CAVALIERI, Emilio de’

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 22 (1979)

CAVALIERI, Emilio de’

Warren Kirkendale

Nacque a Roma tra il 1545 e il 1553, figlio di Tommaso e di Lavinia della Valle; apparteneva alla famiglia Orsini Cavalieri fondata da Mario, figlio di Gabriele Orsini e di Giovanna de Militibus o de’ Cavalieri, che assunse l’eredità e il nome della madre.

Il padre, allievo e amico di Michelangelo Buonarroti, collezionista di sculture antiche, contribuì senza dubbio molto alla educazione artistica del figlio, prodigandosi a qualificarlo nella sua posizione di soprintendente delle arti alla corte dei Medici.

La prima documentazione sul C. data dall’anno 1572; il 3 agosto partecipò infatti a un’assemblea della Congregazione dell’Oratorio del SS. Crocifisso in S. Marcello e il 13 ottobre dello stesso anno, insieme con il fratello maggiore Mario, divenne doganiere della gabella dello Studio. Il padre comprò per lui anche l’ufficio di revisore di porte e ponti. Nel 1571, 1577 e 1587 il C. venne eletto caporione di S. Eustachio. Dal 1577 organizzò l’esecuzione della musica per la quaresima all’Oratorio in S. Marcello, funzione espletata prima da Mario. Fino al 1584, e nuovamente nel 1597, fu responsabile delle paghe dei musicisti, e il costante incremento nelle spese indica che egli apportò notevoli miglioramenti nella qualità e quantità della musica. L’8 nov. 1585 il C. fu nominato uno dei due deputati incaricati della costruzione di due nuovi organi (o un doppio organo) per S. Maria in Aracoeli; egli quindi diresse il lavoro di eminenti costruttori di organi, quali Domenico e Benvenuto Benvenuti, Francesco Palinieri e lo scultore in legno Giovanni Battista Montani. Gli strumenti furono in effetti completati solo dopo la morte del C. da Luca Blasi e bruciati dalle truppe francesi nel 1798.

Il 30 ottobre 1587, dieci giorni dopo la successione di Ferdinando de’ Medici al trono di Toscana, il C. scrisse al granduca da Roma, alludendo a “i desiderij mei”. Intorno al 23 gennaio 1588, data della sua prima lettera scritta da Firenze, il suo desiderio per un incarico alla corte dei Medici fu realizzato (Arch. Segr. Vat., Archivio Della Valle-Del Bufalo, busta 36). Ferdinando aveva certamente conosciuto e apprezzato il C. quando era cardinale a Roma, ed ora ne faceva una figura chiave nel suo programma di sviluppo delle arti e delle industrie in Toscana. Ciò fu confermato in una patente del 9 settembre 1588 che lo nominava soprintendente di tutti gli artisti (eccetto lo orefice Bylevelt e lo scultore Giambologna), artigiani e musici. Il suo stipendio mensile di 25 scudi era superiore a quelli dei segretari di Stato Belisario Vinta e Lorenzo Usimbardi; gli fu dato inoltre un appartamento in palazzo Pitti.

Uno dei principali interessi del C. a Firenze continuò ad essere la costruzione di organi. Un documento datato 7 febbraio 1588 parla di legno fornito “per ordine del S:r Emilio Cavalieri... per farne più lavori segreti per strumenti da sonare e altro per S.A.S.” (Arch. di Stato di Firenze, Guardaroba 112, c. 166v).

Egli condusse con sé da Roma Francesco Palmieri, e tra il 1588 e il 1591 ebbe non meno di sei organi costruiti nelle fabbriche di Palinieri, Alessandro Avanzati e Francesco Maria Galganetti. Il suo maggior progetto, dal 1592 fino alla sua morte, fu la costruzione di tre organi enarmonici ad opera di Palmieri a Firenze e Pisa. Sebbene il C., nella lettera del 31 ott. 1592 indirizzata a Luzzasco Luzzaschi, ritenga essere una innovazione la divisione del tono in dieci comma, i suddetti strumenti sono da riguardarsi come facenti parte di una lunga tradizione di organi e clavicembali enarmonici che risale almeno a Nicola Vicentino e continua fino al sec. XVIII.

