Energie rinnovabili

Enciclopedia on line

Le e. r. sono quelle fonti di energia non soggette a esaurimento; il loro sviluppo è indiscutibilmente una delle componenti fondamentali di ogni strategia politica tesa a raggiungere la minimizzazione globale degli impatti ambientali associati al funzionamento ottimale dei sistemi energetici. La sicurezza ambientale aumenta utilizzando una fonte di e. r. disponibile sul territorio e consentendo di sostituire fonti non rinnovabili e per lo più importate. Tuttavia per alcuni usi (in particolare la produzione di elettricità), la scarsa disponibilità delle risorse rinnovabili può limitare le possibilità di sostituzione; occorre quindi prestare particolare attenzione alla ricerca di una ragionevole integrazione tra e. r. e non rinnovabili. Per quanto riguarda la minimizzazione degli impatti ambientali, invece, tutti gli studi comparativi sugli effetti delle diverse filiere energetiche mostrano che quelli legati alle fonti rinnovabili sono significativamente inferiori alle compromissioni ambientali delle non rinnovabili. Nonostante gli effetti globalmente positivi, alcuni progetti di sfruttamento delle rinnovabili vengono talvolta rifiutati a livello locale, in ragione di determinati tipi di impatto sull’ambiente. Lo sviluppo delle fonti rinnovabili sembra per lo più non partecipare all’obiettivo della competitività. I costi di produzione e la fruibilità delle e. r. da parte dei consumatori sono, nella maggior parte dei casi, più elevati di quelli delle filiere tradizionali. Questa mancanza di competitività, per alcune fonti rinnovabili, è legata alle loro specificità (insufficiente maturità tecnica, elevati costi finanziari in conseguenza dell’intensità di capitali per gli investimenti ecc.). Tuttavia, in diversi casi, la scarsa competitività deriva direttamente dalla mancata internalizzazione, tra i costi delle altre fonti energetiche, delle loro esternalità ambientali negative. A oggi, i settori del gas, del petrolio, del carbone e del nucleare hanno pagato solo una minima parte dei danni che hanno provocato, o che provocheranno, all’ambiente e alla salute pubblica. I costi associati a tali danni sono stati sostenuti, tra gli altri, dai contribuenti e dai sistemi sanitari, e alcuni (riscaldamento climatico, gestione sul lungo periodo delle scorie nucleari ecc.) saranno lasciati in eredità alle generazioni future. L’apparente maggior competitività delle fonti non rinnovabili deriva anche dai vantaggi fiscali di cui beneficiano o hanno beneficiato per decenni. Qualche esempio: negli ultimi trent’anni, in base ai programmi di ricerca dell’Unione europea, il 60% delle risorse stanziate è stato destinato al nucleare e meno del 15% alle rinnovabili. L’utilizzo del gas naturale in diversi paesi (Spagna, Portogallo, Grecia ecc.) è stato reso possibile da ingenti sovvenzioni alle infrastrutture. Paesi come la Spagna e la Germania hanno erogato negli ultimi decenni aiuti considerevoli per il carbone, aiuti che oggi molti tra i nuovi membri dell’Europa centrale e orientale continuano a stanziare. Il nucleare si è sviluppato in Francia a partire da un massiccio coinvolgimento dello Stato. È importante osservare che la valorizzazione delle fonti rinnovabili rientra anche nella Politica europea di coesione economica e sociale, in cui questo tipo di energie vengono valorizzate a livello regionale e locale. Sebbene gli investimenti spesso provengano da imprese esterne alle regioni interessate, la valorizzazione di tali risorse è in ogni caso una fonte di introiti per i comuni (royalties, tasse diverse, entrate commerciali) e crea posti di lavoro. Già nel 1990, numerosi osservatori mettevano in rilievo che, senza specifiche misure a sostegno delle fonti rinnovabili, il contributo di queste al soddisfacimento del fabbisogno di energia primaria non soltanto non sarebbe cresciuto come previsto, ma sarebbe addirittura potuto diminuire, com’è effettivamente accaduto (passando, nell’Europa a 12, dal 6% nel 1985 al 5,2% nel 1995). Questa deludente evoluzione è stata il risultato di una mancanza di volontà politica e del permanere del deficit di competitività rispetto alle filiere tradizionali. Quest’ultimo può attribuirsi, per il periodo considerato, all’effetto congiunto del calo reale del prezzo del petrolio, del miglioramento della produttività delle imprese del settore energetico (il cui merito si può attribuire all’apertura del mercato) e, per il settore elettrico, dell’emergere del ciclo combinato associato a una sovraccapacità globale di produzione. Così, nonostante il calo dei costi e i progressi tecnologici talvolta spettacolari, le e. r. non hanno potuto colmare il proprio (apparente) deficit di competitività rispetto alle non rinnovabili, totalmente esentate dall’internalizzazione dei costi ambientali e in alcuni casi ancora ampiamente sovvenzionate. La divergenza tra obiettivi dichiarati e risultati è stata in primo luogo il riflesso della mancanza di una reale volontà politica di favorire lo sviluppo delle rinnovabili (la stessa osservazione vale per l’efficienza energetica) nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea. Implicitamente, questi paesi hanno scelto di privilegiare il solo obiettivo della competitività. Eppure, alcuni casi specifici, come la Germania o la Danimarca, già mostravano che, quando un paese si impegnava, i risultati ottenuti potevano essere significativi. È stato a partire dalla firma del Protocollo di Kyoto che la Commissione Europea e i paesi membri hanno iniziato a prendere coscienza del fatto che, in mancanza di un significativo contributo delle rinnovabili (nonché di un’effettiva crescita dell’efficienza energetica), gli impegni presi dall’Unione per la riduzione delle emissioni di gas serra si sarebbero dovuti rimettere in discussione. Così, dopo lunghe discussioni, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato, nel 1997, un Libro bianco sulle fonti energetiche rinnovabili, nel quale l’Unione si proponeva di raddoppiare, tra il 1997 e il 2010, la quota di rinnovabili nel consumo di energia primaria, fissando alcuni obiettivi per ciascuna filiera. Se tradotti in riduzioni di emissioni, tali obiettivi rappresentavano più della metà degli impegni presi a Kyoto. Concludendo che solo una politica volontaristica avrebbe permesso lo sviluppo annunciato, il Libro bianco proponeva un insieme di misure e di azioni per raggiungere gli obiettivi fissati. Così, con riguardo alla produzione di elettricità, la Commissione prendeva atto del deficit di competitività esistente e si impegnava a proporre una direttiva che garantisse, nell’ambito di un’apertura del mercato dell’elettricità, l’auspicata partecipazione alla produzione da parte di fonti energetiche rinnovabili, sotto forma di quote. Tra le principali disposizioni della direttiva, approvata nel settembre 2001, vi era la fissazione di un obiettivo per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili, che avrebbe dovuto rappresentare nel 2010 circa il 23% del consumo totale di elettricità nell’Unione; era altresì indicato un obiettivo di massima per ciascun paese, cui era affidato il compito di mettere in atto le misure appropriate per raggiungerlo.

