EMOZIONI E RETORICA IN VENDITA: IL LINGUAGGIO PUBBLICITARIO

XXI Secolo (2009)

Emozioni e retorica in vendita: il linguaggio pubblicitario

Fabio Rossi

I messaggi della pubblicità

Sulla pubblicità si è scritto moltissimo, almeno a partire dagli anni Cinquanta. Il testo dei messaggi pubblicitari ha costituito una sorta di banco di prova per molte discipline, tra le quali la semiotica e la neoretorica, per non parlare delle scienze sociali, economiche e della comunicazione, della massmediologia, della psicologia e della linguistica. A candidare questi messaggi come prototipi di analizzabilità hanno contribuito soprattutto la loro brevità, l’elevata frequenza di figure retoriche e l’integrazione di codici diversi: verbale e iconico, oltre all’acustico, nel caso della televisione e dei nuovi media. La brevità e la concisione di ‘spot’ (o telecomunicati), ‘poster’ (se di formato orizzontale 6×3 m; sono detti invece manifesti i cartelloni di formato verticale affissi nelle strade), ‘annunci’ (i singoli pezzi pubblicitari emessi dalla stampa periodica e quotidiana) e simili – così come l’estrema attenzione rivolta al fruitore – fanno sì che essi esibiscano al massimo grado i requisiti di buona formazione di un testo. Si tratta infatti, perlopiù, di messaggi coerenti (sebbene talora talmente densi e metaforici da richiedere una certa abilità decodificatoria), ben coesi, altamente informativi, facilmente memorizzabili e che suscitano nel ricevente un elevato grado di emotività.

Proprio il ruolo centrale del destinatario consente anche di indagare i risvolti pragmatici di tale forma comunicativa: soprattutto l’illocuzione (ossia il compimento di atti mediante le parole) e la perlocuzione (l’ottenere risultati mediante le parole). Per lo stesso motivo, la retorica intesa come arte o tecnica della persuasione trova nella pubblicità la sua espressione ideale. Ben rappresentate sono anche tutte le classiche sei funzioni comunicative di Roman Jakobson, con particolare accento sulla conativa (ovvero quella che mira a dirigere il comportamento dell’interlocutore) e sulla poetica (cioè basata sull’attenzione alla forma dei messaggi), ma anche sulla fàtica (concentrata sulla volontà di instaurare un contatto con l’interlocutore) e sulla (pseudo)emotiva: per attrarre il destinatario, il mittente (il proprietario del marchio e, attraverso di lui, il ‘creativo’, vale a dire l’autore del messaggio pubblicitario) deve fargli credere di provare in prima persona quanto sta dichiarando, sfidandolo, dunque, sul suo stesso terreno, quello dell’investimento emotivo-pulsionale generato da molti dei fattori presenti nella pubblicità, dal gioco linguistico ai colori sgargianti, dalle musiche ai corpi avvenenti, alla rappresentazione di personaggi famosi e così via.

Nell’impossibilità, e forse anche nell’inutilità, di ripercorrere, sia pur sommariamente, la bibliografia principale al riguardo, in questa sede ci limiteremo a individuare i caratteri precipui dei principali tipi di testo pubblicitario, utilizzando esempi reali risalenti all’inizio di questo secolo.

La pubblicità, soprattutto in epoca recente, più che rispondere a reali esigenze materiali, crea nuovi bisogni sociali, più che esaudire desideri, induce (o almeno aiuta) a desiderare qualcosa, che quasi sempre, oltre tutto, va ben oltre il mero prodotto pubblicizzato, estendendosi allo stile di vita o allo status a esso associati. Tutto questo è ben noto almeno a partire dalla produzione dei sociologi della Scuola di Francoforte, secondo i quali la caratteristica della moderna società di massa è quella di «trasformare lo spreco in bisogno» (H. Marcuse, One-dimensional man. Studies in the ideology of advanced industrial society, 1964; trad. it. 1967, p. 29). L’obiettivo primario della pubblicità non sembra più tanto quello di vendere un determinato prodotto, quanto di convincere il pubblico a desiderare di entrare a far parte del mondo prestigioso, godibile e peccaminoso popolato dai consumatori abituali di quel dato prodotto, sia esso un gelato, una bevanda, un abito. È come se, rispetto alla pubblicità del passato (fino alla metà del Novecento), l’obiettivo si fosse spostato dall’oggetto (il bene pubblicizzato), ovvero dal piano denotativo, all’aura che lo circonda, vale a dire al piano connotativo, a quell’insieme di presupposizioni e suggestioni che servono a contestualizzare il bene e di cui quest’ultimo non diventa che il correlativo oggettivo; più che un dato profumo, verrà dunque pubblicizzata la sensualità che esso incarna, più che un certo liquore, la virilità di cui è simbolo: «Il pubblico non desidera più che il prodotto sia presentato per le sue qualità o funzioni intrinseche, ma si mostra desideroso che il messaggio pubblicitario susciti una reazione, un’emozione» (Giacomelli 2003, p. 224). Ovvero, desidera che la pubblicità vada incontro alle sue attese, come quella dell’eterna vacanza. C’è più mare, montagna e, in generale, atmosfera di libertà e di aperti orizzonti, reali e metaforici, negli spot sulle automobili (e in quelli sulle compagnie telefoniche, in cui la vacanza simboleggia la libertà del cambiamento di compagnia, ribadita da famosi slogan recenti: «è meglio cambiare»; «moltiplica la tua libertà») che in quelli degli enti turistici e almeno tante donne svestite nelle pubblicità di automobili o prodotti ritenuti ‘maschili’ (per es., il silicone Saratoga) quante in quelle di biancheria intima.

Sesso e (poco) altro

In un quadro siffatto risulta naturalmente fin troppo scontata l’invadente pervasività del sesso, che anima gran parte delle metafore, dei giochi verbali e delle scelte iconiche dei messaggi pubblicitari tanto italiani quanto stranieri. Quasi sempre, per giunta, il sesso è associato a un altro nucleo di significato profondo, più o meno esplicito, del messaggio pubblicitario: l’evasione dalla realtà garantita dalle sostanze psicotrope. Il processo non sembra molto distante da quello già molti anni or sono individuato nell’ambito della canzone e del cinema e felicemente denominato lingua rock (R. Giacomelli, Lingua rock. L’italiano dopo il recente costume giovanile, 1988). La main promise di molti spot, vale a dire l’obiettivo principale perseguito da un pubblicitario, si presta più o meno alla seguente parafrasi: soltanto acquisendo questo oggetto potrai evadere dalla tua meschina e noiosa realtà, liberando la mente dai vincoli sociali e dalle tue paure proprio come quando sei sotto l’effetto di uno stupefacente, godendo appieno dei piaceri del sesso e suscitando in questo modo l’invidia altrui.

