TAZZOLI, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TAZZOLI, Enrico

Costanza Bertolotti
Maurizio Bertolotti

– Nacque a Canneto sull’Oglio, in provincia di Mantova (allora dipartimento del Mincio), il 19 aprile 1812 da Pietro e da Isabella Arrivabene.

La madre apparteneva a un ramo della nobile famiglia Arrivabene, il padre a un’agiata famiglia borghese. A Canneto sull’Oglio, dove Pietro esercitò la professione forense e svolse la funzione di giudice di pace, nacquero Silvio (1809), Luigi (1811) ed Enrico. A Goito, dove i Tazzoli si trasferirono nel 1812 e dove acquistarono una vasta casa di abitazione e una tenuta di circa 50 ettari, nacquero, tra il 1813 e il 1821, Teresa, Giacomo, Giacomo Teodoro, Eloisa e Sordello.

L’istruzione dei primi quattro corsi ginnasiali fu a Enrico impartita privatamente, tra il 1821 e il 1824, da ecclesiastici assunti dal padre. Il giorno di Pasqua (3 aprile) del 1825 vestì l’abito clericale, quindi frequentò le ultime due classi ginnasiali e le due classi di filosofia, rivelando – come racconta nell’Autobiografia degli anni giovanili (in Don Enrico Tazzoli e il cattolicesimo sociale lombardo, II, a cura di C. Cipolla - R. Benedusi - A. Fabbri, 2012, pp. 459 s.) – una speciale disposizione per le scienze esatte.

Tra il 1829 e il 1833 compì nel seminario di Mantova gli studi di teologia; due anni dopo, il 18 aprile 1835, fu ordinato sacerdote; l’anno seguente fu chiamato a insegnare, come supplente, filosofia e storia universale nel seminario di Mantova.

Al 1841 datano le prime osservazioni di Tazzoli alla Storia universale di Cesare Cantù (le lettere tra i due sono comprese nell’epistolario edito, ibid., pp. 31-404).

La libertà di giudizio e la tolleranza degli altrui punti di vista delle quali Tazzoli dava prova in queste note (ibid., pp. 681-868) discendevano dalla sua opinione del perfetto accordo del principio cristiano con la ragione. Di qui seguivano parimenti una spiccata diffidenza verso gli aspetti meno ragionevoli del cristianesimo, quali i «tanti miracoli inutili» (p. 719) attribuiti ai santi e la disapprovazione di quelle opere della Chiesa che avevano visto prevalere la potenza sulla carità: si pensi alla condanna dell’Inquisizione e alle riserve nei confronti dei gesuiti. La sua visione della costituzione della Chiesa rifletteva convinzioni democratiche, sulle cui basi Tazzoli giungeva a giustificare la ribellione all’oppressione politica.

Dall’opzione razionalistica discendeva la preferenza accordata da Tazzoli all’eclettismo, che aveva allora in Italia il suo principale esponente in Baldassare Poli: un sistema «pel quale si fondono insieme i buoni insegnamenti di tutte le Scuole filosofiche» (p. 511), come scrisse nelle note stese in difesa dell’opera del suo collega Giuseppe Pezzarossa, Saggi di filosofia cristiana sulle traccie de SS. Padri e Dottori della Chiesa (Mantova 1845), che, oggetto dapprima delle critiche del canonico don Giuseppe Barosi, fu quindi sottoposta all’esame della Santa Congregazione dell’Indice.

