FLAIANO, Ennio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 48 (1997)

FLAIANO, Ennio

Alessandra Cimmino

Nacque a Pescara il 5 marzo 1910 da Cetteo, commerciante, e da Francesca Di Michele.

Ultimo di sette fratelli, l'infanzia del F. non fu felice: il padre era legato ad un'altra donna, con cui poi andò a vivere, e la madre, in una situazione familiare sempre più compromessa, mandò il piccolo F., di appena cinque anni, prima a Camerino presso un'altra famiglia, quindi, dalla prima elementare, in vari collegi: a Senigallia, di nuovo a Camerino, a Fermo, a Chieti, nell'anno scolastico 1920-21a Brescia, finché, nel 1922, su un treno pieno di camicie nere data la concomitanza con la marcia su Roma, il F. raggiunse la capitale, amata-odiata residenza di tutta la vita, luogo centrale della sua biografia personale e letteraria. Qui entrò al Collegio nazionale per diventare geometra, come voleva il padre.

Bocciato agli esami di licenza nel 1927, l'anno dopo riuscì a ottenere il diploma del liceo artistico, iscrivendosi quindi alla facoltà di architettura, che frequentò svogliatamente per un paio d'anni e infine abbandonò senza conseguire la laurea.

Fin quasi dall'infanzia si era, Comunque, manifestato nel F. l'interesse per la letteratura e in generale per il mondo dell'arte. I suoi primi ricordi in proposito sono legati all'antologia Fior da fiore di G. Lipparini e a due letture, fatte intorno ai dodici anni: Il corvo di E.A. Poe (di cui curò una traduzione nel 1935) e La signora Bovary di G. Flaubert, significative queste ultime perché presentano caratteri particolarmente congeniali alla sensibilità del futuro autore: l'invenzione fantastica, il senso del grottesco, il fondo disperato del primo, l'approccio alla realtà razionale, lucido, accuratissimo del secondo.

Concretamente, dopo l'uscita dal collegio, il F. mosse i primi passi nel mondo del teatro figurando, negli anni 1928-29, come aiuto scenografò per il Teatro degli indipendenti di A..G. Bragaglia; si legò di stretta amicizia con O. Tamburi e prese a frequentare l'Osteria del Gambero, il caffè Greco e l'Aragno con i fratelli Mario e Nicola Ciarletta, il pittore C. Santangelo, il futuro regista M. Pagliero, il giornalista A. Mezio, il poeta V. Cardarelli, il pittore M. Maccari, l'amico di tutta la vita, inaugurando quell'abitudine della conversazione da caffè e della flánerie per le strade e le piazze di Roma così tipica dell'ambiente intellettuale romano fino agli anni Sessanta e così congeniale e praticata proprio dal Flaiano.

L'esordio nel giornalismo fu casuale ma significativo dal momento che la prima collaborazione - un solo articolo di recensione al volume di racconti di P.A. Quarantotti Gambini, I nostri simili, sul settimanale Oggi, sospeso poco dopo - gli venne offerta nel 1931 da Mario Pannunzio. Più nutrita, un paio di anni dopo, la collaborazione a Occidente di A. Ghelardini: fra i titoli recensiti dal F. libri di A. Huxley, dell'americano S. Anderson, del D.H. Lawrence di Figli e amanti, ad indicare l'interesse per letterature poco gradite alla cultura di regime di stretta osservanza; nonché la prima di tante sue garbate ma pungenti stroncature: quella al romanzo d'egordio di Marise Ferro, Disordine. Verso la fine del 1933 apparvero sull'Italia letteraria due brevi pezzi di un trittico, Torpedone, mentre il F. gia meditava la prima stesura dell'Autobiografia del blu di Prussia (in parte pubblicato poi, nel nov. 1938, su Quadrivio), ambedue esempi di un ibrido tra il breve racconto di fantasia, l'elzeviro e la varia moralità, prime prove di un giornalismo, e più ampiamente di una scrittura, in parte germinati dal rondismo, dalle surreali divagazioni alla Savinio o dalla satira di costume di un Longanesi, ma soprattutto originale espressione della razionalizzante fantasia del Flaiano.

