FILIPPINI, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FILIPPINI, Enrico

Federico Pietranera

Nacque a Cevio, capoluogo della Valle Maggia in Canton Ticino (Svizzera), il 21 maggio 1932. Suo padre, Federico, era capo degli ispettori scolastici; sua madre, Giuliana Franzoni, discendeva dal ceppo francese degli abitanti valligiani. Ai tempi del ginnasio da Cevio il F. si spostò a Locarno, che frequentò come interno; terminò quindi la scuola magistrale. A vent'anni andò a insegnare per qualche tempo come maestro alle elementari: aveva già una moglie, Ruth Schmidhauser, e una figlia, Concita. Lo attraevano, all'epoca, la pittura, il teatro e il cinema (di cui ebbe modo di occuparsi a Zurigo e a Berlino). Dal suocero, una singolare figura di letterato che abitava presso Locamo, imparò la lingua tedesca e fece le sue letture "folgoranti": in particolare i mistici tedeschi, J. W. Goethe, F. Schelling, F. W. Nietzsche e la poesia di R. M. Rilke. Attratto però "dall'irrequietezza della Repubblica Italiana", optò per trasferirsi a Milano. Si noti che il F. non cambiò mai cittadinanza.

A Milano il F. sentì che i suoi interessi si polarizzavano così: "da un lato lo spettacolo, dall'altro lato interessi teorici generali, dunque la filosofia". Si iscrisse a questo corso di laurea, dove lo attirava anche un docente di grande prestigio quale A. Banfi, laureandosi poi nel 1960, con una tesi intitolata "Führen e Wachsenlassen nella pedagogia tedesca contemporanea, 1890-1930". Contemporaneamente, conosciuto G. Strehler, passava i pomeriggi in teatro, assistendo a tutte le sue prove. Fu in questo periodo che il F., studente senza mezzi di sussistenza alle spalle, ebbe anche i primi contatti con la casa editrice Feltrinelli: gli venivano affidati lavori di lettura con stesura di rapporti, o traduzione dal tedesco, fintanto che gli fu offerto un posto di redattore.

L'impegno del F. alla Feltrinelli si protrarrà fino al 1968. Sono questi anni di estrema vitalità e fertilità editoriale. L'attenzione del F. - che tuttavia non si considerò mai un germanista in senso tecnico - si rivolse inizialmente soprattutto al mondo di lingua tedesca: divenne amico di una serie di scrittori, che tradusse e importò, da U. Johnson a G. Grass e H. M. Enzensberger, da M. Frisch a F. Dürrenmatt. In un secondo momento gli interessi del F. si spostarono sulla letteratura di lingua spagnola, fino alla scoperta e pubblicazione di G. Garcia Márquez, futuro premio Nobel.

Sul versante della filosofia il F. studiò sotto la guida di E. Paci, che si era accostato alla fenomenologia (e del quale stilò poi un bellissimo Ricordo, in Nuovi Argomenti, 1986, fasc. 19) impegnandosi nella spinosa traduzione di E. Husserl: prima la Krisis (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1961); poi il secondo e terzo libro delle Ideen (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino 1965), di cui curò un'edizione completa e aggiornata, rivedendo anche il primo libro. Rifiutò la proposta di Paci, che lo avrebbe senz'altro agevolato ai fini della carriera universitaria: la didattica non lo affascinava per nulla, né il suo temperamento era tale da rendergli consoni il ruolo dello studioso impegnato in un solo campo di ricerca e una via ortodossa di percorrerlo. Quando, con una borsa di studio svizzera, il F. si recò a Parigi, il soggiorno (tra il 1961 e l'inizio del 1963) non gli servì tanto a specializzarsi quanto a immergersi in un mondo culturale in fermento, da cui trarre nuovi stimoli. A Parigi lavorava con P. Ricoeur, ma prediligeva il grande continuatore di E. Husserl, M. Merleau-Ponty; e intanto seguiva i seminari di J. Lacan e, mentre venivano pubblicati i primi libri di C. Lévi-Strauss, seppe tendere l'orecchio al nascente strutturalismo.

Anche nelle lettere italiane qualcosa si stava muovendo. Sensibile al bisogno di nuovo che c'era nell'aria (nel 1961 Einaudi aveva pubblicato l'antologia poetica dei Novissimi), E. Vittorini cercò di coagularlo in un numero di Menabò, la rivista einaudiana che dirigeva insieme con I. Calvino. Fu il numero 5, del 1962: in esso il F. pubblicò un racconto, Settembre, che venne presentato da U. Eco, anch'egli partecipe dei nuovi umori filosofici, estetici e letterari. Dopo tale apertura del Menabò, nacque il Gruppo 63, che diverrà per alcuni anni il riferimento rappresentativo e di coesione della neoavanguardia. L'idea di fondare un gruppo di letteratura sperimentale fu lanciata dallo stesso F., reduce da una riunione a Berlino del tedesco Gruppo 47; l'intento era semplicemente quello di fare un seminario letterario, in cui gli autori di ispirazione neoavanguardista avrebbero letto e commentato i propri testi, anche se, di fatto, la polemica con l'establishment letterario si gonfiò.