Oltre a dirigere i costruttori di organi e numerosi artisti e artigiani che erano allora ospitati nel palazzo degli Uffizi, il C. è menzionato, nel 1598 e 1599, anche come supervisore della “nuova lavoratione dei cristalli”. Fu qui che la tecnica della fusione e della colata del cristallo ebbe i suoi primi sviluppi.

Varie volte il C. si prodigò inoltre per portare marmi antichi da Roma alla corte fiorentina, nutrendo egli stesso la passione di raccogliere dipinti ed altri lavori d’arte. Un progetto che gli procurò dispiacere nei suoi ultimi anni fu la costruzione di un modello in legno di un ciborio per la cappella dei principi in S. Lorenzo per l’architetto romano Giacomo Della Porta, eseguito dallo scultore in legno G. B. Montani. Benché il lavoro fosse lodato dal C. e dal Della Porta, non soddisfece il granduca; la paga del Montani fu procrastinatia e il modello non fu usato quando si iniziarono i lavori della cappella nel 1604.

Dal suo arrivo a Firenze durante l’inverno 1587-88, fino al ritiro definitivo nella sua città natale nell’autunno del 1600, il C. tornò non meno di sei volte a Roma: nel settembre-ottobre 1591, nel gennaio 1593, dal settembre 1593 al marzo 1594, nella quaresima del 1597, nell’ottobre 1597 e dal dicembre 1599 all’aprile 1600. Intraprese il primo di questi viaggi in qualità di agente diplomatico del granduca; quando Gregorio XIV si ammalò gravemente, fu inviato a Roma in previsione del futuro conclave. Egli aveva il compito di dare notizie a Firenze, di esprimere ai cardinali alleati i desideri dei Medici e di guadagnare nuovi sostenitori alla causa toscana, offrendo in particolare pensioni segrete ai cardinali Filippo Spinola e Ottavio Paravicini.

Durante l’ultima malattia di papa Innocenzo IX, nel dicembre 1591, si mise nuovamente in viaggio per Roma, ma fu obbligato a ritornare a Firenze a causa di inondazioni. Il gentiluomo romano, che si muoveva liberamente nella società dei cardinali e conosceva profondamente la vita politica romana, costituiva l’ovvia scelta per l’importante missione diplomatica. Nell’inverno del 1593-94 il C. inviò nuovamente rapporti da Roma al segretario Marcello Accolti, suo amico a Firenze. La gelosia, sempre presente nell’animo dei fiorentini verso i romani alla corte del granduca, aveva causato da allora voci di “riforme” nei suoi confronti (11 marzo 1594: “Gio. del Maestro... disse a molti, questi Romani... li converrà partirsi”: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, filza 854, c. 965v). Negli anni che seguirono, le tensioni con Firenze e l’amarezza nelle lettere del C. aumentarono considerevolmente, raggiungendo il momento culminante nel novembre 1600 dopo la rappresentazione dell’opera dei suoi rivali Euridice e dopo voci, probabilmente infondate, che il C. era stato licenziato dalla corte. Questi e altri “disgusti” lo convinsero a ritirarsi definitivamente a Roma e a non ritornare più a Firenze.

Il C. compilò il suo testamento nel 1594 e nuovamente nel 1599, quando sentì la sua salute vacillare. Sebbene soffrisse di frequenti anche se trascurabili malattie durante gli anni seguenti, la morte lo colse improvvisamente a Roma l'11 marzo 1602. Le sue spoglie furono tumulate nella cappella di famiglia (la cappella di S. Gregorio) in S. Maria in Aracoeli.

Due note di Tommaso Contarini e Caterina Guidiccioni circa i primi anni del C. a Firenze ci danno una idea del suo carattere: “non è così assiduo alla persona [del granduca] come gli altri, perché ama la libertà” e “non si puol trovare il più benigno signore di questo signor Emilio, che trattien tutti, giova a tutti, con bontà, autorità e carità infinita”. Cristofano Malvezzi e Sebastiano Raval gli dedicarono madrigali.