Si deve tuttavia notare che né gli obiettivi del Libro bianco, né gli stessi della Direttiva elettricità rinnovabile erano accompagnati da impegni aventi forza di legge, dal momento che i governi di quattordici su quindici paesi membri vi si erano opposti. È innegabile che il Libro bianco, la direttiva e altre iniziative prese in seguito dalla Commissione e dai paesi membri abbiano permesso, nell’ultimo decennio, di invertire la pesante tendenza alla stagnazione delle fonti rinnovabili registrata negli anni Ottanta e Novanta. Tuttavia, è giocoforza constatare che la maggior parte degli obiettivi fissati non sarà raggiunta nel 2010, sia che si consideri il livello globale, sia quello dei singoli paesi, la produzione di elettricità di origine rinnovabile o quella di alcune filiere rinnovabili. E dunque: per i quindici paesi membri nel 1997, la quota delle rinnovabili nel consumo di energia primaria è passata dal 5,2% nel 1995 al 7,4% nel 2006, lasciando poca speranza di raggiungere il 12% previsto per il 2010. La produzione di elettricità da fonti rinnovabili potrebbe invece raggiungere il 17%, lungi dall’atteso 23%. Se paesi come la Germania, il Portogallo, la Spagna, la Danimarca raggiungeranno nel 2010 i propri obiettivi, altri, come la Francia, l’Italia e la maggior parte dei nuovi membri non lo faranno. Infine, se eolico e fotovoltaico apportano un contributo significativo, altre filiere, come la maggior parte di quelle delle biomasse, del solare termico o della geotermia, sono ancora ben lungi dal farlo. Diverse sono le cause di tali evoluzioni, ma è possibile affermare che il mancato raggiungimento della maggior parte degli obiettivi è in primo luogo conseguenza della mancanza di volontà politica da parte di alcuni paesi membri, che non hanno messo in atto i necessari meccanismi, e dell’assenza di una base giuridica che consenta alla Commissione europea di sanzionare gli Stati inadempienti. Una dimostrazione clamorosa del peso della volontà politica è il notevole sviluppo delle filiere solari (termica e fotovoltaica) in Germania, nonostante la collocazione geografica meno favorevole di paesi come Italia o Portogallo, dove invece questo potenziale è stato a lungo trascurato: nel 2005 in Germania la potenza fotovoltaica installata era di 1540 MW, contro i 37 dell’Italia e i 4 del Portogallo. Quest’assenza di volontà politica si fondava anche sulla previsione di un basso prezzo dell’energia; vale la pena ricordare che nel 2002 lo scenario di riferimento della Commissione europea prevedeva un prezzo del petrolio inferiore ai 30 dollari al barile fino al 2030, e che, a quel prezzo, l’interesse a promuovere lo sviluppo delle fonti rinnovabili restava per molti scarso. L’Unione europea nel corso degli ultimi cinque anni ha dovuto fare i conti con il brusco aumento dei prezzi dei combustibili fossili e in particolare del petrolio (anche se bisogna ricordare che solo a partire da 104 dollari al barile si ritrovano i prezzi del 1981), con la conferma delle potenziali incertezze sulla sicurezza degli approvvigionamenti (per esempio del gas proveniente dalla Russia), con previsioni sempre più allarmiste sulla realtà e le conseguenze del riscaldamento globale, mentre si sa già che gli impegni presi a Kyoto in materia di riduzioni di emissioni non saranno mantenuti. Tutti questi eventi hanno obbligato i dirigenti europei a rivedere le proprie posizioni e il Consiglio europeo ha adottato nel marzo 2007 l’obiettivo noto con lo slogan «tre 20 per il 2020», che consiste nel ridurre, entro il 2020, del 20% l’intensità energetica (il consumo di energia diviso per il PIL), del 20% le emissioni di gas serra, prendendo come riferimento il 2005, e nell’aumentare al 20% il contributo delle energie rinnovabili nel consumo di energia finale. Questi obiettivi sono fissati dall’Unione europea nel suo insieme, e ciascun paese si vede ulteriormente assegnare, per ogni obiettivo, la propria quota da raggiungere. Lo slogan «tre 20 per il 2020» ha in parte più a vedere con il marketing che con un rigoroso approccio numerico (se l’anno finale fosse stato il 2025, avremmo senza dubbio avuto «tre 25 per il 2025») ma si tratta di obiettivi molto ambiziosi e tra loro complementari: infatti, se non si raggiunge il 20% della quota di rinnovabili e il 20% di riduzione dell’intensità energetica, non si avrà una diminuzione del 20% delle emissioni di gas serra. La decisione del Consiglio stabilisce che gli obiettivi assegnati a ciascun paese, per le energie rinnovabili e le riduzioni delle emissioni, dovranno tradursi in impegni vincolanti, quindi sanzionabili.