Erano orientamenti condivisi da altri docenti del seminario, primi tra i quali Luigi Martini, Giuseppe Muti, Tullo Grandi, Giovan Battista Avignone. Tutti propendevano ad attribuire un particolare rilievo agli insegnamenti d’ordine morale del Vangelo, nei quali più evidente risaltava la corrispondenza delle verità rivelate con i dettami dell’umana ragione e nei quali essi proponevano di riconoscere la vera matrice delle idee di progresso, che caratterizzavano i tempi nuovi; alle iniziative sociali in cui nella prima metà del secolo queste idee presero corpo aderirono con appassionato fervore. Dal 1842 Tazzoli fu segretario degli asili d’infanzia che cinque anni prima erano stati istituiti a Mantova sull’onda dell’innovatrice azione di Ferrante Aporti. Il suo impegno nel campo sociale si esplicò inoltre nelle proposte che presentò ai congressi degli scienziati italiani tenutisi tra il 1839 e il 1847. Nel 1843 a Lucca propose l’istituzione di scuole di agraria nei seminari grazie ai cui insegnamenti i futuri parroci sarebbero stati in grado di concorrere alla formazione tecnica dei contadini in vista della modernizzazione dell’agricoltura (ibid., pp. 463-466). L’anno seguente a Milano espose il progetto di un Libro del popolo, ovvero di un giornale che, principiando con gli insegnamenti religiosi, valesse a diffondere il sapere tra il popolo e a strappare operai e contadini agli ozi infingardi delle bettole e alle storie bugiarde delle stalle invernali per convertirli ai valori della dedizione al lavoro, della competenza e della previdenza (pp. 501-507). Il tema fu da Tazzoli ripreso nell’orazione del 1846 Per le solenni esequie ai defunti benefattori delle Pie case di Ricovero e d’Industria di Mantova (pp. 520-531), nella quale, in polemica con Monaldo Leopardi, sostenne che la vera carità non consisteva nelle elemosine elargite agli accattoni, per lo più falsi poveri, ma nel sostegno alle istituzioni che, sottraendo gli indigenti al vizio, li istruivano e li avviavano al lavoro.

Se è vero che nel pensiero di Tazzoli è riconoscibile l’eredità della cultura illuministica lombarda e insieme la perdurante influenza di un filone giansenistico (Landucci, 1980, p. 136), l’audace coniugazione che egli propose tra il principio evangelico della carità e il criterio capitalistico della produttività documenta come il suo razionalismo rispecchiasse l’abito mentale che accomunava all’epoca gli esponenti più dinamici dell’emergente borghesia delle campagne mantovane.

Incaricato della cura dei beni dello zio Gaetano Arrivabene, Tazzoli ebbe per molti anni a misurarsi quotidianamente con i problemi tecnici, economici e finanziari dell’amministrazione di vaste aziende (lo testimonia l’epistolario). Stabilì e intrattenne rapporti molto stretti con numerosi esponenti di questo ceto, soprattutto in virtù della sua intensa attività di predicazione. Secondo un indirizzo inaugurato dalle missioni cattoliche seicentesche, Tazzoli si rivolse infatti prevalentemente al mondo delle campagne, predicando anche nei centri più piccoli della provincia (i suoi sermoni sono pubblicati in Don Enrico Tazzoli e il cattolicesimo sociale lombardo, cit., pp. 405-442, 663-675). Nel solco della tradizione fu ugualmente la sua preferenza per argomenti morali, ma con una particolare insistenza sui valori dell’operosità e della carità. La sintassi complessa e il lessico ricercato lasciano pensare che i principali destinatari delle sue prediche non fossero i contadini analfabeti bensì appunto i borghesi delle campagne.

Il miglioramento delle condizioni materiali e morali delle classi inferiori non comportava tuttavia, secondo Tazzoli, come documentano gli scritti sopra citati, una trasformazione dell’assetto della società, essendo in definitiva le differenze di classe espressione del disegno provvidenziale. I confini della sua visione dell’uguaglianza sono evidenti anche nella sua concezione dei rapporti tra ebrei e non ebrei. In un’importante relazione inviata a Cantù nel 1846 (ibid., pp. 513-520) a proposito dei tumulti antisemiti scoppiati a Mantova quattro anni prima, mentre giudicava positivamente l’integrazione tra le due componenti della popolazione mantovana (gli ebrei ne costituivano all’epoca circa il 10%), plaudiva al rifiuto opposto dall’imperatore alla richiesta degli ebrei mantovani di poter essere eletti nelle congregazioni provinciali e municipali. Ciò perché, spiegava, «pur si sentiva da noi che se gli ebrei avessero ottenuto quanto dimandavano, lo spirito di famiglia che è in quella gente, in vece di accomunarla con noi ne l’avrebbe maggiormente staccata e noi, come nel commercio, così in tutto il resto non avremmo potuta sostenere la sua concorrenza, e saremmo soggiaciuti al peso del loro orgoglio» (pp. 514 s.). Ad antichi stereotipi antigiudaici si sovrapponevano qui i timori propri dell’antisemitismo dell’età dell’emancipazione. Ma anche le opinioni di Tazzoli sugli ebrei dovettero probabilmente mutare con i moti del Quarantotto, se è vero che in uno scritto del 1850 (Memoria sugli avvenimenti mantovani del 1848, ibid., pp. 547-563) si compiacque che dalla rivoluzione in poi non si fossero più ripetute «le malaugurose divisioni di Cristiani da Ebrei» (p. 550).