Sebbene il C., nella sua attività e posizione sociale, fosse molto più di un musicista, è soltanto come tale che egli è oggi ricordato. Uno dei suoi primi compiti a Firenze fu l’organizzazione dei festeggiamenti in occasione del matrimonio di Ferdinando de’ Medici con Cristina di Lorena nel 1589, specialmente i famosi intermedi presentati il 2, il 13 e il 15 maggio nel teatro degli Uffizi. Quando il fiorentino Bastiano de’ Rossi, segretario dell’Accademia della Crusca, nella sua Descrizione dello apparato e degli intermedi, tralasciò intenzionalmente il ruolo del C. in favore del suo concittadino e compagno di accademia Giovanni de’ Bardi, il granduca ordinò di stampare una versione riveduta, nella quale l’encomio del Bardi e dell’architetto Bernardo Buontalenti veniva radicalmente abbreviato, offrendo spazio a ciò che segue: “Avendo il granduca al presente al suo servigio Emilio de Cavalieri gentil’huomo romano, nel valor del qual molto confidava, lo deputò, insieme col predetto Giovanni Bardi, sopra la presente Commedia, con pienissima autorità”.

Ottavio Rinuccini fornì la maggior parte del testo dei ventinove brani dei sei intermedi, Cristofano Malvezzi e Luca Marenzio la maggior parte della musica. Oltre ai madrigali polifonici di questi compositori, Antonio Archilei, Giulio Caccini, Iacopo Peri e il C. composero ciascuno una pseudomonodia cioè un assolo con abbellimenti improvvisati. Questi brani non rappresentano una innovazione, ma solo la tecnica, già esistente da tempo, di presentare una parte del madrigale vocalmente, in una forma abbellita, e le altre parti con strumenti. L’assolo del C. “Godi turba mortal” (VI, 3), con testo del Rinuccini, fu cantato dal celebre sopranista Onofrio Gualfreducci. Il de’ Rossi attribuisce anche il primo assolo (I, 1) al C., ma l’unica musica esistente, nella edizione del Malvezzi degli Intermedii et concerti (1591), è a opera dell’Archilei.

Altro contributo del C. agli intermedi fu il ballo finale O che nuovo miracolo (VI, 5). Egli dapprima progettò la coreografia e compose la musica; quindi Laura Guidiccioni da Lucca scrisse le parole a essa appropriate, un procedimento impiegato anche dal Guarini nel suo famoso Giuoco della Cieca (Pastor Fido, III, 2) e altri balli. Un testo completamente differente del Rinuccini è pubblicato dal de’ Rossi per il ballo del C., ma non concorda con la musica stampata. Nella versione che è pervenuta sino a noi, un coro di cinque voci di ninfe e di pastori si alterna con tre soliste (Vittoria Archilei, Lucia Caccini, Margherita allieva degli Archilei) che cantano, ballano e suonano nello stesso tempo, realizzando la concezione platonica della musica come dono degli dei (Leges II, 653 s.). Attraverso l’uso ingegnoso di trasformazioni ritmiche e la ricorrenza simmetrica di temi, il C. crea una struttura musicale perfettamente organizzata che per unità, logica ed estensione può considerarsi unica nel repertorio del XVI secolo. Più lungo di ciascuno dei sei intermedi che lo precedono, tale ballo è il punto culminante e il finale dell’intera rappresentazione. G. B. Doni (II, p. 95 e App., p. 55) lo definisce esemplare e una felice imitazione di antichità classica, menzionando inoltre che il C. era un “leggiadrissimo danzatore”. Esso senza dubbio ha influenzato i balli delle opere teatrali più tarde e i primi melodrammi. Il suo basso servì per innumerevoli composizioni originali in quasi ogni genere e paese europeo durante il sec. XVII col titolo Aria di Fiorenza o Ballo del Gran Duca.