Proprio nel 1933, in ottobre, aveva iniziato il servizio militare presso la Scuola allievi ufficiali di Pavia, da dove, allo scadere dell'anno, nell'ottobre '34, passò a Roma presso l'VIII corpo del Genio. Qui riprese la ricerca di collaborazione ai giornali, segno di una vocazione professionale orinai consapevole; riuscì a firmare una rubrica di argomento artistico, "A&B", su Quadrivio, la rivista di Telesio Interlandi, di cui era redattore capo V. Brancati e vicedirettore L. Chiarini. Dopo qualche mese trascorso a Caserta, nell'autunno 1935 fu imbarcato per l'Etiopia con il grado di sottotenente.

Di questa esperienza, fondamentale per il F., ci restano alcune lettere a Tamburi e l'inedito in vita Aethiopia, un quadernetto di appunti, steso tra il novembre del 1935 e il maggio del '36. Di fatto un primo abbozzo di diario, forma letteraria sommamente congeniale al F., e sorta di serbatoio di prima elaborazione della sua produzione più meditata, la quale si realizza come successivo intervento su questa congerie di impressioni, variazioni, brevi e brevissimi resoconti anche autobiografici, nati da un primo sguardo sul reale. È utile stabilire un rapporto tra Aethiopia e la corrispondenza con Tamburi perché se ne deduce il carattere già tutto letterario del primo: per quanto le lettere costituiscono una comunicazione immediata, in cui si avverte il peso e insieme il normale andamento della quotidianità, altrettanto il diario ci appare come frutto di selezione, consapevole ricerca di un tono, talvolta ironico o volutamente distaccato, che ritroveremo nel clima, se non nella forma, del successivo romanzo Tempo di uccidere.

Nel novembre del 1936 il F. rientrò in Italia; un sopravvenuto esaurimento nervoso lo condusse presso la famiglia a Pescara. Nel febbraio 1938 morì la madre; da allora si diradarono, fino ad annullarsi del tutto, i suoi soggiorni nella provincia di origine, dove in questi anni aveva continuato a trascorrere l'estate. Rientrato a Roma, il F. riprese i contatti con vecchi e nuovi amici, la frequentazione di osterie e caffè e, soprattutto, delle redazioni dei giornali, alla ricerca di uno spazio di lavoro e della possibilità di seguire la sua vocazione di letterato e di autore. Furono anni letargici e insieme affannosi, in cui il F. definì la maggior parte dei legami e delle competenze che orientarono il corso della sua futura attività. Riprese la collaborazione a Quadrivio sempre con pezzi di argomento artistico; nel '37, casualmente, in una birreria romana aveva fatto la conoscenza di L. Longanesi e fu portando un articolo sul Valadier alla redazione di Omnibus che incontrò nuovamente Pannunzio. Quando, poco tempo dopo, il settimanale longanesiano venne chiuso, Pannunzio, che con A. Benedetti aveva fondato il nuovo Oggi, chiamò il F. a collaborarvi come critico teatrale e cinematografico; dal 1939 al '41 il F. vi tenne varie rubriche fisse: "Nuovi film", "Teatri romani", "Taccuino teatrale", "Teatri". Si apriva così un altro capitolo dell'attività giornalistica, appunto quella di critico cinematografico e teatrale, che l'accompagnò a fasi alterne fin quasi alla morte (la prima recensione cinematografica comparve sulla rivista Cinema nel genn. 1939, quindi per tutto il periodo anteguerra pubblicò anche su Cine illustrato, Storia di ieri e di oggi, Mediterraneo; dopo il 1943 tornò ad occuparsi di critica teatrale su Risorgimento liberale e di quella cinematografica su vari giornali; fu critico cinematografico de Il Mondo dal 1949 al'54, infine, dal 1963 al '67, riprese regolarmente la critica teatrale su L'Europeo).

In questo ruolo il F. portò, insieme con una competenza specifica e un'approfondita conoscenza dei meccanismi interni dei due linguaggi, sia cinematografico sia teatrale - perfezionate nel corso degli anni dalla pratica diretta tanto del teatro, quale autore, come del cinema, quale sceneggiatore -, la sua vena di moralista interessato alle varie forme d'arte in stretta correlazione con la società che le esprime; e questo approccio concretò nelle forme più proprie alla sua natura intellettuale, e del resto rintracciabili in tutta la produzione, dell'aforisma brillante, della divagazione fantasiosa, umoristica e umorale che prende spunto da un personaggio e dal suo interprete o da un argomento specifico dello spettacolo (ma anche dalla cornice che gli è intorno: il pubblico, l'"oggetto" concreto cinema o teatro).