«Lasciati sedurre da un capriccio»: Caprice des Dieux «un amour de fromage» (spot di un formaggio, 2008); «L’intenso piacere che risveglia i tuoi sensi» (spot dei biscotti Gocciole Extradark, 2008). Talora l’associazione cibo-sesso spinge la propria carica provocatoria fino a sfiorare la pedofilia e il cannibalismo: accadeva qualche anno fa con lo spot dello yogurt Müller, il cui pay off o baseline (o frase a effetto conclusiva, garanzia della riconoscibilità del prodotto) è rimasto tuttora invariato: «Fate l’amore con il sapore». Quello che è cambiato è il visual (ossia l’immagine di un annuncio pubblicitario o di uno spot), che mostra attualmente, tra l’altro, una donna estaticamente suggente una goccia di liquido bianco cadutale sulla mano e che mostrava invece, anni fa, un neonato su un cucchiaino pronto per essere mangiato.

I rischi, per la collettività, dell’ipersessualizzazione del prodotto sono lampanti nella pubblicità di talune automobili che identificano la velocità con le prestazioni sessuali virili. Il vero maschio non deve conoscere limiti e non deve aver paura di infrangere la routine (oltreché i limiti di velocità), di distinguersi dalla massa, anche a costo di essere, talvolta, un ragazzaccio, che tanto piace alle donne: «perché ogni persona è un’edizione limitata» (Mazda); «enfant terrible» (Peugeot); «Stop alla routine» (Renault); «guardarla non basta. Bora [Volkswagen]. L’hai provata?» (annuncio a stampa, in Giacomelli 2003, p. 238); «Nuova Citroën C tre. Unica, decisa e inconfondibile. Decisamente sconsigliata ai timidi. Fortemente consigliata a chi invece vuole interni spaziosi, con un’ampia superficie vetrata, una dotazione da categoria superiore e una grande sicurezza in ogni condizione di guida. Citroën C tre: la vie est belle» (messaggio pubblicitario radiofonico, o radiocomunicato, in Sergio 2004, p. 360). La pubblicità automobilistica, più di ogni altra, sposa l’«edonismo elitario» allo spirito «rivoluzionario e della ribellione» (M. Gargiulo, La cultura della noia e del rifiuto. Confusi tra spot, globalizzazione e cyberspazio, «Lingua italiana d’oggi», 2004, p. 94). Inutile dire che il binomio donne e motori viene costantemente rinverdito da questo tipo di annunci, che mostrano spesso, accanto all’aitante autista, la top model di turno. Tutta la pubblicità, nel complesso, irrigidisce al massimo grado gli stereotipi di genere, mostrando donne belle e sottomesse e maschi belligeranti e competitivi, a cominciare dagli spot per l’infanzia (Businaro, Santangelo, Ursini 2006). Nel genere automobilistico raramente si dà spazio all’ironia e alla comicità e quando questo accade il contesto è comunque a sfondo erotico, come nella fortunata campagna della Peugeot 207 con le vistose oscillazioni dell’auto provocate da vispissime coccinelle copulanti.

Analoghi rischi sono in agguato nella presentazione degli alcolici, che garantiscono l’evasione, la realizzazione di sé e migliori prestazioni sessuali: «Il tuo spazio è ristretto? C’è una birra che dà spazio a un mondo di folli incontri», recitava un vecchio slogan della birra Carlsberg; «da vero gentiluomo ha scelto il vino. Era così allegro, frizzante, proprio come lui [...]. Non vuoi sapere del dopo cena? [...] Müller Thurgau Santa Margherita: il vino dei grandi incontri» (radiocomunicato, in Sergio 2004, p. 453).

È istruttivo il confronto con una realtà straniera come quella danese, nella quale la birra è tra i generi di maggior consumo, socialmente e generazionalmente trasversale, le cui campagne pubblicitarie sono dunque impostate sui concetti di familiarità, di abitudine e di tradizione. Un noto annuncio Tuborg di una decina di anni fa recitava in danese: «Glædelig Jul og godt Tubår» («Felice Natale e Buon Anno Tub»), deformazione paronomastico-parodica dell’augurio ­«Glædelig Jul og godt nytår» («Felice Natale e Buon Nuovo Anno»). L’adattamento italiano, «Natale con i tuoi. Tuborg con chi vuoi», ribalta le presupposizioni culturali: «nello spot originale, la birra danese natalizia rafforza un costume tradizionale, dove il consumo di birra si colloca congruamente nell’ambito festivo, mentre nello spot italiano, in virtù del significato del proverbio parassitato, il consumo della birra natalizia spinge in direzione anticonformista, si pone come momento di socializzazione centrifugo rispetto alla famiglia e, quindi, rispetto alla tradizione (che come sappiamo prevede, oltre ai soliti vini, lo spumante o vino frizzante). Bere birra è una scelta fuori dalle tradizioni. Per un Natale diverso». Mentre gli spot danesi puntano sulla funzione assolutamente tranquillizzante della birra, prendendo «come spunto di partenza momenti già spensierati e piacevoli, non problematici», quelli italiani ne valorizzano la straordinarietà, partendo «invece da un problema, o una serie di problemi, che il ricorso a Tuborg potrebbe magicamente spazzar via [...]. Se bere birra è una scelta controcorrente, questo darà la forza di andare controcorrente. Tuborg libera dai legami di schiavitù» (P. Polito, Il discorso pubblicitario. Appunti per uno studio contrastivo, in Linguistica testuale comparativa, a cura di G. Skytte, F. Sabatini, 1999, pp. 251-57).

Sempre più frequenti, nelle pubblicità di alcolici, le associazioni tra bottiglie e donne: «Gli uomini sono infatti i principali fruitori di prodotti alcolici ed è a loro che le pubblicità si riferiscono, è loro che cercano di coinvolgere attraverso l’uso di immagini provocanti» (Delussu 2004, p. 191). Anche in assenza di modelle avvenenti e di scene erotiche, pure frequentissime nei visuals del genere (Campari, Martini, Zedda Piras ecc.), il riferimento alla seduzione è quasi scontato: «Disaronno. Il gusto della seduzione» (Delussu 2004, p. 196). Fondamentale la lusinga sociale, perché chi beve fa parte del gruppo dei migliori: «Chi vuole per sé il meglio sceglie Frattina» (p. 216). E finalmente, la quintessenza della lusinga maschile, ossia il binomio alcol e motori: «Mia madre mi vorrebbe così» (il visual mostra un motociclista su una moto giocattolo), «mio padre mi vorrebbe...» (il testimonial su una moto-giostra), «ma io sono così» (il testimonial che beve Cinzano e monta una vera moto); «la cosa straordinaria è rimanere sé stessi. Cinzano: sponsor ufficiale del Moto GP» (spot, 2008).