Il C. inoltre compose, su testi di Laura Guidiccioni, piccole pastorali, che sono andate perdute. Si ha conoscenza di questi lavori dalla prefazione di Anima e corpo, in lettere e diari contemporanei. Il satiro e La disperazione di Fileno furono rappresentati nel 1590, almeno uno durante il carnevale, e Il satiro replicato più tardi. Il giuoco della cieca fu messo in scena il 29 ott. 1595 e il 5 genn. 1599, entrambe le volte in onore della visita fatta dai cardinali Montalto e Del Monte, e il 6 giugno 1598 per una visita dell’arciduca Ferdinando d’Austria. È probabile che durante il carnevale del 1590 il C. abbia composto intermedi o cori per una rappresentazione a Firenze dell’Aminta del Tasso. Il testo di Fileno della Guidiccioni è forse ispirato all’ecloga Tres Pastores (c. 1508) di Juan del Encina, che è stata riconosciuta come la prima tragedia spagnola. Sedici disegni di costumi di Alessandro Allori, detto il Bronzino, conservati nella Biblioteca nazionale di Firenze, furono preparati per la rappresentazione del 1590. Il Giuoco del 1595 fu probabilmente la prima rappresentazione di una parte del Pastor Fido, un lavoro che il granduca Ferdinando avrebbe desiderato rappresentare fin dal febbraio 1588. L’adattamento della Guidiccioni non è necessariamente identico al testo usato più tardi da Marsilio Casenti e ristampato dal Solerti.

Poiché le pastorali del C. precedono la prima opera del Peri, il loro significato storico dipende in gran parte dal fatto se esse impiegano o meno il nuovo stile recitativo: in tal modo esse potrebbero essere considerate come i primi melodrammi. Tale quesito non può ottenere risposta dato che la musica è andata perduta. Le ipotesi avanzate in favore del recitativo provengono da fonti non sufficientemente chiare: le parole di Caterina Guidiccioni (“altro modo di cantare che l’ordinario”, 31 dic. 1590) non si riferiscono necessariamente alle pastorali o al recitativo; Alessandro Guidotti, nella prefazione ad Anima e corpo del C., dice solo che le pastorali rivivevano antichi drammi musicali, risvegliavano gli affetti e rappresentavano una novità; il Peri, nella prefazione all’Euridice, reputa il C. essere il primo a far uso di “nostra musica sulle scene”. D’altra parte quegli autori che sostengono che le pastorali non includevano recitativi hanno frainteso un passo di G. B. Doni; essi non hanno osservato che il Doni, il quale molto probabilmente non era a conoscenza della musica delle pastorali, le considerava dello stesso stile di Anima e corpo, di un periodo quindi più tardo, e includeva i pezzi monodici di questo lavoro quando diceva che il C. non componeva in stile recitativo moderno, cioè nello stile dell’epoca del Doni (c. 1640). In ogni caso il C. è il primo compositore, di cui si conosce il nome, che seppe adattare alla musica un completo spettacolo drammatico; coltivando la pastorale stabilì il genere letterario dei primi libretti d’opera.

Le uniche composizioni liturgiche del C. oggi esistenti sono conservate in un manoscritto senza data della Bibl. Vallicelliana (cod. 0.31), scritte per mano del padre Giovanile Ancina tra il 1599 e il 1602. Il manoscritto comprende: a) tre lectiones delle Lamentazioni di Geremia per il mattutino di ciascuno dei tre giorni di tenebrae del C.; b) un corrispondente ciclo di nove risposte, anonime, probabilmente del C.; c) un secondo ciclo di Lamentazioni, incompleto: quelle per il primo giorno sono anonime, la prima lectio per il secondo giorno è di Durizio Isorelli, la seconda e terza lectio del C.; d) versi anonimi di lamentazioni, alcuni dei quali intesi come sostitutivi delle parti monofoniche nella seconda lectio del C. (c), e un Hierusalem di Costanzo Festa. Note del manoscritto ci informano che il famoso soprano Vittoria Archilei partecipò a una esecuzione del ciclo incompleto (c). Questa amica e concittadina del C., la cui carriera a Firenze e Roma era stata parallela a quella di lui, spesso cantò presso i Medici durante la settimana santa, quando la corte risiedeva abitualmente a Pisa. La lettera del 4 apr. 1600 del C. sembra indicare che egli aveva composto lamentazioni per questa occasione nel 1599 (ciò è in contraddizione con il non convincente tentativo di Alaleona di stabilire per i lavori una data posteriore a causa del loro stile). Il passo designato “henarmonico” della seconda lectio (c) richiede certamente l’impiego di uno degli organi enarmonici del C.; è questo un ulteriore motivo per fissare la prima esecuzione a Pisa anziché a Roma. I brani “a solo”, che sono nella maggior quantità, possono essere considerati come discendenti dalle primissime monodie fiorentine: il Lamento di Ugolino di Dante e le Lamentazioni di Geremia a opera di V. Galilei (1581-82). Essi rappresentano anche il primo impiego del basso continuo nella musica liturgica. I cori a cinque voci sono scritti in semplice stile omofonico, che è stato lo stile tradizionale nella composizione di lamentazioni per oltre un secolo.

