A., Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. dir. trib., 2009, I, 49 ss.; Poggioli, M., La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, in Riv. dir. trib., 2006, III, 122 ss.; Salvini, L., L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. trib., 2006, 3097 ss.), stando alla quale «perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della VI direttiva e dalla legislazione nazionale che la traspone, portare ad un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale».

Fonti normative

Art. 10, l. 29.12.1990, n. 408; art. 37-bis, d.P.R.29.9.1973, n. 600.

Bibliografia essenziale

Basilavecchia, M., Norma antielusione e “relatività” delle operazioni imponibili IVA, in Corr. trib., 2006, 1466 ss.; Beghin, M., Abuso del diritto, giustizia tributaria e certezza dei rapporti tra Fisco e contribuente, in Riv. dir. trib., 2009, II, 408 ss.; Beghin, M., L’usufrutto azionario tra lecita pianificazione fiscale, elusione tributaria e interrogativi in ordine alla funzione giurisdizionale, in Riv. giur. trib., 2006, 223 ss.; Beghin, M., La scissione parziale non proporzionale e l’elusione condizionata, in Riv. dir. trib., 2007, II, 386 ss.; Beghin, M., La sentenza Cadbury Schweppes e il “malleabile” principio della libertà di stabilimento, in Rass. trib., 2007, 983 ss.; Del Federico, L., Elusione tributaria “codificata” e sanzioni amministrative, in Riv. giur. trib., 2007, 280 ss.; Falsitta, G., L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. giur., 2009, 293 ss.; Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, pt. gen., Padova, 2012, 223 ss.; Falsitta, G., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, II, 349 ss.; Gallo, F., Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, 321 ss.; Lovisolo, A., Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. dir. trib., 2009, I, 49 ss.; Lupi, R.-Stevanato, D., Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva, in Corr. trib., 2009, 403 ss.; Maisto, G., a cura di, Elusione ed abuso del diritto tributario, Quaderni della Rivista di diritto tributario, Milano, 2009, n. 4; Moschetti, F., Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle Sezioni Unite in tema di “utilizzo abusivo di norme fiscali di favore”, in Riv. giur. trib., 2009, 197 ss.; Nussi, M., Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, in Riv. dir. trib., 1998, I, 503 ss.; Pistone, P., L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia Europea in tema di IVA, in Riv. dir. trib., 2007, IV, 17 ss.; Poggioli, M., La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, in Riv. dir. trib., 2006, III, 122 ss.; Salvini, L., L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. trib., 2006, 3097 ss.; Stevanato, D., Scissione proporzionale e «valorizzazione» del patrimonio immobiliare, in Dir. prat. trib., 2005, I, 957 ss.; Tabellini, P. M., L’elusione della norma tributaria, Milano, 2007; Vanz, G., Distribuzione di riserve di utili anteriori all’acquisizione della partecipazione. Svalutazione della partecipazione ed elusione fiscale, in Riv. dir. trib., 2006, II, 490 ss.; Zizzo, G., Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass. trib., 2009, 487 ss.; Zizzo, G., Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, in Miccinesi, M., a cura di, Commento agli interventi di riforma tributaria, Padova, 1999, 425 ss.

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