Accanto alla sempreverde tematica sessuale e maschilistica, è recente la tendenza, da parte di molte marche automobilistiche, a utilizzare l’ecologia, tentando così di reindirizzare una conoscenza da tutti condivisa, vale a dire quella dell’elevato potere inquinante delle macchine. Ne è una prova lo spot del 2008 di Volkswagen Bluemotion, con un visual da locus amoenus con tanto di uccellino e lo slogan: «Grandi distanze piccoli consumi. Continuiamo a imparare dalla natura». Oppure lo spot di Toyota (2008): «l’auto amata dal pianeta», o quello delle gomme Michelin (2008): «Giorno dopo giorno, con continua innovazione per la sicurezza e per l’ambiente, Michelin ci aiuta a disegnare la nostra mobilità di domani. Michelin: il modo migliore di avanzare».

Un’altra tendenza interessante, sempre in campo automobilistico (ma non solo), è quella, apparentemente controproducente, di pubblicizzare il costo eccessivo dell’oggetto, lusingando in tal modo i desideri di ascesa socioeconomica dello spettatore: «sfacciatamente ricca» viene quindi definita la Mazda (spot, 2008); «La bellezza non dovrebbe avere prezzo», dice lo headline (o titolo, ossia la frase principale del messaggio pubblicitario) della Chrysler 300C Touring, che mostra, con ottimo esempio di intertestualità tra diversi mezzi (la pubblicità su rivista – «L’Espresso», 13 marzo 2008, p. 41 – che richiama quella affissionale), il manifesto di una lussuosa autovettura da cui un uomo sta staccando il prezzo effettivamente spropositato: a partire da 40.930 euro.

Già da qualche tempo si è tentato di rendere i messaggi sessuali della pubblicità un po’ meno stereotipati, introducendo, per es., tematiche omosessuali, le quali, tuttavia, nel tipico circolo vizioso inevitabile nel linguaggio mediatico, sono subito diventate esse stesse cliché, buoni per vari riusi. È accaduto, per la prima volta, con un noto spot della Campari del 1998 (e anni successivi) che giocava sull’ambiguità di donne che sembravano uomini e viceversa, con relativi scambi di effusioni in chiave omo- e bisex; fino ai celebri poster e spot di Dolce & Gabbana del 2006 e del 2008.

Una delle peculiarità del linguaggio pubblicitario moderno rispetto a quello delle origini è l’understatement, l’infrazione dell’orizzonte d’attesa del destinatario mediante un’apparente svalutazione della situazione pubblicizzata in un primo momento. Tra le prime campagne pubblicitarie ad aver applicato simile ribaltamento di prospettiva dell’overstatement (vale a dire gli slogan urlati sui pregi del prodotto) fino ad allora imperante vi fu quella americana del Maggiolino Volkswagen nei primi anni Sessanta, in cui la piccola utilitaria, per farsi breccia tra le gigantesche sorelle d’oltreoceano, puntava sulle proprie imperfezioni («Nobody’s perfect») e addirittura sulla propria bruttezza, confrontata con quella di un rudimentale veicolo lunare: «It’s ugly, but it gets you there». In anni recenti, la tecnica del falso understatement è stata riproposta, tra gli altri, da una casa di moda («Non lasciate che le vostre figlie si vestano in Kookaï») e da un liquore, propagandato come «Il rum più bevuto nei peggiori bar di Caracas». Dietro l’apparente straniamento dell’associazione di valori negativi al prodotto pubblicizzato si cela, ovviamente, la solita promessa di trasgressione, specialmente in campo sociale e sessuale, anche grazie al visual dell’annuncio: nei peggiori bar in questione non potranno che esserci sesso e droga a buon mercato, sparatorie e simili. In virtù dell’understatement, anche il sesso può essere apparentemente svalutato. La campagna pubblicitaria di un gelato, qualche anno fa, mostrava i preliminari amorosi di due ragazzi: fin qui nulla di nuovo, data la scontata simbologia fallica del gelato e l’imprescindibile riferimento al sesso, soprattutto orale, nel pubblicizzarlo. Sul più bello, però, il ragazzo si allontanava con una moneta e, nell’alternativa tra l’acquisto di un profilattico e quello di un gelato, optava per quest’ultimo, perché, come recitava lo slogan finale, «La vita è fatta di priorità».

L’allentamento dei freni della censura degli ultimi decenni, così come la preferenza accordata da molti pubblicitari all’ironia (anche assai grassa) sembrano giustificare doppi sensi non propriamente aerei: «Perché gli italiani non scopano più come una volta?» (aspirapolvere Bidone, 1991); «Il vostro pacco è in buone mani» (pubblicità di una società di spedizioni internazionali, con tanto di mano sui genitali); Bullock: «L’antifurto con le palle» (Giacomelli 2003, p. 229); «La patatina tira» e «A chi piace la patatina» (con il pornodivo Rocco Siffredi che pubblicizza le patatine fritte, 2006) e così via.

Lingue straniere, tecnicismi e dialetti

Sempre più spesso la pubblicità italiana ricorre all’inglese (ormai meno spesso al francese, in auge negli anni Ottanta-Novanta per moda e profumi; raro, ma in crescita, lo spagnolo; quasi assenti le altre lingue), sia riprendendo l’annuncio originale senza tradurlo («Heineken. Sounds good»; «Armani Code: the ultimate code of seduction for men»; «Yves Saint-Laurent: l’homme sensuel et magnétique», annunci a stampa, 2006 e anni precedenti), sia inserendo anglicismi negli annunci italiani («Più tutto, più sprinter. Il nuovo Sprinter. Il Van con gli standard più elevati di sempre»; «Offerta Stay alive plus. Alfa 147», stampa, 2006). Lo scopo dell’inglese pubblicitario è evidentemente quello di attrarre e lusingare lo spettatore, facendogli credere che uno spot o un annuncio in lingua straniera abbia maggior prestigio. Talora inglese e francese vengono combinati: «Very irrésistible Givenchy. Le nouveau parfum pour homme. Very intense, very el-egant, very you» (stampa, 2006).

D’intento non molto differente è il largo impiego di tecnicismi (di uso del tecnicismo come «status symbol» parla Sergio 2007, p. 280), italiani e stranieri, che solitamente il lettore non conosce: «la valorizzazione linguistica dell’oggetto si gioca anche sul piano della scelta accorta di un gergo professionale più o meno incomprensibile, una scelta che conferisce al messaggio pubblicitario un’aura di referenzialità»; si punta dunque a «una garanzia di validità del prodotto in virtù della (pseudo)scientificità del linguaggio impiegato» (Serra 2006, p. 41). Quante persone sanno veramente che cos’è il lactobacillus bifidus essensis invocato a sostegno di uno yogurt? E il bifidus actiregularis? E soprattutto, a che cosa serve saperlo?