Per quanto riguarda la produzione letteraria del F. nell'ambito della neoavanguardia, dopo Settembre egli pubblicò un altro racconto, intitolato In negativo, questa volta su Marcatré (mensile di cultura contemporanea edito da Lerici), nel numero triplo 8-10 del 1964. Questo testo narrativo era seguito da un breve saggio di poetica: Nella coartazione letteraria. Ancora sulla rivista Menabò (1965, n. 8) apparve del F. l'atto unico Giuoco con la scimmia. Frammento di farsa psicologica, mentre su Grammatica/Teatro (1967, n. 2) fu pubblicato Flettere flettere amore, "traccia di uno scherzo per cabaret". Inediti sono rimasti invece altri tre frammenti, ora custoditi, come tutte le carte del F., presso la Biblioteca cantonale di Locarno.

Nel saggio Nella coartazione letteraria, tra le altre cose il F. spiegava la sua opzione per lo sperimentalismo: "Io non posso optare che per ... accettare e aderire e impadronirmi dell'inautenticità dell'unico linguaggio che ho a disposizione, tentare di esasperarla fino a trarla in luce. Soltanto a questo punto, e attraverso una sorta di ripercorrimento genetico, potrò aspettarmi di veder riaffiorare la materialità rimossa e insieme delinearsi un "orizzonte di emersione", un vettore di verità". Come si vede, il F. che aveva rinunciato agli studi teoretici come carriera rimaneva tuttavia profondamente "filosofico" nella sua produzione letteraria; nel senso di dare alla propria scrittura, all'espressione, un compito di ricerca della verità: della verità delle cose di là dall'usura del linguaggio chiamato a nominarle. Come aveva suggerito Eco (nella "Notizia su E. F." di presentazione a Settembre) l'intento del F. era "ritornare a un significato che stia al di sotto delle incrostazioni ideologiche che ce lo nascondono e lo riducono a filosofema feticizzato". Questo, dal lato dell'intenzione letteraria. Da quello del desiderio espressivo, il F. si collocava coscientemente in una posizione di ricerca di "ingenuità": per lui "la scrittura era il momento della sincerità globale" ma "per scrivere occorre una sana ottusità, una decisione di autocastrazione. Certamente F. non si sentiva di essere ottuso e gli ripugnava castrarsi". Ancora alla fine dei suoi giorni, in un articolo su La Repubblica (Il dito in bocca, 31 dic. 1987), dichiarerà: "Sulle parole imprecise e malfatte rifletto da quando sono nato, soprattutto su quelle che pronuncio". Così, benché pubblicando i suoi racconti, nel 1962 e nel 1964, il F. promettesse che dalla sua penna sarebbero usciti in breve due romanzi, le sue prove letterarie rimasero saltuari episodi, e il promettente scrittore scelse per lungo tempo il silenzio.

Col volgere al termine degli anni Sessanta si stava del resto chiudendo anche l'esperienza del Gruppo 63, con esiti diversi per quanto riguardava le scelte professionali dei suoi componenti. Fu il Sessantotto a far percepire al F. che tutta una fase della lotta culturale in Italia era finita. In dissidio con la scelta politica di G. G. Feltrinelli, lasciò la casa editrice; passò dapprima al Saggiatore, quindi alla Bompiani. Era ormai cambiato tutto, però, nella realtà sociale e nel mondo della produzione culturale: sono quelli che il F. definirà "i tetrissimi anni '70 dove l'editoria si burocratizza". Bisognava tentare nuove strade, e una di quelle che apparvero all'orizzonte del F. riportava verso un percorso precedentemente tralasciato, e per di più implicava il ritorno nella natía Svizzera.

Nel 1970 il Politecnico federale di Zurigo bandi un concorso per assegnare la cattedra di letteratura e lingua italiana. Su sessantatré candidati, il F. entrò a far parte della cinquina finale, ottenendo, tra le altre prove, un ampio consenso dei futuri allievi con la conferenza su "Carlo Emilio Gadda: linguaggio e filosofia". Quando la decisione della commissione esaminatrice sembrava essergli favorevole il F. venne però accusato di "attività rivoluzionaria" dal consigliere agli Stati, F. Bolla: l'appartenenza del F. alla casa editrice Feltrinelli doveva considerarsi una dimostrazione e un aggravio di tale accusa. Il concorso fu perduto, e il F. si sentì, rispetto alla patria, un cacciato.

L'opportunità di cambiare professione giunse per il F. piuttosto inaspettatamente qualche anno più tardi, nel 1976. Fu Quando E. Scalfari, accingendosi a fondare il quotidiano La Repubblica, lo chiamò per la pagina culturale. Al giornale (che seguì nel suo trasferimento da Milano a Roma) il F. rimase fino alla fine della sua vita, scrivendo nel corso di dodici anni oltre cinquecento articoli. E davvero si può considerare questo corpus l'opera del Filippini. Nei suoi articoli, infatti, trovava soddisfazione quel doppio binario di interessi che gli era caratteristico. Come ebbe a scrivere di lui A. Giuliani, "incerto tra letteratura e filosofia, Filippini ha sempre percorso spazi limitrofi". E lo stesso F. considerava il percorso fatto da giornalista, che pure lo portava a scrivere di argomenti molto disparati, una continuazione naturale del suo discorso precedente. Tastare il polso di un'epoca, questo l'intento, è l'esito, della produzione pubblicistica del F., che fece largo uso dell'intervista.

