PESSINA, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PESSINA, Enrico

Marco Nicola Miletti

PESSINA, Enrico. – Nato a Napoli il 7 ottobre 1828 da Raffaele (morto nel 1832) e da Carolina Pità, fu avviato agli studi umanistici dallo zio paterno Giuseppe e da Francesco Trinchera. Quattordicenne ascoltava le lezioni di filosofia di Pasquale Galluppi. Frequentò (1842-44) i corsi privati di Pasquale Stanislao Mancini (diritto penale) e Matteo de Augustinis (economia politica); quindi (1845-46) quelli di Roberto Savarese (diritto romano e civile). Da questo fertile ambiente assorbì l’eclettismo ‘napoletano’, declinato vichianamente come sintesi di filosofia e storia e influenzato da Victor Cousin e da Galluppi: referenti che legittimano la più tarda rivendicazione di estraneità all’hegelismo (cfr. G. Gentile, Documenti inediti sull’hegelismo napoletano, in La Critica, IV (1906), 5, p. 400; la replica di Pessina ibid., 6, pp. 494-496). Enfant prodige conclamato, traduceva nel 1843 l’Essai sur le panthéisme dans les sociétés modernes di Henri-Louis-Charles Maret; l’anno dopo pubblicava il Quadro storico dei sistemi filosofici; un Discorso sulla Repubblica di Platone; scritti su Mamiani e Galluppi.

Nel 1846 vinse «il concorso per laurea gratuita in giurisprudenza». Assunto il 10 maggio 1848 come ufficiale al ministero degli Interni, fu destituito il 15 settembre 1849 e posto «in attenzione di destino» dalla «reazione borbonica». Sin dal 1847, invero, cospirava con Ruggiero Bonghi e Carlo Poerio (Notizie autobiografiche, 1917, pp. 89, 91). Il suo atto più eversivo di quella convulsa stagione fu la pubblicazione del Manuale del diritto pubblico costituzionale (Napoli 1849, 1900), apparso nello stesso «terribile giorno» (18 marzo 1849) in cui fu sciolto il Parlamento napoletano (Roux, 1910, p. 85): il volume prospettava una «monarchia costituzionale» in equilibrio tra libertà ed eguaglianza.

Il 23 febbraio 1850, a un mese dalla ‘licenza’, Pessina si laureò in diritto all’Università di Napoli (Carte Pessina, b. C.8/3-4). Insegnante privato di filosofia e di filosofia del diritto dal 1849 al 1853, da neo-avvocato difese senza fortuna (1851-52) Trinchera, Saverio Barbarisi e Stefano Mollica per i tumulti del 15 maggio 1848. Egli stesso fu incarcerato senza processo dall’ottobre 1852 al febbraio del 1853 e poi confinato a Ottaviano sino al marzo 1855. In quel periodo tradusse il Traité de droit pénal di Pellegrino Rossi, premettendovi il discorso Della giurisprudenza penale (Napoli 1853, Torino 1859, Napoli 1884).

Nell’autunno del 1855 sposò Giulia Settembrini, figlia di Luigi. Si sostentò impartendo lezioni private di diritto penale e scrivendo recensioni. Nel 1859 fondò la rivista Nemesi, che sarebbe tornato a dirigere nel 1863 con Pietro Sellitto. Nel marzo del 1860 pagò con un nuovo arresto di due giorni e l’esilio a Marsiglia i contatti con la diplomazia sarda. Fermatosi a Livorno, su segnalazione di Giuseppe Pisanelli fu chiamato dal dittatore Luigi Carlo Farini (decreto 2 febbraio 1860, Carte Pessina, b. C.13/168) a insegnare all’Università di Bologna dapprima diritto criminale, poi diritto costituzionale: la Prolusione del 18 aprile 1860 a quest’ultimo corso additava nel diritto il «principio assoluto» e metafisico che avrebbe riscattato le future generazioni.

Rientrato a Napoli alla vigilia del plebiscito come sostituto procuratore generale presso la Gran corte criminale (17 ottobre 1860), fu nominato (25 gennaio 1861) direttore del dicastero di Grazia e Giustizia per le province napoletane. Si candidò con successo alla Camera nel collegio di Altamura (7 aprile 1861), ma «per eccedenza di magistrati» approdò in Parlamento solo dopo le suppletive di S. Germano (VIII legisl., 1862); il 13 gennaio 1862 depose definitivamente la toga. Tracciando una tipica traiettoria notabilare, fu rieletto, sempre per lo schieramento di centro-sinistra, nei collegi di Napoli (X legisl., 1867) e Sala Consilina (XIII legisl., 1876). Senatore dal 18 marzo 1879, dopo una breve esperienza da ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel I governo Cairoli (11 novembre - 19 dicembre 1878), fu guardasigilli dal 24 novembre 1884 al 19 giugno 1885 nel VI ministero Depretis: venne estromesso dal successivo esecutivo a causa dei dissensi con il presidente del Consiglio nella gestione giudiziaria delle agitazioni contadine nel Mantovano. Fu in seguito vicepresidente del Senato (1887-97; 1898-1900).

