PIRELLA, Emanuele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PIRELLA, Emanuele

Massimiliano Panarari

PIRELLA, Emanuele. – Nacque a Reggio Emilia il 9 gennaio del 1940, figlio di Demetrio e Maria Masini. Cresciuto a Parma, si laureò in lettere moderne presso l’Università di Bologna e, a partire dal 1964, intraprese una significativa carriera a Milano che ne fece uno dei protagonisti principali del mondo pubblicitario italiano (ed europeo). Una scelta, quella per la pubblicità, che maturò anche dal ‘confronto’ con due figure centrali della scena culturale del secondo Novecento, Elio Vittorini e Italo Calvino, e che scaturì dalla sua ‘magnifica ossessione’, nonché vocazione autentica: la scrittura. A essa, infatti, si dedicò da subito anima e corpo, decidendo di farne la propria professione e pubblicando racconti per l’infanzia, recensioni di film per giornali locali e testi per cartoni animati e fumetti. Pirella avrebbe voluto fare il giornalista e lo scrittore, ma avendo trovato chiuse le porte dell’editoria, finì per rivolgersi (in primo luogo per ragioni economiche) al settore pubblicitario che, all’epoca, pur costituendo per molti un oggetto misterioso, cresceva a ritmi vertiginosi nella Milano in grande espansione del boom.

Nel 1965 Pirella entrò nell’agenzia CPV (la filiale italiana di quello che era allora il gigante britannico dell’advertising Colman, Prentis and Varley), rimanendovi per qualche mese. Successivamente, fu la volta della Young&Rubicam, alla quale approdò nelle vesti di «apprendista copywriter» (ruolo sul quale avrebbe riflettuto lungamente nel corso della sua attività, al punto da dedicargli nel 2002 un libro, Il copywriter. Mestiere d’arte), per uscirne dopo un quinquennio in qualità di creative manager. Fu in quell’agenzia che Pirella – influenzato dalla lezione di William ‘Bill’ Bernbach, il promotore della cosiddetta rivoluzione creativa e uno dei titani (e dei rinnovatori) della pubblicità americana – ideò e realizzò la sua prima campagna di successo, grazie alla quale cominciò a farsi seriamente notare: «Chiquita. La banana 10 e lode»; e fu lì che, sempre nel 1965, ottenne il riconoscimento di «copywriter dell’anno», oltre a un aumento di stipendio che gli permise di ridurre il lavoro notturno da freelance della scrittura con cui arrotondava. Soprattutto, fu grazie al palcoscenico offerto da quella che era una delle maggiori agenzie internazionali (con il suo ambiente cosmopolita) che si impose alla stregua di uno dei creativi di vertice del mondo pubblicitario italiano. Seguì una breve esperienza all’interno di Ogilvy & Mather e, quindi, nel 1971, il salto verso la professione in proprio, per dare vita l’anno seguente, insieme a due compagni di avventura incontrati all’interno di Young&Rubicam – l’art director tedesco Michele Göttsche e l’account executive Gianni Muccini –, all’Agenzia Italia (che nel 1976 sarebbe diventata Italia/BBDO). La scelta della denominazione anticipò quello che sarebbe successivamente divenuto un tratto identitario in economia e nel costume (il celebrato made in Italy), e che corrispondeva alla volontà di posizionamento e collocazione su un concept diverso da quello evocato dalle multinazionali pubblicitarie anglosassoni e dai loro ‘proconsolati’ italiani, inclini ad applicare la vision delle case madri secondo formule sostanzialmente standardizzate. La neonata agenzia si muoveva così tra queste corazzate alla stregua di un vascello corsaro, che rivendicava la propria specificità anche e soprattutto culturale, insieme a una modalità alternativa di fare pubblicità.