Al momento, chiusa l'esperienza di Oggi quando il settimanale fu soppresso dal regime nel 1941, il F. continuò a prodigarsi nella ricerca di collaborazioni che gli permettessero di guadagnarsi da vivere; dal 1941 al '43 pubblicò in particolare su Documento, con la rubrica "Cronache", e qui apparve anche, sotto lo pseudonimo di Ennio Di Michele, il racconto Don Oreste ovvero la vocazione eccessiva, basato sulle memorie di un suo zio parroco e incentrato sulla vita di uno strano prete vissuto in un paesino dell'Abruzzo. L'argomento è alla base di un progetto di romanzo, Il Messia, cui il F. pose mano più volte nel corso degli anni senza mai completarlo. Intanto nel 1940 si era sposato con Rosetta Rota, da cui ebbe nel 1942 una figlia Luisa, detta Lelè, afflitta, fin dai primi mesi di vita, da una grave encefalopatia: una disgrazia profondamente patita dal F., che accentuò il fondo malinconico e pessimista del suo carattere dietro l'apparenza socievole e brillante.

La guerra, il delinearsi della sconfitta e le condizioni di vita sempre più difficili contribuirono al diradarsi della produzione giornalistica del F. nei primi anni Quaranta, ma proprio nel medesimo torno di tempo aveva inizio la sua attività nel mondo del cinema come sceneggiatore.

Cominciò, nel 1942, come consulente artistico alla sceneggiatura di un documentario di R. Marcellini su Pio XII, Pastor angelicus; nello stesso anno collaborò a La danza del fuoco di G. Simonelli. Richiamato alle armi, dopo l'8 sett. 1943 si rifugiò per un certo periodo ad Anticoli Corrado, con la famiglia e gli amici pittori V. Capogrossi e T. Scialoja; sempre nel '43 collaborò con A. Lattuada alla sceneggiatura di La freccia nel fianco e con Longanesi a quella di Dieci minuti di vita, un film mai realizzato di cui lo stesso Longanesi doveva essere regista.

Quando Pannunzio, nel giugno del '44, divenne direttore di Risorgimento liberale, lo chiamò con sé, all'inizio come capocronista poi come redattore di varie rubriche di cronaca di costume e di critica teatrale e cinematografica: "Carta bianca", "Album romano", "Spettacoli"; contemporaneamente proseguiva la collaborazione con altre testate. Nell'ottobre 1945 Pannunzio lasciò la direzione per contrasti con il Partito liberale, di cui il giornale era organo, e il F. lo seguì, riprendendo il suo abituale ruolo di freelance. Prese a pubblicare su Il Secolo XX di M. Lupinacci, su cui firmava, spesso con lo pseudonimo di Pickwick in omaggio all'amato omonimo personaggio di Dickens, la rubrica "L'occhiale indiscreto".

Le modalità dell'intensa attività giornalistica di questi anni sono quelle che il F. continuò a praticare anche in futuro: prescindendo dal ruolo di recensore - espletato, comunque, secondo l'estro particolare cui si è già accennato - il suo contributo consisteva essenzialmente di brevi racconti, invenzioni satiriche, aforismi e notazioni di costume, tratte dalla costante osservazione della realtà italiana, e fondamento di quell'ininterrotto diario, sorta di informale Maximes et proverbes di un moderno moralista che, se sottende tutta la sua variegata produzione ne è anche, in certo modo, il distillato essenziale, libero dagli obblighi di una forma letteraria definita quale quella del romanzo, del racconto lungo o della pièce teatrale.

Vivacissima l'attività del biennio 1946-47. Fu autore del soggetto e collaboratore alla sceneggiatura di Roma città libera, diretto dal suo amico M. Pagliero: una commedia dai risvolti drammatici e insieme favolistici, un piccolo affresco, frammentario nella narrazione e nella varietà dei toni, che deve molto alla sua ironia moraleggiante e per cui ottenne il primo Nastro d'argento per il miglior soggetto (1947-48); fondò un settimanale di critica cinematografica, Cinelandia, che ebbe però vita assai breve; vide rappresentata la sua prima pièce teatrale, La guerra spiegata ai poveri, una satira antimilitarista, messa in scena prima a Roma, il 10 maggio 1946, al teatro Arlecchino, poi al Festival degli autori italiani di Milano. Sul finire del '46 si trasferì a Milano dove il pomeriggio lavorava alla redazione del rinnovato Omnibus, diretto da S. Cappelli, e la mattina, con Lattuada, alla sceneggiatura (mai realizzata) di Fontamara dal romanzo di I. Silone. Qui nuovamente incontrò Longanesi, che aveva da poco fondato la sua casa editrice.