«L’inglese che appare in modo discontinuo all’interno di testi prevalentemente scritti in italiano è da intendersi, in certa misura, come ‘lingua magica’, la formula di accesso segreto che apre le porte del mondo possibile, della caverna di ‘Sesamo’ di una vita favolisticamente intesa al top» (Serra 2006, p. 110). A favorire l’uso dell’inglese saranno soprattutto i prodotti di lusso o tecnologici e, nell’ordine: banche-servizi finanziari, telefonia, cosmetici e profumi, abbigliamento e accessori, auto-moto, elettronica. Assai parco, invece, l’inglese nei prodotti alimentari, i quali, viceversa, ricorrono non di rado al dialetto, per mettere in relazione la supposta genuinità con una determinata origine geografica, quasi a voler sottolineare l’opzione della localizzazione garantita dal dialetto, rispetto alla globalizzazione richiamata dal ricorso all’inglese: un recente radiocomunicato pubblicizza, in un napoletano approssimativo, una pizzeria che ci farà sentire «’n goppa ’o Vesuvio»; la salsa di pomodoro sarà molto spesso una pummarola; gli emiliani Amadori, Rana e Rovagnati pubblicizzano con lieve accento regionale i propri prodotti.

Al di fuori dei generi alimentari (e talora anche in quest’ambito, com’è il caso dello spot napoletano della Danette Danone), l’uso del dialetto è quasi sempre svincolato da esigenze di localizzazione del prodotto ed è dovuto principalmente alla celebrità di un testimonial e al rapporto strettissimo con le produzioni cinetelevisive più popolari. Come sempre, nei mass media d’alto consumo, a farla da padrone sarà un attenuato romanesco, seguito dai citati napoletano ed emiliano e dal siciliano (Nino Frassica per Granigel, Fiorello per Infostrada, qualche anno fa). Abbastanza recente la rivalutazione televisiva (e dunque anche pubblicitaria) di varietà quali la toscana (Quattro salti in padella), la lombarda (Diego Abatantuono per Alice) e, recentissima, la piemontese (Luciana Littizzetto per Tre). Si va dal romanesco di reminiscenza sordiana e avanspettacolare di Christian De Sica (Parmacotto e TIM) e della coppia Paolo Bonolis-Luca Laurenti (Lavazza), a quello decisamente più teatrale di Gigi Proietti (Kimbo), sino a quello più immediato e spontaneo di Claudio Amendola (Tre).

Mentre «a livello nazionale gran parte della pubblicità che ricorre al non standard è diretta a un pubblico [...] con un certo livello di istruzione, è attentamente studiata e attinge dalla ricchezza del nostro repertorio per fini stilistici», ben altro tipo di discorso andrebbe fatto sugli spot e sugli annunci delle radiotelevisioni e delle testate locali, nelle quali «sono presenti anche pubblicità per così dire ‘fatte in casa’, con un messaggio ancora essenzialmente affidato al codice verbale e uno scarso utilizzo dell’intero blocco semiotico, ma spesso anche con varietà fortemente marcate sia per la mancanza di attori e registi professionisti sia per la volontà di raggiungere più velocemente una identità linguistico-culturale con il destinatario» (Benucci 2003, p. 428).

Retorica e testualità

Ogni tipo di pubblicità, fin dalle origini, è il luogo per eccellenza dell’impiego di tropi e stilemi retorici. Si va dalla paronomasia: «we canon you can» (Canon, 2008) e «you are, we car» (Fiat 500, 2008; entrambi questi spot riprendono un vecchio «Renault Weekend: we can»), alla deformazione di frasi fatte: «Si saldi chi può» (poster, 2007-08); «L’apparenza non inganna» (Chrysler, «L’Espresso», 13 marzo 2008, p. 41); dall’allitterazione: «Pompea non strappa, non stringe, non stressa» (spot di calze femminili di qualche anno fa), al doppio senso: «La moda ha preso una nuova piega» (prodotto per i capelli, stampa, 2008); dal chiasmo: «La guida per chi viaggia e i viaggi per chi guida» (stampa, 2006), all’enumerazione e agli stili sintattici nominale, giustappositivo e ternario: «La forza, l’eleganza, la trasparenza. Firriato. Vini di Sicilia» (stampa, 2006). Ancora florida, sebbene forse meno di qualche anno fa, la vis neologica: nel 2003 la Nissan Micra battezzava una nuova lingua («Do you speak Micra?»), tutta fatta di parole macedonia ossimoriche, in grado di render conto della conciliazione degli opposti consentita dalla rivoluzionaria vettura: semplogica (semplice e tecnologica), sigile (sicura e agile); modtro (moderna e retrò); brilliosa (brillante e vantaggiosa), emotica (emozionante e pratica). Anche in chiave nonsense: «Hai deciso di acquistare uno svirzillo, una cicobomba o più semplicemente una nuova auto? Bene: abbiamo il finanziamento che fa per te» (annuncio a stampa, in Giacomelli 2003, p. 241).

Come sempre, sono in auge l’inventiva morfologica della composizione di parole: docciaschiuma, ecoformula, ecoincentivo, ecolampadina, ecovantaggio, salvaroma (stampa, 2006); l’esuberanza di superlativi e criptocomparativi (cioè comparativi privi del secondo termine di paragone): «Altissima. Purissima. Levissima» (spot dell’acqua Levissima, 2008 ma già da molti anni); «Mangia sano e vivi meglio» (spot del Mulino Bianco, dal 2002); «Unieuro, le offerte più offerte dell’anno» (stampa, 2006); «A volte sono le condizioni migliori a rendere le cose straordinarie. BMW serie 5» (stampa, 2006); attestati anche superlativi abnormi, come nelle «Insalatissime Riomare» (stampa e spot, tuttora); l’aggettivo con funzione avverbiale: «Vola più facile!» (stampa, 2006). Sicuramente oggi si punta anche su altre tecniche, quali lo straniamento e l’effetto shock, tipico, per es., dell’associazione di temi sociali a forte impatto visivo (quali la fame nel mondo, il razzismo, la violenza) con prodotti di lusso. Un grande innovatore è stato senza dubbio, in questo campo, il fotografo Oliviero Toscani nelle sue campagne pubblicitarie per Benetton.