È esistita nel passato (e tuttora permane, sotto ulteriori profili) una distanza di fondo tra l’advertising degli altri Paesi occidentali, maggiormente proiettato verso la ricerca e le forme di innovazione, e una maggiore ‘pigrizia’, o propensione ad andare di più ‘sul sicuro’, nostrana (che evidenzia anche in questo una certa arretratezza). Molto differente risultò la parabola professionale e lavorativa di Pirella, che va letta in maniera strettamente intrecciata all’evoluzione del Paese e alla sua trasformazione sempre più marcata nella direzione di una società dei consumi. Una storia complessa e sofferta, perché la ‘religione del consumismo’ aveva avversari rilevanti (esponenti di autentiche fedi e di credi radicati), e sicuramente non privi di argomenti. Da un lato, la RAI del servizio pubblico, tanto nella sua anima cattolica quanto in quella aziendalista liberal-massonica, che ritenevano indispensabile per molte ragioni (nonché loro mission precipua) ‘indirizzare il popolo’. E, dall’altro, il mondo della cultura, nuovamente quello di ispirazione cristiana, ai vari livelli, e quello della sinistra nelle sue diverse espressioni (dalla dottrina ufficiale del Partito comunista italiano, intrisa delle considerazioni marxiane sui «falsi bisogni», agli studi statunitensi sui «persuasori occulti» inaugurati da Vance Packard e recepiti entusiasticamente in Italia, fino naturalmente alla sociologia della Scuola di Francoforte).

L’obiettivo del gruppo di Agenzia Italia – e di Pirella in particolare – era quello di sperimentare una via fortemente creativa e peculiare, capace di sposare e travasare in pubblicità i mutamenti della società, anche in maniera trasgressiva e senza remore nei confronti della morale comune o maggioritaria. Così, nel 1972 e nel 1973, le due campagne per i jeans Jesus (committente il Maglificio Calzificio Torinese), con le immagini ipersessuate del giovane fotografo Oliviero Toscani che mescolavano moda, corpo femminile e riferimenti irriverenti alla religione (all’insegna degli slogan pirelliani: «Non avrai altro jeans all’infuori di me» e «Chi mi ama mi segua»), fecero furore, interpretando con successo il clima sociale di voglia di cambiamento (come pure, per converso, ricevettero condanne e reprimende senza appello, tra cui quella espressa da Pier Paolo Pasolini in un articolo sul Corriere della sera del 17 maggio 1973 intitolato Il folle slogan dei jeans Jesus). Una rottura del paradigma nel Paese delle réclames fatte attraverso il ‘glorioso’ Carosello; e questa anticipazione della ‘rivoluzione sessuale’, poi dilagata nella pubblicità degli anni Ottanta, consacrò ulteriormente nel firmamento della pubblicità la stella di Pirella. Un’altra campagna divenuta famosa, e inedita per le consuetudini nazionali, fu quella preparata per il varo del settimanale della Mondadori Panorama, con una serie di affissioni parzialmente ‘in bianco’ e da completare (oggi definibili come friendly e social), che puntavano sull’interazione con il pubblico; all’insegna di una strategia creativa assai innovativa, la metropolitana di Milano e le cabine telefoniche si riempirono di manifesti dove comparivano una serie di righe vuote su cui i passanti potevano sbizzarrirsi a integrare frasi del genere «Scrivete qui cosa pensate della politica italiana», come sul sesso e la religione (a imitazione dei tazebao della contestazione universitaria).

La stagione dell’Agenzia Italia si rivelò estremamente fertile, traducendosi in un’autentica factory e dando vita a un considerevole vivaio di talenti della comunicazione pubblicitaria. Tra le campagne più rilevanti vanno annoverate quelle per i periodici della Mondadori, per le autovetture 126 e Fiat Ritmo (per la quale Pirella coniò la famosa headline «L’evoluzione della specie») e per il detersivo Perlana (a cui associò lo slogan «È nuovo? No, lavato con Perlana», che si sarebbe convertito in uno dei ‘tormentoni pubblicitari’ di maggiore fortuna degli anni a venire). Nel 1976 fu la volta della campagna per il lancio di un nuovo quotidiano progressista (con il quale collaborò a lungo), che intendeva farsi portabandiera di quelle mutazioni della società che il ‘rabdomante’ Pirella trasferiva nei suoi messaggi: e, così, sotto lo slogan «La Repubblica sveglia l’Italia» campeggiava un Bettino Craxi sonnecchiante e assonnato.