Con l'intraprendenza e la vivacità che lo contraddistinguevano, Longanesi impegnò il F. nella redazione di un romanzo per cui gli dette un anticipo e una scadenza; al marzo 1947 il F. aveva consegnato la stesura definitiva. Pubblicato in maggio, Tempo di uccidere ottenne nel luglio la prima edizione del premio Strega, consacrando l'autore tra gli intellettuali di punta del secondo dopoguerra. Primo ed unico romanzo pubblicato dal F., è legato alle esperienze che l'autore aveva vissuto durante la campagna di Etiopia.

Tuttavia la vicenda del giovane tenente italiano al centro della narrazione - alla ricerca di un medico che gli curi un dente malato, questi si perde nel deserto, dove intrattiene un breve rapporto con una bellissima indigena, Mariam; per un disgraziato incidente la ferisce, quindi, un po' per pietà un po' per egoismo, la uccide e ne occulta il cadavere; teme di aver contratto da lei la lebbra ma, dopo vari accadimenti, può riprendere tranquillamente la via di casa (conservando, tuttavia, al fondo di se stesso l'ombra del dubbio di essere stato effettivamente contagiato) - non ha quasi nulla del romanzo realista o neorealista. Il racconto, in cui manca o è comunque molto attenuata l'abituale ironia del F., comunica piuttosto un senso di estraniamento e di sottile angoscia e può per certi aspetti essere collocato nell'ambito della narrativa esistenzialista, nei modi di un A. Camus, di cui ripropone i temi della fondamentale indifferenza morale dell'uomo di fronte all'assoluta casualità del suo destino, più ancora che di J.-P. Sartre. Per altri aspetti, principalmente per l'invenzione sempre ai limiti dell'assurdo e dell'onirico nel ricostruire l'ambientazione esotica e le vicende del protagonista, il romanzo può essere avvicinato ai modi di T. Landolfi, D. Buzzati e A. Savinio, a riprova dell'esistenza nella nostra letteratura del secondo dopoguerra di una significativa corrente non oggettiva, non ideologicamente impegnata, bensì piuttosto interessata agli aspetti simbolici e surreali del narrare.Dopo questo brillante esordio il F. lasciò trascorrere molto tempo prima di tornare alla dimensione se non del romanzo quantomeno del lungo racconto. Necessità economiche, legate alla malattia della figlia, oltreché quei caratteri di perfezionismo e di autocritica che lo contraddistinsero, determinarono una lunga lontananza dall'attività narrativa vera e propria. Gli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta furono dedicati al giornalismo e soprattutto furono quelli della sua più brillante stagione di sceneggiatore. Nel 1949 Pannunzio lo chiamò al suo fianco come redattore capo al settimanale Il Mondo, che aveva appena fondato, cui collaboravano altri amici del F. come S. De Feo, Maccari e Brancati, come il F. intellettuali di area laica, lontani tanto dalla cultura comunista ortodossa come dai cattolici vicini alla Democrazia cristiana; il F. vi teneva pure regolarmente la rubrica di critica cinematografica. Se ne allontanò nel '51 per dedicarsi a tempo pieno alla sceneggiatura, sospendendo per qualche anno le collaborazioni giornalistiche.