Per quanto concerne le energie rinnovabili, tenuto conto della base prescelta, che ne rappresenta il contributo attuale nel consumo finale di energia, ciò significa passare dall’8,9% al 20% nel 2020. La strada scelta per la concretizzazione dell’obiettivo è l’elaborazione, da parte della Commissione, di una direttiva che copra l’insieme delle filiere, in cui dovrebbe essere specificata la ripartizione del carico per paesi e definito un quadro di attuazione. La Commissione dovrebbe presentarne una bozza all’inizio del 2008; la proposta, secondo le procedure abituali, dovrà essere approvata a maggioranza qualificata dal Consiglio e poi dal Parlamento. L’intenzione della Commissione di unificare le misure di sostegno alle fonti rinnovabili si scontrerà con la posizione di alcuni paesi e di larga parte dell’industria delle energie rinnovabili che, forti del principio di sussidiarietà, intendono lasciare ai singoli Stati la scelta dei propri meccanismi di aiuto. Si ritroveranno le posizioni generalmente molto fredde dei ministri competenti per l’energia, la cui cultura in materia di rinnovabili è molto spesso sommaria, rispecchiando quella della propria amministrazione; ministri che avranno la tendenza, anche in un contesto di obbligatorietà, a opporsi a qualsiasi esplicitazione delle sanzioni. Si osserveranno le posizioni di un Parlamento europeo che in passato ha sempre proclamato di tenere allo sviluppo delle rinnovabili, ma che si è sempre rassegnato al mancato rispetto degli obiettivi. Si potrà seguire con attenzione l’atteggiamento delle grandi imprese del settore energetico, che tra il 1975 e il 1995 hanno fatto tutto il possibile per frenare lo sviluppo delle rinnovabili, e che da allora, in ordine sparso, tentano progressivamente (alcune con reale successo) di assumere la leadership del settore delle rinnovabili. Si guarderà con curiosità alle ONG, che nel nome dell’ambiente globale difendono genericamente le rinnovabili a Bruxelles e nel nome dell’ambiente locale spesso ne combattono i progetti sul campo.