Senz’altro la pubblicità odierna presuppone un decodificatore ben più scaltro e avvezzo alla contaminazione dei media e dei generi rispetto a quello degli anni scorsi. Ormai anche la pubblicità, al pari di ogni altro testo contemporaneo, fa ampio ricorso alla citazione (dal cinema alla letteratura ad altra pubblicità) e al riuso indistinto dei materiali più svariati, spesso deformati, secondo il meccanismo della cosiddetta criptocitazione, o citazione mascherata e distorta. Se da un lato questo riflette la solita esigenza di lusingare il pubblico nel ripresentargli lacerti che ben riconosce, dall’altro cela la bulimica e anomica coazione al consumo e quindi al riciclo, inevitabile in ogni forma di comunicazione – e, come pare, di vita – della postmodernità. Ogni genere si presta al riuso, come il titolo della fortunata serie televisiva Sex and the City, che diventa, nell’ultimo pay off della Opel, «Flex in the city», per esaltare la flessibile agilità dell’auto nella frenesia della metropoli. O le parole dei politici: il poster di un negozio di arredamento romano reca, nel 2008, lo headline «Beati i bamboccioni», mostrando un trentenne sdraiato sul divano. Il riferimento è al famigerato epiteto scagliato dall’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, nell’autunno del 2007, nei confronti dei vitelloni a carico delle famiglie. Da almeno trent’anni (dai celebri «Jeans Jesus: non avrai altri jeans all’infuori di me» e «Chi mi ama mi segua», 1973, di pasoliniana memoria) è caduto anche il tabù dei ricicli religiosi: «Nel 2005 la Sony, per celebrare i dieci anni di vita della playstation [...], fa pubblicare su diversi giornali un annuncio, poi ritirato in seguito a un’ondata di proteste innescate e alimentate da ‘Famiglia cristiana’, nel quale appare un giovane dal sorriso malizioso con in testa una corona di spine adattata per l’occasione (lo slogan: ‘dieci anni di passione’)» (Arcangeli 2008, p. 35; numerosi altri esempi di criptocitazione alle pp. 85-92).

Tipico degli ultimi anni è anche il fenomeno dell’ibridazione dei mezzi e dell’intertestualità. Per dimostrarlo, oltre al frequentissimo ammiccamento dei poster stradali agli spot televisivi, basterebbe notare che quasi nessun annuncio pubblicitario a stampa (ma anche molti spot) può prescindere ormai dall’indicazione del sito web del marchio pubblicizzato. Come a dire che è la stessa fruizione pubblicitaria a essersi, ormai, ipertestualizzata. Lo spot del videogioco Nintendo Wii, alla fine del 2006, rimandava a un sito web nel quale si poteva scoprire che cosa fosse il misterioso Wii. Da un lato si punta sul fattore curiosità dello spettatore, dall’altro si considera ormai l’ipermezzo pubblicitario come un unico calderone comunicativo, sia pure dalle molteplici ramificazioni.

Certo è però che gli entusiasmi di fine millennio per i new media lasciavano sperare molto di più sullo sviluppo di nuove tecniche pubblicitarie, che invece appaiono oggi assai «rudimentali (un banner non è così diverso dall’avviso pubblicato su una gazzetta)» (Testa 2007, p. 64). L’ibridazione nel web si amplifica, con banners (finestre rettangolari, fisse, animate o interattive) e popups (banners che appaiono all’apertura di una pagina web) che tendono a occultare il resto della schermata, talmente sgradevoli, questi ultimi, da aver generato l’opzione telematica della loro esclusione automatica. Una forma particolarmente ibrida e infida di pubblicità in rete è costituita dai cosiddetti advergames (advertisement + game), sorta di messaggi pubblicitari strutturati come giochi. Di un certo appiglio sulle giovanissime generazioni, gli advergames contribuiscono all’ibridazione con gli altri mezzi, giacché, circolarmente, il successo del gioco agevola il successo del marchio (e viceversa), il quale spesso rimette così in moto tutta la macchina del merchandising legato a film e gadget connessi al medesimo marchio. Maestra in questo genere di attività è la casa di produzione dolciaria Kinder Ferrero, che distribuisce spesso, con i prodotti alimentari, DVD di giochi e cartoni animati ad hoc, oltre a varie altre ‘sorprese’. Colpisce, nel complesso, l’inattesa svalutazione dell’aspetto iconico e ipertestuale nella pubblicità in rete. Solitamente dozzinali, almeno in Italia, oltreché invadenti, i messaggi pubblicitari via e-mail (la cosiddetta spam, anch’essa escludibile automaticamente dai moderni sistemi di posta elettronica), frequentemente (mal) tradotti dall’angloamericano in un italiano traballante.

Il mezzo sul quale si investe di più per la pubblicità in Italia resta tuttora la televisione (il 62,1% delle spese pubblicitarie), seguita da periodici (16,2%), quotidiani (12,6%), radio (5,3%), affissioni (2,6%) e cinema (1,1%; dati del 2006 in Testa 2007, p. 81). Ancora limitati (o forse non ben quantificati), sebbene in crescita, appaiono gli investimenti pubblicitari in rete, benché si dichiari spesso e da anni che proprio quella telematica sia la pubblicità del futuro.

Una sintetica frase di un poster stradale, come si diceva, può talora essere colta soltanto ricordando una saga televisiva: è il caso degli spot Lavazza, Telecom, TIM o Vodafone, vere e proprie puntate di un serial, spesso sintetizzate, in una sorta di serrato dialogo con il pubblico, da una pubblicità stradale. Uno scorpioncino su un enorme cartello con il marchio Renault, qualche anno fa, poteva dir qualcosa soltanto a chi avesse visto lo spot televisivo, abbastanza complesso, che esaltava la stabilità e la silenziosità di un’automobile al punto tale da far addormentare (bizzarro modo di pubblicizzare la sicurezza di un’auto!) finanche uno scorpione in procinto di pungere l’autista. Così come i riferimenti a Pietro nei poster della Lavazza vanno a buon fine se si riattiva alla memoria la saga di san Pietro in Paradiso con la coppia Tullio Solenghi-Massimo Lopez prima, Bonolis-Laurenti poi. Quella delle saghe è sicuramente una delle innovazioni più importanti del linguaggio pubblicitario dell’ultimo ventennio, particolarmente amata dalle nostre compagnie telefoniche che investono moltissimo nelle campagne promozionali. La prima celebre campagna a puntate fu quella per SIP, diretta da Alessandro D’Alatri, con M. Lopez in procinto d’esser fucilato dalla legione straniera: «Una telefonata allunga la vita» (1993, primo posto al Festival della pubblicità di Cannes del 1994). L’altra nuova formula è quella del messaggio promozionale (dal 1987), che tuttavia sembra riportare la pubblicità alla sua funzione primigenia, ovvero quella persuasiva, conativa più che fàtica, quella cioè di convincere il pubblico a comprare un oggetto, con tecniche da banditore ed espressioni da venditore del mercato: «compratelo donne!». Ecco dunque come in questi messaggi si torna alla descrizione delle caratteristiche del prodotto e se ne elogiano le qualità, il che viene solitamente considerato ingenuo in uno spot.