Per il cinema il F. lavorò come soggettista e sceneggiatore - con una partecipazione che andava dalla semplice revisione alla stesura vera e propria del copione - a un gran numero di film (poco meno di sessanta) al fianco di alcuni dei più noti registi dell'epoca, soprattutto italiani ma non solo; fra gli altri A. Lattuada e A. Blasetti (Peccato che sia una canaglia, La fortuna di essere donna, Io, io, io... e gli altri), M. Monicelli (Guardie e ladri - con cui ottenne il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 1952 - Totò e Carolina), M. Soldati, M. Antonioni (La notte), L. Zampa, L. Emmer, M. Pagliero, L.G. Berlanga, R. Clément, W. WyIer. Ma la collaborazione più significativa per il F. resta indubbiamente quella con Federico Fellini; a lui, che conosceva fin dai tardi anni Trenta, lo legavano affinità caratteriali e di gusti. Ambedue provenivano da una provincia cui tanto erano rimasti legati nel ricordo per quanto avevano voluto fuggirne e scrollarsela di dosso; ambedue erano legati a Roma da un rapporto forte e ambivalente, amanti delle chiacchiere da caffè e del lungo girovagare di notte per le strade della città. Dalla prima pellicola girata da Fellini nel 1950 come coregista con Lattuada, Luci del varietà, fino a Giulietta degli spiriti del 1965, il F. fu, insieme con T. Pinelli, fra gli sceneggiatori di tutti i film del regista riminese: dei Vitelloni, nel 1952, ideò il soggetto, e particolarmente condivise la realizzazione di La dolce vita; comunque, tutti indistintamente i film felliniani di questo lungo periodo (Lo sceicco bianco, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, l'episodio Le tentazioni del dottor Antonio in Boccaccio '70, 8 1/2) portano il segno del F., delle sue personali esperienze, della sua conoscenza della realtà romana, del suo ironico moralismo che funge spesso da correttivo a certa tendenza felliniana - condivisa da Pinelli - all'abbandono fantastico e sentimentale.

Nel 1954 il F. riprese la collaborazione al Mondo con la rubrica "Diario notturno" e nel 1956 dette inizio a quella con il Corriere della sera; nel corso degli anni la sua firma apparve anche su L'Illustrazione italiana, Il Corriere d'informazione, L'Espresso, sempre con "annotazioni di fatti, raccontini, caratteri, brevi moralità, insomma quel poco che so fare. Beninteso, nello stesso tono, potrei in un articolo trattare un solo argomento, o note di viaggio, o scrivere un racconto", come egli stesso ebbe a scrivere a M. Missiroli (Soltanto le parole, p. 100). Gli articoli pubblicati in questi anni, insieme con appunti e notazioni inediti che risalgono anche molto indietro nel tempo, con resoconti di viaggi e di soggiorni all'estero (dagli anni '50 il F. viaggiò molto e visse anche per lunghi periodi a Parigi e a New York), accuratamente rielaborati, furono ordinati in miscellanee che il F., dal '56 in poi, in parte pubblicò (Diario notturno, Milano 1956; Le ombre bianche, ibid. 1972, con cui ottenne il premio Estense), in parte raccolse in vista di una pubblicazione e che poi uscirono postume.

Qui, nella forma libera e sciolta che gli era più congeniale, il F. passa in rassegna e stigmatizza l'evoluzione perversa del costume italiano degli anni del boom e dei tardi anni Sessanta; esterna il fastidio per le mode ideologiche e culturali, l'avversione per l'"impegno politico" inteso come intruppamento dell'intellettuale organico di qualsivoglia colore; espone le sue preveggenti intuizioni sulla degradazione culturale e morale dell'individuo nella società di massa; affronta il tema del tedio e dell'indifferenza che insidiano la vita dell'uomo moderno insieme con l'incapacità di vivere sentimenti autentici. E da questo esame critico, circostanziato e impietoso, giocato il più delle volte sul registro dell'umorismo nero e della satira, riemerge in trasparenza lo scrittore "esistenziale e notturno ... conferenza del mondo" (G. Pampaloni, Modelli ed esperienze della prosa contemporanea, in Storia della letteratura italiana [Garzanti], Milano 1987, ad Ind.).

Questa stessa tematica è anche alla base dei quattro lunghi racconti, a coppie di due giocati a specchio, uno satirico l'altro drammatico, che compongono i volumi Una e una notte (Milano 1959; contenente il racconto omonimo e Adriano) e Il gioco e il massacro (ibid. 1970, dove figurano Oh Bombay! e Melampus, con cui vinse il premio Campione e fu tra i finalisti del Campiello).