Incarnazione del giurista liberale «uno e trino» (docente, avvocato, parlamentare: A. Mazzacane, Secolo dell’università – secolo delle professioni [], in Università e professioni giuridiche in Europa nell’età liberale, a cura di A. Mazzacane - C. Vano, Napoli 1994, p. 9), Pessina fu soprattutto un professore. Dopo aver concorso senza successo alle cattedre napoletane di diritto naturale e delle genti (1856) e di diritto penale (1857), fu menzionato nella relazione della commissione provvisoria della Pubblica istruzione (25 ottobre 1860) che nel gettare le basi della rifondazione dell’Ateneo fridericiano puntava sul rientro degli ingegni meridionali. Con decreto del 3 novembre 1861 il ministro De Sanctis lo nominò ordinario di diritto e procedura penale dell’Università di Napoli, preferendolo a Luigi Zuppetta. Dalla cattedra partenopea Pessina avrebbe impartito il suo magistero per oltre mezzo secolo. Nel Discorso inaugurale del 5 dicembre 1861 (Napoli, Biblioteca Nazionale, Misc. D.283.1, Miscell. Univ., pp. 7-28) annunciò l’avvento del «regno della giustizia» fondato non più su «un qualche comando arbitrario» di Dio o sulla «obbedienza passiva» a leggi transeunti, bensì sull’«eterna ragione» e sul «Diritto uno ed universale» e auspicò una «legislazion penale» radicata «nella coscienza morale e giuridica del popolo italiano». Il 17 aprile 1862 fu cooptato nell’Accademia napoletana di scienze morali e politiche, alla quale riservò perspicue relazioni. Fu socio corrispondente (1888) e ordinario (1899) dell’Accademia dei Lincei.

La sua poderosa produzione penalistica si caratterizza per il potente e a tratti soverchiante impianto storico-filosofico. La Propedeutica al diritto penale delle Due Sicilie (Napoli 1858), che gli valse la notorietà in Italia, si presentava come un’introduzione ‘enciclopedica’ e storica a una scienza penale concepita quale sistema organico e destinata a culminare nel «ritorno spontaneo a Dio, come trionfo del bene sul male». L’ambizioso affresco si completò con i trattati di penalità generale e speciale (Napoli 1858-59). Dopo l’Unità, Pessina snellì l’apparato storico-filosofico dell’opera e si concentrò sull’esposizione del diritto vigente: nacquero così i fortunati Elementi di diritto penale (Napoli 1865-69, poi 1870-71; 1872; 1880; 1882-85 in 3 volumi; trad. spagn. in Revista de legislación, 1892), sintetizzati e adeguati al codice Zanardelli nel Manuale del diritto penale italiano (Napoli 1893-95; 1899; 1906).

Il penale, per Pessina, primeggiava tra i saperi giuridici non solo per le implicazioni etico-filosofiche, ma anche per l’intrinseca religiosità, intesa come intima coscienza del dovere. Nel dibattito sul fondamento del diritto di punire egli si dissociò da Pellegrino Rossi (disposto a sacrificare l’inderogabilità della sanzione all’opportunità politica) e da Terenzio Mamiani (per il quale giustizia morale e penale coincidevano) e propugnò la teoria della retribuzione giuridica, asserendo che la pena, in quanto riaffermazione del diritto, «attua il regno di Dio» (Elementi, cit., I, 1882, p. 37). Abolizionista coerente, in polemica con Augusto Vera contrastò la tesi dell’appartenenza allo Stato del bene-vita (Della pena di morte…, in Rivista contemporanea, XI (1863), vol. 33, pp. 295-328).

Pessina è solitamente ascritto alla scuola ‘classica’ del diritto penale, della quale condivideva appieno i postulati liberal-garantistici. Il mai rinnegato eclettismo lo spingeva, tuttavia, a guardare con interesse al positivismo non solo filosofico, ma anche penalistico, salvo prendere le distanze da certi esiti radicali della scuola positiva e respingerne la pretesa di ‘arruolarlo’. Per altro verso, la sua visione integralmente ‘giuridica’ del penale, antidoto alle derive socioantropologiche, fu salutata come un presagio dell’indirizzo tecnico-giuridico (A. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, in Rivista di diritto e procedura penale, I (1910), 1, p. 512, nota 29).