Ancora sull’understatement e sul suo contrario

La tecnica dell’understatement è oggi talmente abituale da rendere un tabù non soltanto l’esaltazione del prodotto, quanto lo stesso riferimento troppo diretto alle tecniche pubblicitarie, fino a indurre la censura del nome stesso di pubblicità, camuffato in consigli per gli acquisti o con perifrasi varie, da ci fermiamo pochi minuti a rimanete con noi (Ricci 2002). Il ricorso alle vecchie tecniche elative è possibile, fuor di telepromozione, affissione e stampa o radiotelevisioni locali, perlopiù in contesti estremamente ironici, come nell’ultima campagna della Fiat Panda (2008), artefice Piero Chiambretti: «Questo spot vuol solo ricordarti che quando c’è Panda puoi fare tutto ciò che vuoi: dai un bacio a tua moglie o alla tua fidanzata. E se non hai una fidanzata avrai almeno un cane, un gatto, un cactus. No? Hm, certo che sei messo male, eh! Continua a guardare la TV! Vedrai come ti migliora la vita! Panda. Auto ufficiale per fare quello che ti pare».

Un’altra tecnica di understatement e di sviamento dell’attenzione oggi assai frequente consiste nello sfruttare sottilmente i meccanismi di presupposizione tipici di ogni atto comunicativo. Giacché, di solito, quanto è posto nella parte iniziale di un enunciato è considerato come elemento noto, non messo in discussione (tema), mentre ciò che è alla fine dell’enunciato ne costituisce il nucleo informativo, l’elemento nuovo (rema), non è raro che una qualità tutt’altro che scontata di un prodotto venga citata, per l’appunto, per prima, quasi sotto mentite spoglie, subliminalmente, per così dire. La tecnica confina con quella sorta di sillogismo imperfetto che è l’aristotelico entimema, vale a dire un sillogismo a premessa implicita, o soltanto probabile. In annunci come «I peccati di gola che non fanno ingrassare» o «Il nuovo gusto ha meno grassi» l’attenzione del lettore viene come sviata: che un prodotto dietetico venga pubblicizzato come poco grasso è un’ovvietà, ma il fatto che sia anche gustoso al limite del peccaminoso è davvero tutto da dimostrare, benché qui l’informazione venga fatta passare come generalmente condivisa. Analogamente: «BMW 330 Coupé. Non solo classe e potenza. Perfezione». Ma lo stesso risultato si può ottenere anche disponendo gli enunciati in altro modo: «E quando proverai una nuova emozione, avrai raggiunto la Danimarca che cercavi» (come se tutti non avessero altro scopo nella vita che scoprire un’inedita Danimarca); «Cambio automatico e sedili in pelle. La libertà non è mai stata così comoda» (che il cambio automatico e i sedili in pelle comportino rispettivamente libertà e comodità è tutto da dimostrare). Spesso viene usata la dislocazione a destra per creare un coinvolgimento con lo spettatore, dando per scontata, e quindi altamente condivisa, la parte pleonastica dell’enunciato: «Gustateli qui i croissant caldi»; «Con il tempo va via, con Oil of Olaz ritorna. La tua luminosità» (E. Lombardi Vallauri, Tratti linguistici della persuasione in pubblicità, «Lingua nostra», 1995, 2-3, pp. 41-51). Il medesimo stilema è utilissimo per i doppi sensi osceni: «Io ce l’ho profumato. L’alito. Perché, cosa avevi capito?» (spot di Mental, 1985); «Lo facciamo sui letti e sui divani... lo sconto e il finanziamento! A interessi zero» (poster di un negozio di arredamento romano, 2000).

Nonostante le numerose innovazioni del linguaggio pubblicitario, almeno due delle sue originarie caratteristiche rimangono inalterate: lusingare l’egocentrismo dell’interlocutore, dandogli del tu e facendogli credere di essere unico anziché una cellula di una massa indistinta; enfatizzare la tendenza dei media all’autoreferenzialità. Numerosissimi gli esempi del primo fenomeno, riassumibili nel pay off di Vodafone: «Tutto intorno a te»; «Tu, senza confini» (spot di TIM, 2008); «Il gusto di farlo per te» (spot di Quattro salti in padella, 2008); «La Coop sei tu» (annuncio a stampa, in Giacomelli 2003, p. 244); «Se ti piace Jack Daniel’s mandaci due righe. Ci piacerebbe conoscerti» (stampa, in Delussu 2004, pp. 207-08), dove addirittura si sbandiera la possibilità di un rapporto diretto tra un ‘noi’ e un ‘tu’. Un altro modo di coinvolgere lo spettatore è quello di rivolgergli delle domande dirette: «Nei testi pubblicitari la domanda (retorica) ha lo scopo di sollecitare il lettore, obbligandolo a prendere in considerazione un quesito specifico, che viene così messo ‘all’ordine del giorno’ [...]. Quanti soldi butti via ogni mese con il tuo conto? Con FinecoBank hai più interessi e azzeri le spese»; una domanda siffatta crea una presupposizione, perché le domande con un introduttore (quanto) presuppongono che non ci si interroghi sulla verità dell’asserzione che è alla base della domanda: si dà per scontato che con un conto diverso da Fineco si buttano soldi; il punto è stabilire quanti se ne buttino (D. Antelmi, Il discorso dei media, 2006, pp. 83-87). La tecnica della domanda retorica è sfruttata specialmente dalla pubblicità comparativa, che esalta un prodotto mediante la svalutazione di un prodotto concorrente (spot di Renault, 2006, sul crash test di vari marchi automobilistici).

Per una prova del secondo fenomeno, l’autoreferenzialità, basterebbe cronometrare i minuti (o le ore) spesi al giorno, dalla televisione, per pubblicizzare programmi televisivi (finanche all’interno del più referenziale dei contenitori: il telegiornale) e contare le pagine della stampa dedicate sempre al piccolo schermo. Lo stesso dilatarsi dei tempi pubblicitari in forme più distese e distanti dall’efficace concisione dello spot (dalle televendite ai messaggi promozionali, ai programmi prevalentemente funzionali alle sponsorizzazioni), o, nella stampa, la presenza sempre più invadente di pagine pubblicitarie non soltanto nei rotocalchi ma anche nei quotidiani, non fa che accrescere l’autoreferenzialità di tali mezzi. D’altro canto, anche il recente impiego di testi brevissimi, ma assai frequenti e disturbanti (la rapida comparsa di icone pubblicitarie nella parte inferiore dello schermo durante un programma), sortisce il medesimo effetto, come pure il costante altalenare degli stessi personaggi da uno spot a una trasmissione, a un telefilm, dal ruolo di testimonial a quello di conduttore, e simili. Il fenomeno, ai limiti della legalità, si amplifica se si notano le stesse voci doppianti in film e spot adiacenti e, talora, addirittura gli stessi volti: la contiguità di fiction e pubblicità (abilmente sfruttata, tra l’altro, dai messaggi promozionali all’interno delle soap opera o situation comedies, che ricreano nello spot la medesima situazione drammaturgica della trasmissione che lo contiene: un esempio di oggi è dato dai messaggi che interrompono la serie I Cesaroni) diventa talora talmente serrata da rendere allo spettatore davvero complicata, d’acchito, la riconoscibilità tra il piano della narrazione e quello della promozione.