In tutti questi anni il F. non aveva mai smesso di occuparsi di teatro non solo come critico ma anche come autore; a La guerra spiegata ai poveri seguirono La donna nell'armadio (Torino, teatro Gobetti, 24maggio 1957), Il caso Papaleo (Spoleto, Festival dei due mondi, 9giugno 1960), Un marziano a Roma (Milano, teatro Lirico, novembre 1960), La conversazione continuamente interrotta (Spoleto, Festival dei due mondi, giugno 1972). In questo settore della sua produzione il F. rifugge dal linguaggio dell'avanguardia nei confronti del quale si trovò, in certo modo, cronologicamente sfasato: in ritardo rispetto all'avanguardia classica e in anticipo rispetto allo sperimentalismo dei tardi anni Sessanta; ugualmente non amò mai, neppure come recensore, il teatro d'impegno politico. Si orientò, piuttosto, nell'abituale registro satirico, su di un teatro di conversazione e di situazione, privo di una vera struttura drammatica, e quindi fatalmente caratterizzato da un andamento lento e poco "teatrale". I suoi lavori non ottennero quindi particolare successo sulla scena (si parlò all'epoca di un teatro più da leggere che da rappresentare), soprattutto quel Marziano a Roma, che V. Gassman interpretò al Lirico di Milano e che risultò un vero fiasco. Il F., a quel punto, fece passare più di dieci anni prima di ritentare il palcoscenico con La conversazione continuamente interrotta, rappresentata con buon esito al Festival di Spoleto del 1972, di fronte ad un pubblico più motivato e preparato dei precedenti. Negli ultimi anni collaborò anche con la radio (nel 1966il programma Il meridiano di Roma) e la televisione (sempre nel '66, Carta bianca, condotto da Anna Proclemer, nel 1971 Come ridevano gli Italiani in quattro puntate e il documentario Oceano Canada, che fu trasmesso nel 1973).

Il F. aveva superato un primo infarto nel 1970; colpito da un nuovo attacco si spense a Roma il 20 novembre 1972.

In tutta la sua variegata attività il F. praticò una scrittura molto curata, d'impianto classico, che nulla aveva della sciatteria di certo neorealismo letterario coevo e contemporaneamente lontana da ogni sperimentalismo, preferendo egli esercitare la sua ricca fantasia e l'estro analogico nella sostanza dei contenuti piuttosto che nell'elaborazione formale. Autore dispersivo, almeno ad uno sguardo superficiale, in vita fu più considerato e apprezzato come giornalista e uomo di cinema che come letterato puro; un più approfondito esame di tutta la sua produzione, anche quella inedita al momento della morte, ha reso possibile individuare, dietro l'apparente frammentarietà, la sostanziale omogeneità della sua ispirazione di moralista classico.

Opere: i manoscritti del F. sono conservati per la maggior parte presso il Fondo manoscritti autori contemporanei dell'università di Pavia e, in minor quantità, presso la Biblioteca cantonale di Lugano; l'intera sua produzione, sia il materiale inedito sia quello edito, è stato raccolta nei due volumi di Opere, I, Scritti postumi, Milano 1988; II, 1947-1972, ibid. 1990, pubblicati nella collana dei Classici Bompiani a cura di M. Corti e A. Longoni. I due volumi sono accompagnati da una completa e accuratissima bibliografia degli scritti del F. (nel 1 vol.), nonché da note ai testi che presentano fonti e varianti delle stesure, definitive o assunte come tali per le opere inedite; ad essi quindi si rimanda per tutto quanto non citato nella voce. Non sono inclusi gli articoli di recensioni cinematografiche e teatrali né le sceneggiature; pertanto si veda, per il teatro: Lo spettatore addormentato, Milano 1996; per il cinema: Lettere d'amore al cinema, ibid. 1978; Un film alla settimana, Roma 1988; Nuove lettere d'amore al cinema, Milano 1990; Ombre fatte a macchina, ibid. 1997; per le sceneggiature: Storie inedite per film mai fatti, ibid. 1984; Progetto Proust. Una sceneggiatura per "La recherche du tempo perdu", ibid. 1989. Infine per l'epistolario, tralasciando singoli gruppi di lettere ad un solo corrispondente, si veda Soltanto le parole. Lettere di e a E. F. (1933-1972), ibid. 1995.

Fonti e Bibl.: In E. Flaiano, Opere, I, cit., è contenuta (pp. 1380-1405) un'esaustiva bibl. degli scritti sul F. suddivisi per anni dal 1946 al 1987 cui si rimanda, mentre, per gli anni a seguire, si veda in L. Sergiacomo, Invito alla lettura di F., Milano 1996, in partic. alle pp. 240-246.

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