L’accordo stretto tra l’Agenzia Italia e la BBDO (che aveva consentito alla grande compagnia statunitense di sbarcare sul mercato italiano) dopo alcuni anni non risultò più soddisfacente per l’accresciuta voglia di autonomia di Emanuele Pirella, il quale, insieme al sodale di sempre, decise di avventurarsi in una nuova intrapresa. Sorse allora, nel 1981, la Pirella Göttsche. Con gli anni Ottanta dell’osmosi (come l’ha chiamata Daniele Pittèri) tra televisione e pubblicità, anche il pubblico del piccolo schermo imparò ad apprezzare il suo genio e le sue intuizioni spesso folgoranti. Il pendolo oscillava ancora: e così, nel 1985, si celebrò un nuovo matrimonio, con il Lowe Group (da cui originò Pirella Göttsche Lowe), componente del globale Interpublic Group che dischiuse all’agenzia milanese un orizzonte internazionale di cui sentiva l’esigenza. Tra le campagne più conosciute, quelle per la salsa di pomodoro Pomì (con lo slogan «O così o Pomì») e per l’Amaro Montenegro (accompagnato dall’invenzione dell’idealtipo-prototipo del veterinario-eroe), mentre si moltiplicavano i testimonial, dallo scalatore Reinhold Messner che pronunciava la frase-tormentone «altissima, purissima, Levissima» fino al titolare di un’importante industria alimentare che recitava se stesso e la mitologia (realizzata) del self made man sincero e ‘ruspante’ anche nell’accento, Giovanni Rana.

Nell’anno 2000 venne fondata la Scuola Emanuele Pirella, una ‘bottega d’arte’ per selezionare e formare alle professioni della pubblicità le giovani promesse.

Pirella Göttsche Lowe è stata la sola agenzia italiana a ottenere più volte il riconoscimento del Festival international de la publicité di Cannes (noto anche come Cannes Lions), conseguendo Leoni di bronzo nel 1997, nel 1999 e nel 2002, d’argento nel 2000 e d’oro nel 1998. Tra le numerose onorificenze individuali ricevute dal pubblicitario si ricordano l’ingresso nella Hall of Fame dell’ADCI (Art Directors Club Italiano, di cui Pirella fu presidente nel 1990), un premio alla carriera consegnatogli dall’Università IULM (International University of Languages and Media) di Milano (nel 2002) e, un paio di anni prima, nel 2000, il premio Flaiano per la sua rubrica di critica televisiva sul settimanale L’Espresso. Pirella, il ‘pubblicitario per caso’, sorta di Giano bifronte dalla duplice carriera professionale, non smise infatti mai di coltivare la relazione con il linguaggio e la scrittura, e in particolare con i giornali, che aveva sempre amato molto. Pubblicò il romanzo Ugh, ho detto (Venezia 1974), fu un rinomato autore satirico in abbinata con Tullio Pericoli, insieme al quale collaborò a Linus, L’Espresso, Corriere della sera e la Repubblica; la coppia Pericoli&Pirella inventò sul quotidiano milanese, nel 1976 sotto la direzione di Piero Ottone, per poi traslocarle due anni più tardi su quello romano di Eugenio Scalfari, una serie di strisce dissacranti nei riguardi dei tic e dei vezzi di un certo mondo borghese e intellettuale di sinistra, Tutti da Fulvia sabato sera.

Emanuele Pirella può essere considerato, a pieno titolo, alla stregua del padre fondatore del copywriting all’italiana, e come il fautore di quella che si è configurata sempre come l’antitesi di una «pubblicità regresso» (per citare il titolo di un articolo dello storico dei media e critico televisivo Aldo Grasso). Fu, per antonomasia, l’intellettuale della pubblicità (e un intellettuale di sinistra, come si era autodefinito in alcune interviste, precisando di averlo fatto con una certa dose di autoironia), trovatosi obbligato a fronteggiare le resistenze di matrice francofortese che la ‘sua’ cultura progressista oppose per lungo tempo all’advertising.

Morì a Milano il 23 marzo 2010, lasciando la moglie Nicoletta Verga e il figlio Duccio, attivo nella sua agenzia e nella scuola-palestra per giovani pubblicitari.

Fonti e Bibl.: D. Pittèri, La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 2002; G.L. Falabrino, Storia della pubblicità in Italia dal 1945 a oggi, Roma 2007; M. Tungate, Storia della pubblicità, Milano 2010; P. Elliott, Just doing it: storia dell’advertising attraverso i suoi protagonisti, Bologna 2011; V. Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, Roma 2013.

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