Le tecniche espressive della pubblicità non mutano soltanto in base al mezzo (più sbilanciate sul gioco di parole spicciolo le pubblicità radiofonica e stradale; decisamente sbilanciata sul visual quella dei periodici; strutturalmente più complessa quella televisiva; quasi sempre dialogica e poco incisiva quella radiofonica), bensì anche al prodotto pubblicizzato. Se generi di lusso (automobili, abbigliamento e profumi) si basano più sull’immagine, gli elettrodomestici e i prodotti per la casa puntano più sui giochi di parole o sulla descrizione del prodotto. Solitamente, maggiore è la componente emotiva e libidica associata dal pubblico a un bene, minore sarà la componente verbale utilizzata per pubblicizzarlo e, viceversa, un maggior impiego della parola (sia referenziale, sia ludica) caratterizzerà la pubblicità di merci che attivano maggiormente la sfera razionale. Basta sfogliare qualunque rivista o quotidiano per appurare che oggi gran parte dei profumi o dei generi di abbigliamento prescinde praticamente dal codice verbale, facendo affidamento esclusivamente sul ritratto del o della seducente testimonial. È, in un certo qual modo, anche questa una forma di finto understatement, come a dire: non abbiamo bisogno di parole per convincervi, ci basta mostrarvi la bellezza del nostro prodotto o, meglio, del nostro testimonial.

Analogamente cambiano i temi: se automobili e apparecchiature elettroniche (e talora semplicemente elettriche) puntano su scenari futuristici, i generi alimentari caldeggiano un ritorno al passato preindustriale e rustico, «‘genuino’, idealizzato come buono a ogni costo» (Giacomelli 2003, p. 228), e un ancoraggio alla tradizione: «Che profumo! È lo stesso di allora» (Mulino Bianco); «mangia sano, torna alla natura» (l’attuale pay off dello stesso marchio). Il termine natura è il prediletto negli spot alimentari. Da un lato si magnifica il viaggio e l’altrove, anche in altri mondi, dall’altro Barilla esalta il ritorno in famiglia: «Dove c’è Barilla, c’è casa». Naturalmente, talora l’esaltazione della genuinità oltrepassa il paradosso, arrivando a suggerire come preferibili i cibi precotti a quelli fatti in casa, come la nonna di Quattro salti in padella, che tra le tagliatelle fatte in casa e quelle preconfezionate non ha dubbi sulla scelta delle seconde. O come, per lo stesso marchio, si evince da testi come il seguente (spot del 2008): «Un grande cuoco non si accontenta di un buon ingrediente. Vuole l’ingrediente perfetto. Ricotta fresca e pasta fresca all’uovo. Ravioli e spinaci di Quattro salti in padella. I veri sapori della tradizione pronti per te».

Uno sguardo agli altri Paesi

Più di un elemento colpisce l’osservatore dell’odierna pubblicità straniera confrontata con quella nostrana: il complessivo maggior livello creativo (specialmente per quanto riguarda gli spot televisivi, giacché le altre forme di pubblicità, soprattutto nella stampa periodica, sembrano più standardizzate e dunque meno identificabili in base al Paese di provenienza), il minor ricorso a lingue straniere, l’elevato grado di stereotipia con il quale viene ritratto il nostro Paese, il minor grado di stereotipia (e il conseguente maggior rispetto) con il quale viene impiegata la figura femminile. Per rendersi conto del primo elemento, basta navigare per qualche ora in siti come www.youtube.it, www. visit4info.com, oppure www.adslogans.co.uk/site/ pages/new-slogans.php (5 maggio 2009), alla ricerca di spot angloamericani, specialmente quelli prodotti per l’occasione di grandi eventi quali il Super Bowl, l’incontro che assegna il titolo di campione della Na­tion­al Football League, la lega professionistica statunitense di football americano: maggiore originalità nelle scelte espressive e tematiche, maggior coerenza nella corrispondenza tra musica, immagini e parole, maggiore incisività del messaggio. Non è un mistero che «piuttosto spesso [...] gli spot italiani presentati nelle varie occasioni al Festival internazionale della pubblicità di Cannes (giunto nel 2007 alla 54a edizione) siano stati subissati da valanghe di fischi» (Arcangeli 2008, p. 92). Anche nell’impiego delle tecniche dello straniamento, dell’ironia e del sarcasmo – talora addirittura controproducenti perché fraintesi dal grande pubblico – la pubblicità straniera sembra spingersi ben oltre rispetto all’italiana (Lagerwerf 2007).

È comprensibile che la contropubblicità, vale a dire lo sfruttamento ironico della pubblicità per mostrarne l’insensatezza, fiorisca prima di tutto nel regno della pubblicità per eccellenza: l’America Settentrionale. Ecco dunque che negli ultimi anni si registrano casi significativi di impiego antifrastico, a fini ideologici, della pubblicità, che sono riconducibili al movimento no-global, come è possibile leggere nel sito www.adbusters.it (la versione originaria del sito nasce a Vancouver: www.adbusters.org/network/about_us.php, 5 maggio 2009), di cui segue la presentazione degli intenti: «La pratica del Culture Jamming (interferenza culturale) consiste nel trarre spunto dalle campagne dei grandi marchi internazionali stravolgendone il messaggio originario attraverso l’ironia, il paradosso e lo straniamento. Lo scopo è quello di evidenziare le strutture del potere e valori socialmente, ecologicamente e culturalmente negativi che si annidano nel mondo della comunicazione e in particolare nei messaggi pubblicitari delle grandi corporations globali» (www.adbusters.it/pages/chisiamo.php, 5 maggio 2009). Del resto, il cinema americano (sulla scorta delle trattazioni sociologiche degli anni Cinquanta-Sessanta) già da tempo ha mostrato i rischi della persuasione occulta e della messa in spot, per così dire, dell’universo: da They live (1988; Essi vivono) di John Carpenter a The Truman show (1998) di Peter Weir. Anche in questo l’Italia non registra titoli significativi, se non, forse, Ladri di saponette (1989) di Maurizio Nichetti.