Dotato di acume storiografico (la monografia Il diritto penale in Italia da Cesare Beccaria sino alla promulgazione del codice penale vigente (1764-1890), in Enciclopedia del diritto penale italiano, II, Milano 1906, pp. 539-768, condensava decenni di ricerche), Pessina era convinto che anche nei secoli del ‘servaggio’ l’Italia avesse saputo elaborare un «comune pensiero» penalistico in grado di resistere al dispotismo. L’ottica risorgimentale gli consentiva di rileggere l’esperienza giuridica del Mezzogiorno preunitario senza campanilismi (La scuola storica napoletana nella scienza del diritto, Napoli 1882). Egli del resto credette fermamente – a costo di contraddire Francesco Carrara – nell’unificazione penale, sin da quando, relatore della commissione Mancini (febbraio 1861), si prodigò per adattare il codice sardo alle province napoletane. Sempre partecipe dei lavori preparatori del nuovo codice, il 16 novembre 1888, nel relazionare in aula per conto della commissione senatoria sul progetto Zanardelli, proclamò che l’imminente codificazione avrebbe eliminato l’«ultimo archèo delle nostre secolari divisioni» (Discorso, in Lavori parlamentari del nuovo codice penale italiano, Torino 1889, pp. 237-260); fu tra i revisori finali del testo e curò uno dei primi codici annotati (Milano 1890).

Fautore, anche da ministro, dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, negli scritti della maturità propose di sostituire il giurì con lo scabinato germanico, basato sull’integrazione delle funzioni dei giudici togati e popolari. Sul tema Pessina relazionò in qualità di vicepresidente della commissione per la riforma del codice di rito istituita nel 1898. Il suo apporto scientifico alla procedura penale rimase, però, marginale.

Sensibile alla comparazione (promosse traduzioni di testi e codici stranieri), fondatore di riviste (Il Filangieri, 1876, con Federico Persico; Cassazione unica, 1889, con Camillo de Benedetti), Pessina mise a frutto il credo enciclopedista subentrando, nell’autunno del 1881, al dimissionario Mancini nella direzione dell’Enciclopedia giuridica italiana, apparsa in dispense e, dal 1884, in volumi.

Con questo imponente sforzo editoriale egli confidava non solo di contribuire all’unificazione del diritto del giovane Regno, ma anche di assecondare i nascenti specialismi disciplinari. L’altra impresa collettanea associata al suo nome, e alla quale premise un nitido Programma (1901), è l’Enciclopedia del diritto penale italiano, comprensiva di una parte sostanziale (in fascc. dal 1901; in 14 volumi, Milano 1904-13) e di una processuale (in fascc. dal 1913; in 6 volumi, Milano 1920).

Fiero della gloriosa eredità del foro meridionale, dal 1895 alla morte presiedette il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli. Difese, tra gli altri, il ministro Giovanni Nicotera (1877) nella causa di diffamazione intentata contro la Gazzetta d’Italia; Bernardo Tanlongo (1894), implicato nello scandalo della Banca Romana e assolto; Francesco Crispi (1897), coinvolto nell’affaire bancario; l’ex ministro Nunzio Nasi, imputato di peculato.

Il 24 dicembre 1914, su proposta del presidente del Consiglio ed ex allievo Antonio Salandra, fu nominato ministro di Stato. Morì a Napoli il 24 settembre 1916, superstite di una generazione che aveva trasfuso nell’epopea risorgimentale, non senza cedimenti alla retorica, lo spessore filosofico e l’impegno civile di un’antica tradizione giuridica. Giudici contadini. I grandi scioperi agrari…, in I magistrati italiani dall’Unità al fascismo…, a cura di P. Saraceno, Roma 1988, pp. 147-152, 156-158; C. Vano, “Edifizio della scienza nazionale”…, in Enciclopedia e sapere scientifico. Il diritto e le scienze sociali nell’enciclopedia giuridica italiana, a cura di A. Mazzacane - P. Schiera, Bologna 1990, pp. 64-65; M.N. Miletti, Un processo per la Terza Italia. Il Codice di procedura penale del 1913, I, L’attesa, Milano 2003, ad ind.; L. Borsi, Storia nazione costituzione. Palma e i ‘preorlandiani’, Milano 2007, pp. 193-202; P.A. Cavaliere, Il diritto penale politico in Italia dallo Stato liberale allo Stato totalitario. Storia delle ideologie penalistiche tra istituzioni e interpretazioni, Roma 2008, ad ind.; M.N. Miletti, “Piemontizzare le contrade italiane”. L’adeguamento del codice penale sardo alle province meridionali, in Il codice penale per gli Stati del Re di Sardegna e per l’Italia unita (1859), a cura di S. Vinciguerra, Padova 2008, pp. CV-CXXXIII; M. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Milano 2009, ad ind.; F.P. Casavola, Ritratti italiani. Individualità e civiltà nazionale tra XVIII e XXI secolo, a cura di U. Piscopo, Napoli 2010, pp. 107-114; M.N. Miletti, L’ultima pietra. Il contributo di E.P. alla formazione del codice Zanardelli, in Diritto penale XXI secolo, IX (2010), 2, pp. 393-411; I Ministri della Giustizia nel primo trentennio del Regno d’Italia da Cassinis a Zanardelli. Repertorio bio-bibliografico, a cura di C. Ivaldi, Manziana 2010, pp. 301-336; D. Luongo, E.P. (1828-1916), in Avvocati che fecero l’Italia, a cura di S. Borsacchi - G.S. Pene Vidari, Bologna 2012, pp. 673-682; M.N. Miletti, P. E., in Dizionario biografico dei giuristi italiani, diretto da I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 1554-1558.

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