L’esecuzione della famosa Rappresentatione di anima, et di corpo fu certamente il più memorabile dei molti eventi occorsi a Roma in occasione dell’anno santo del 1600. Il lavoro venne rappresentato due volte nell’Oratorio di S. Maria di Vallicella durante il mese di febbraio, riscuotendo larghi consensi anche fra i cardinali presenti (15 e 20 per volta). Il testo dell’opera fu scritto dal poeta Agostino Manni dell’Ordine dei filippini; l’attribuzione ancora frequente del testo a Laura Guidiccioni è soltanto un errore di Arteaga e Baini. La pubblicazione della musica sotto il nome del C. “in Roma, appresso Nicolò Mutij l’Anno del Iubileo MDC” e i riferimenti a essa nelle sue lettere, oltre che quelli di Pietro della Valle, che partecipò a una rappresentazione, testimoniano senza dubbio che il C. fu il compositore della maggior parte, se non di tutta la musica. Si deve perciò considerare errata l’attribuzione dell’Aringhi al padre filippino Duritio Isorelli, anche se non è da escludersi interamente la possibilità di un suo intervento. Seguendo l’usanza di compositori aristocratici, il C. non pubblicò egli stesso la sua opera, ma la affidò ad Alessandro Guidotti, con una dedica (13 settembre) al potente cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, allievo e benefattore dell’Oratorio.

Il libretto di Anima e corpo, stampato di nuovo separatamente alla fine dell’edizione, è diviso in tre atti e 91 numeri (un numero per ogni cambiamento di persona). La predominanza di distici a sette sillabe con rime femminili fa pensare a una poesia popolare piuttosto che a una composizione artisticamente raffinata. Le basi del testo invero poggiano su due, tradizioni di letteratura popolare religiosa che fiorì particolarmente a Firenze, patria di Filippo Neri. Il contenuto può essere ricondotto, attraverso la lauda dialogata tipica del sec. XVI, alle laude francescane tipo “contrasti” del Duecento (es. i due contrasti “fra anima e corpo” di Iacopone da Todi) e alla grande progenie internazionale della latina Visio Philiberti. I suoi elementi teatrali, d’altra parte, appaiono intimamente connessi con le sacre rappresentazioni fiorentine. Il testo (non la musica) dei numeri 4-13 è stato preso direttamente da una lauda Anima e corpo, scritta probabilmente dal Manni, in una collezione di laude pubblicate per la prima volta dai padri dell’Oratorio nel 1577. La rappresentazione teatrale, con azione, costumi, ballo, ecc., dimostra chiaramente che l’opera, così spesso soprannominata “il primo oratorio”, non poteva far parte degli esercizi spirituali della Congregazione dell’Oratorio e non si può considerare come una diretta antenata del più tardo oratorio musicale. Piuttosto, essa è il primo melodramma sacro, e la continuata pratica di questo genere a Roma durante i decenni che seguirono testimonia la sua influenza. Lo stile musicale di Anima e corpo è indebitato con la lauda del XVI secolo e la nuova monodia fiorentina. I cori, che occupano un posto di maggior rilievo che non nelle opere fiorentine (24 su 91 numeri), sono scritti in stile estremamente omofonico, omoritmico tipico della lauda popolare e della frottola. L’eco e il ballo, caratteristici degli intermedi, delle pastorali e delle prime opere, sono anch'essi qui impiegati efficacemente. I brani a solo in stile recitativo sono in un certo senso più melodiosi e spontanei di quelli di Peri e Caccini, più prossimi all’ideale di Vincenzo Galilei di monodia popolare. Essi, presentando per la prima volta il nuovo stile nell’opera sacra, sulle scene romane e in una edizione stampata, hanno un’importanza storica considerevole. Anima e corpo è anche la prima musica stampata con il basso continuo, in un sistema già pienamente sviluppato e in edizione più dettagliata e accurata di quelle posteriori di Peri e Caccini.