Gli anni di vita a Roma riportarono il F., soprattutto attraverso la RAI-Radiotelevisione italiana, sulla strada della regia e della sceneggiatura: interesse di gioventù che finora non aveva trovato sviluppo. È interessante notare come anzi, verso la fine della sua vita, ormai affermato giornalista culturale, fosse sempre più fortemente attratto da lavori creativi nel campo cinematografico e televisivo. Riteneva addirittura questo modo espressivo più consono, più naturale per lui, sostenendo che il cinema, l'immagine, la televisione erano quello che sapeva fare bene e più spontaneamente. Per la RAI tradusse e adattò lo sceneggiato che R. W. Fassbinder aveva tratto dal romanzo di A. Döblin, Berlin Alexanderplatz;realizzò programmi su Weimar, su S. Weil, su G. Orwell, e una serie di film inchiesta sui vincitori della seconda guerra mondiale, I. V. Stalin, W. L. S. Churchill, F. D. Roosevelt e Ch. De Gaulle. L'ultimo suo lavoro in questo ambito gli fu commissionato dalla FIAT: un montaggio di materiali cinematografici sull'opera di J. Tinguely, realizzato in occasione della grande mostra dell'artista svizzero al palazzo Grassi di Venezia. Non riuscì invece al F. di portare a termine un progetto cui teneva molto, e al quale aveva dedicato tempo ed energie: un film sulla vita di G. G. Byron (e P. B. Shelley), di cui ha lasciato una dettagliata sceneggiatura.

Ammalatosi di cancro, il F. morì a Roma il 21 luglio 1988. Le sue ceneri sono conservate nel cimitero acattolico.

Tre anni dopo la sua scomparsa fu pubblicato, con il titolo Lultimo viaggio, un racconto che aveva scritto alla fine del 1987, quando era già gravemente minato nel fisico ma ancora ignaro della sua malattia (Milano 1991; assieme a questo racconto, che dà il nome al volume, furono ripubblicati in esso Settembre, In negativo e l'atto unico Giuoco conla scimmia). La narrazione procede, per la prima volta nel F., in prima persona, e racconta di un breve viaggio in compagnia di una donna nei luoghi ticinesi dell'infanzia e adolescenza. La lingua è volutamente spoglia, ma la forte emozione del racconto è data dalla messa a nudo del proprio cuore, che il F. opera in un atto estremo di coraggio e verità. Oltre le parole stesse, viene da dire; con quella volontà etica di raggiungere una dimensione originaria, che ha accompagnato il F. per tutta la sua erratica esistenza.

Oltre a quelle già citate, numerose le traduzioni del F., in parte da lui raccolte e conservate nel fondo a lui dedicato della Biblioteca cantonale di Locarno. Vanno comunque ricordate quelle, pubblicate a Torino dall'editore Einaudi, di W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1966) e Ildramma barocco tedesco (1971); e quella, splendida, fatta per una messa in scena della tragedia Pentesilea di H. von Kleist, poi pubblicata (1989).

Fonti e Bibl.: Tutte le carte del F. insieme con i libri che aveva nella casa di Roma sono stati donati dagli eredi alla Biblioteca cantonale di Locarno, dove è stato costituito un apposito fondo. Indicazioni biografiche di argomento specifico e tre brevi frammenti inediti dell'autore in G. Volonterio, Il delitto di essere qui. Enrico Filippini e la Svizzera, Milano 1996, pp. 115-139. Per quanto riguarda gli inediti e la corrispondenza del F. si deve fare riferimento al catalogo redatto dai bibliotecari. Una scelta, inevitabilmente esigua, degli articoli scritti sulla Repubblica è stata pubblicata da Einaudi sotto il titolo La verità del gatto (Torino 1990), con introduzione di U. Eco. Numerosi gli articoli sul F. che apparvero sulla stampa italiana e svizzera in occasione della sua morte: tra tutti, ricordiamo quelli di M. Frisch (E. F., mio amico ticinese, in Corriere del Ticino, 22 luglio 1988) e di M. Cacciari (Uno straniero tra le vanità, in l'Unità, 22 luglio 1988). Si segnalano inoltre gli articoli di F. Colombo (Filippini, l'estro dello scugnizzo nellagiungla della cultura, in Tuttolibri, inserto letterario della Stampa, 27 genn. 1990) e di P. Mauri (Occasioni per unlibro mai scritto, in Mercurio, inserto letterario della Repubblica, 27 genn. 1990) entrambi come recensione a La verità del gatto; e quello di A. Giuliani (In viaggio verso la fine, nella Repubblica, 23 febbr. 1991) in occasione dell'uscita dell'Ultimoviaggio.

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