L’osmosi della pubblicità con altre forme di comunicazione è tale che, inverando ancora una volta la massima di Marshall McLuhan, l’annuncio pubblicitario da mezzo diventa messaggio e, dove tutto è pubblicità, la pubblicità, ovviamente, scompare, perdendo la propria riconoscibilità: «L’aspetto attualmente più interessante della pubblicità è la sua sparizione, la sua diluizione come forma specifica, o semplicemente come medium. Essa non è più (lo è mai stata?) un mezzo di comunicazione o d’informazione. O meglio, essa è presa dalla follia specifica dei sistemi sovrasviluppati di farsi plebiscito a ogni istante, e dunque di autoparodiarsi. Se un tempo la merce costituiva la sua propria pubblicità (non ve n’era un’altra), oggi è la pubblicità che è diventata la sua propria merce. Essa si confonde con se stessa» (J. Baudrillard, Il sogno della merce, 1994, p. 47).

Data la tendenziale esterofilia dell’italiano, contrapposta alla sostanziale autarchia linguistica di inglese e francese, non stupirà la rarissima presenza di altre lingue nella pubblicità francese e angloamericana. Un parco ricorso all’inglese e al francese si ritrova in quella spagnola, nella quale, così come da noi, il francese è associato soprattutto ai grandi marchi internazionali dei profumi. La lingua italiana compare, raramente e con errori, in annunci e spot stranieri soprattutto per pubblicizzare prodotti gastronomici, nei quali vengono sottolineati i soliti luoghi comuni (quasi tutti di matrice filmica) legati alla conoscenza dell’Italia all’estero: gli italiani mammoni, maschilisti, mangioni e, soprattutto, ridotti, per sineddoche, ai concetti generalizzanti di meridionalità e di mafia. La nota casa anglosassone Dolmio, produttrice di sughi, pizza e pasta all’italiana (bolognesi, secondo gli spot), ha impostato da anni tutte le proprie campagne pubblicitarie su scenette interpretate da una famiglia prototipicamente italiana e, segnatamente, meridionale: pater familias con baffi e cappello, donne vistosamente abbigliate e truccate, tratti somatici ipermediterranei, grandi e animate tavolate, culto per il buon cibo di una volta e così via. Il tutto risulta talmente eccessivo e sopra le righe da essersi guadagnato innumerevoli parodie, soprattutto scozzesi.

Goodfellas è nome frequente di ristoranti e di catene alimentari all’italiana, come, per es., la pizza surgelata Goodfella’s La Bottega pizza, «A taste of Tuscany», che, oltre a «traditional tomato passata, buffalo mozzarella and locally sourced Provolone cheese, finished with origano», lanciava anche, nel 2006, una «Insalata di porcini e cavalo (Cabbage and porcini salad)» (annuncio nella rivista «Good housekeeping», August 2006, p. 182). Come si vede nel refuso cavalo per cavolo, la cura per la grafia italiana è bassissima. L’importante è garantire una patina grossolana di italianità in rappresentanza della supposta genuinità del prodotto.

Il cliché della famiglia italiana si ritrova nella seguente pubblicità di un risotto della New Covent Garden Food, nel 2006: «Risotto. Our new bambino» («Good housekeeping», August 2006, p. 55); il visual mostra un cuoco intento a coccolare un barattolo del prodotto propagandato. Il nome del piatto italiano risotto, evidentemente, ha attratto a sé l’altro italianismo: bambino in luogo di baby. Il tutto risulta funzionale al triplo stereotipo degli italiani mangioni, amanti della genuinità e genitori iperprotettivi.

La carta della sicilianità, giocata assai di frequente per pubblicizzare i prodotti più svariati, è utile anche per marchi di prestigio come il profumo Sicily, di Dolce & Gabbana, in un noto, ricchissimo spot della stagione 2003-04, muto e in bianco e nero, diretto da Giuseppe Tornatore, musicato da Ennio Morricone e interpretato da Monica Bellucci. In questo caso l’ironia è assolutamente bandita. Vi si rappresenta un funerale con la vestizione a lutto, a partire dalla biancheria intima, della vedova Bellucci. Un ragazzo, con barba e immancabile coppola, la spia e, durante la cerimonia funebre, annusa appassionatamente un capo di biancheria dismesso della bellissima vedova, nel frattempo svenuta. Passionalità viscerale, maschilismo, senso del dramma e della morte indissolubilmente connessa all’amore, musica ammiccante al Padrino, abbigliamento e mimica vecchio stampo, coadiuvati dalla scelta del bianco e nero, che rimandano a un atavico, o meglio ancora acronico, attaccamento alle tradizioni. Gli ingredienti della Sicilia filmica ci sono tutti, a partire dalla provenienza del regista e degli stilisti. Lo spot, palesemente concepito per un target internazionale (e la scelta del muto in questo è vincente), intende dare al pubblico ciò che il pubblico vuole, ovvero la tranquillità del riconoscimento di frames ampiamente condivisi: la bella Sicilia, popolata di belle donne e uomini focosi, dove i valori essenziali della vita sono ancorati a leggi immutabili; la superiorità dell’uomo sulla donna, il sesso e l’onore. Lo stereotipo è qui esibito nella sua forma più pura e circolare: credo in quello che già so, in quello in cui voglio credere.

A parte i casi della donna italiana, comunque, le donne nella pubblicità straniera sembrano meno schiacciate sui soliti ruoli di vamp, di virago e di madre. Tra i tanti esempi, si confrontino alcuni spot automobilistici. In Italia, le automobili pubblicizzate da uomini, solitamente lussuose e di elevata cilindrata, si distinguono nettamente da quelle pubblicizzate da donne, nelle quali si sottolineano le piccole dimensioni, la facilità di parcheggio e addirittura (come nell’attuale campagna della Opel Agila) lo spazio per il passeggino. Di tutt’altro tenore le campagne straniere della Volkswagen o della Ford, nelle quali si incontrano spesso donne indipendenti, non necessariamente top model né madri, alla guida di veicoli potenti e non meno interessate degli uomini al concetto di libertà, ormai imprescindibile, come si è visto, nelle pubblicità automobilistiche.

Concludiamo la nostra rapida rassegna con un confronto diretto e schiacciante. Un recente spot francese della Peugeot (www.youtube.com/watch?v= IdlCpjOv9Og, 5 maggio 2009) inverte efficacemente gli stereotipi maschili e femminili, mostrando due donne, in chiaro atteggiamento da dominatrici, sedute nella parte anteriore di un’automobile e due uomini seduti dietro: scesi dall’auto, un uomo cucina delle uova sul cofano e le serve in tavola. L’ultimo spot della Peugeot passato in Italia (Rete 4, 8 marzo 2008), in occasione della festa della donna, recita, con una grafica obsoleta: «Ogni donna è una Miss. Solo per te Miss». Il fatto che la Peugeot fosse lo sponsor del concorso televisivo di Miss Italia non può giustificare lo sfruttamento di una ricorrenza come l’8 marzo, basata sulla necessità di ribadire le pari opportunità delle donne rispetto agli uomini e l’abbattimento di ogni discriminazione di genere, ribaltandone sostanzialmente il significato ideologico e sociale.

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