Anche di grande interesse storico possono considerarsi le introduzioni “A’ Lettori” e “Avvertimenti”, firmate dal Guidotti, ma esprimenti le idee del Cavalieri. Sebbene non siano completamente nuove e fossero criticate dal Doni, esse rappresentano la prima dettagliata drammaturgia dell’opera e dicono molto anche circa lo stile e le rappresentazioni delle pastorali perdute e di Anima e corpo. Nel dare istruzioni particolareggiate per la composizione e per la produzione di tali lavori, il C. è conscio di aver creato un nuovo stile artistico. Alla fine della partitura, Guidotti aggiunse, come esempio della sua imitazione della pratica classica, un’“Aria Cantata, e Sonata, al modo Antico”, con il testo Io piango Filli. Questo piccolo brano, per tenore e due flauti, non presenta relazioni con lo stile recitativo, ma potrebbe essere un esempio della musica impiegata nelle pastorali del Cavalieri.

Dopo la presentazione di Anima e corpo il C. ritornò a Firenze per l’ultima volta, probabilmente non intendendo rimanervi per lungo tempo, ma soltanto per essere presente al matrimonio per procura di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia.

Michelangelo Buonarroti il Giovane c’informa nella sua Descrizione delle felicissime nozze che il C. compose il Dialogo di Giunone e Minerva, presentato al banchetto di nozze in palazzo Pitti il 5 ott. 1600. La musica è andata perduta. Nel testo di Battista Guarini, le dee rivali iniziano con una reciproca polemica unendosi poi alla fine per cantare lodi alla coppia reale. La sera seguente veniva presentata la memorabile Euridice di O. Rinuccini e I. Peri, erroneamente menzionata da diaristi contemporanei come un lavoro del Cavalieri. Queste attribuzioni e una espressione similare in una lettera del 7 nov. 1600 indicano che questi era incaricato della presentazione. Contrariamente all’opinione comune, egli non fu un membro della cosiddetta “Camerata fiorentina dei Bardi”, un gruppo la cui importanza fu sovraestimata e le cui attività si conclusero all’epoca del suo arrivo a Firenze. La sua creatività e la sua posizione come sovrintendente alle arti alla corte di Ferdinando de’ Medici fanno di lui “dopo le feste del 1589 il vero animatore della riforma” (Solerti, Gli albori..., I, p. 50).

Delle sue opere si trovano in edizione moderna: Godi turba mortale e O che nuovo miracolo, madrigale e canzone a ballo, pubblicate in C. Malvezzi, Intermedii et concerti…, Venezia 1591 (in Österreichische Nationalbibliothek) e in Les fêtes du mariage... (1589), I, Musique des intermèdes de La Pellegrina”, a cura di D. P. Walker, Paris 1963; Lamentationes Hieremiae Prophetae cum Responsoriis Officii Hebdomadae maioris et notis musicis, conservate a Roma, nella Bibl. Vallicelliana, cod. 0.31, ciclo “a” edito a Zurigo nel 1950, a cura di G. Maselli, e a Padova nel 1960, a cura di F. Mantica; Rappresentatione di anima, et di corpo nuovamente posta in musica dal sig. Emilio del Cavalliere, per recitar cantando..., Roma 1600, esemplari a Roma nella Bibl. del conserv. di S. Cecilia, nella Bibl. Vallicelliana, a Urbino nella Bibl. universitaria e a Napoli nella Bibl. oratoriana dei filippini; è stata pubblicata in facsimile a Roma nel 1912, in Prime fioriture del melodramma italiano, a cura di F. Mantica, a Bologna nel 1967 e a Farnborough nel 1967; edizioni moderne incomplete e molto corrotte sono state pubblicate a Torino nel 1915, a cura di G. Tebaldini; Milano nel 1956, a cura di E. Gubitosi; selezioni a Milano nel 1919, a cura di G. F. Malipiero, Raccolta nazionale delle musiche italiane, quaderni 35-36 (I classici della musica italiana, X); edizione manoscritta, Kassel 1970, a cura di B. Paumgartner; il libretto è stato stampato separatamente, a Roma nel 1600, a Siena nel 1607 (attr. ad A. Guidotti), a Roma nel 1637, a Kassel nel 1968 (trad. tedesca); spuria è l’attribuzione de LAscension de Notre Sauveur, a cura di E. Martin, Paris 1950.

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