A partire dal momento in cui, in nome dell’ambiente e della sicurezza degli approvvigionamenti, è stata presa la decisione politica di fissare una quota di mercato riservata alle rinnovabili, si pone il problema di conciliare gli obiettivi di competitività e l’obbligo di sviluppare l’impiego di queste fonti. Il problema dei sovraccosti è stato sistematicamente utilizzato in passato per rivedere gli impegni presi o per giustificare il mancato raggiungimento degli obiettivi. Come si è detto, una parte significativa dei sovraccosti delle rinnovabili, rispetto alle filiere fossili o nucleari, sono più apparenti che reali, perché direttamente legati alla mancata messa in conto dei costi ambientali di quelle filiere e dei consistenti aiuti che alcune di esse hanno ricevuto in passato e, in alcuni casi, continuano a ricevere oggi. Mettere sul mercato un’elettricità di origine termica, fossile o nucleare meno cara per il consumatore è possibile perché il contribuente o i sistemi sanitari ne hanno pagato, pagano o pagheranno una parte dei costi. È legittimo pensare che, in un contesto di elevati prezzi dei combustibili fossili, una crescente internalizzazione dei costi ambientali possa progressivamente ridurre in maniera significativa i sovraccosti delle rinnovabili, in conseguenza dell’aumento dei costi delle filiere tradizionali. I guadagni di produttività che ci si possono aspettare per le rinnovabili, per l’effetto congiunto dei progressi tecnologici e delle economie di scala, dovrebbero fare il resto. Per garantire che entro il 2020 l’Unione Europea assicuri una componente significativa e crescente del proprio approvvigionamento energetico alle fonti rinnovabili, è necessario creare nei prossimi anni le condizioni di uno sviluppo stabile del loro mercato. La fissazione di quote vincolanti per ciascun paese va esattamente in questo senso. Rimane la questione ancora irrisolta di come realizzare l’inserimento di queste fonti in un mercato come quello energetico, che si suppone aperto e concorrenziale. Infatti, per tutte le ragioni qui esposte, fintanto che vi saranno sovraccosti, apparenti o reali, dovranno essere mantenute o istituite misure di sostegno alle rinnovabili, e i costi ad esse associati dovranno essere sostenuti dagli attori che operano sul mercato, dai consumatori o dai contribuenti. Per rispettare i principi di base del mercato, bisogna innanzitutto che i costi associati ai sistemi di sostegno siano ripartiti equamente tra i differenti attori del mercato stesso. Questa isonomia tra gli attori, nella logica della legislazione comunitaria, dev’essere controllata dai poteri pubblici e dalle autorità di regolazione, il cui compito non è di pronunciarsi sulla pertinenza di una volontà politica, ma di verificare che il mercato non soffra di distorsioni risultanti dalla messa in atto di tale volontà. L’Unione europea nell’adottare nel 2007 l’obiettivo vincolante del 20% di rinnovabili entro il 2020 ha espresso una volontà politica che, se reale, dovrà tradursi nei prossimi mesi nell’adozione di strumenti di attuazione. Il contenuto della direttiva annunciata per l’inizio del 2008, le posizioni del Consiglio (e dunque dei paesi membri) e del Parlamento europeo, saranno i primi indicatori della fermezza di questa volontà. Un indicatore chiave saranno le sanzioni associate al mancato rispetto degli impegni. Se questo aspetto sarà omesso o eluso, vorrà dire che la volontà politica era soltanto di facciata. Il successo della volontà politica espressa nell’obiettivo del 20% di rinnovabili dipenderà anche fortemente dall’esistenza di misure di sostegno che non mettano in discussione la coerenza dei mercati energetici. Questo successo sarà evidentemente legato all’efficacia di tali misure, la cui scelta dev’essere lasciata ai paesi membri, con la condizione che si conformino alle regole comunitarie in vigore e diano prova di efficacia. Esistono disparità tali tra i diversi mercati dell’energia in Europa, e culture così diverse riguardo ai sistemi di sostegno, che l’imposizione di un unico sistema sarebbe destinato, per il momento, a fallire. La Commissione deve resistere alla tentazione di imporre un modello unico di mercato ad un mercato, come quello delle rinnovabili, che è ancora in divenire. Per ogni Stato, mettere in piedi e attuare un sistema di sostegno efficace, che permetta di raggiungere gli obiettivi contenendo i sovraccosti, significa in primo luogo creare le condizioni per lo sviluppo durevole di un’economia delle energie rinnovabili. Il successo di tale volontà politica dipende anche dalla società nel suo insieme e dalla sua capacità di ordinare le proprie priorità. La mobilitazione degli egoismi locali ha rappresentato infatti uno dei freni allo sviluppo delle rinnovabili. Infine, se l’Unione Europea raggiungerà i propri obiettivi, il mercato interno delle rinnovabili verrà a costituire una massa critica sufficiente affinché l’industria europea si imponga sul mercato mondiale, come è già avvenuto nel caso dell’industria eolica.

CATEGORIE
TAG

Riscaldamento globale

Protocollo di kyoto

Commissione europea

Parlamento europeo

Consiglio europeo