Nella già citata orazione in memoria dei benefattori delle Case di ricovero, Tazzoli aveva osservato come fosse «una maniera di religione che stringe i viventi ai predecessi e ai venturi quella che impone la conservazione dei patrii monumenti» (pp. 526 s.). L’eternità che la religione della patria prometteva aveva dovuto molto presto assumere nel cuore del prete mantovano un’importanza non minore di quella annunciata da Cristo. In un rapporto della polizia del 1853 si legge che, seppur ostile al governo, nel corso della rivoluzione Tazzoli non risultava esser venuto «a vie di fatto» (Compromessi politici nel Mantovano, 1848-1866, a cura di R. Giusti, Mantova 1966, p. 186). Peraltro la parte avuta nella rivolta da moltissimi parroci e curati, tra i quali sacerdoti a lui vicinissimi, lascia aperta l’ipotesi che egli abbia svolto già nel Quarantotto un ruolo di coordinamento delle azioni rivoluzionarie (M. Bertolotti, Roverbella 1848. La rivoluzione in un paese di campagna, Roverbella 1999, pp. 15-17). Del resto lo scritto sul Quarantotto era incentrato sulla critica al comitato insurrezionale della città che, a causa della esagerata prudenza di una parte dei suoi membri, timorosi delle «esigenze della plebe» (Don Enrico Tazzoli e il cattolicesimo sociale lombardo, cit., p. 557), non aveva compreso che solo una «sollevazione violenta» (p. 558) avrebbe potuto assicurare la liberazione della fortezza.

L’amaro rincrescimento per la cattiva prova che la città aveva dato di sé nel marzo del 1848 fu tra i fattori che verso la fine del 1850 indussero un gruppo di patrioti mantovani a raccogliere gli appelli di Giuseppe Mazzini alla ripresa dell’iniziativa cospirativa. La finalità del comitato, che fu costituito a Mantova il 2 novembre di quell’anno e la cui azione venne poi intrecciandosi con quella di organismi analoghi di altre provincie del Lombardo-Veneto, era di predisporre le condizioni affinché, quando fosse tornato a soffiare il vento della rivoluzione, la vittoria non dovesse ancora una volta sfuggire alle forze nazionali. Tazzoli aderì all’iniziativa e nella riunione istitutiva fu chiamato con Attilio Mori e Carlo Marchi a formare il centro direttivo.

Di lì a un anno la polizia rinvenne le tracce di uno smercio di cartelle del prestito nazionale mazziniano e scoprì la trama. Le indagini portarono a Tazzoli, che fu arrestato il 27 gennaio. A trattenerlo dal fuggire, ciò che altri congiurati prestamente fecero, fu forse, come in occasione di un precedente arresto, la volontà di dare ai suoi concittadini «un esempio di coraggio civile» (lettera a Ippolito Cavriani del 5 dicembre 1848, ibid., pp. 159 s.). Probabilmente non valutò esattamente i pericoli divenuti ben più gravi e dovette sfuggirgli in particolare che da quanto gli era noto, essendo uno dei capi, poteva dipendere la sorte di molti. Né si preoccupò di far sparire la documentazione compromettente che comprendeva il registro cifrato della contabilità da cui risultavano i nomi di numerosi affiliati. La decifrazione di questo documento effettuata dagli esperti di Vienna permise al giudice Alfred Kraus, che conduceva il processo, di ordinare tra il 16 e il 17 giugno l’arresto di diciotto imputati.

Nei primi interrogatori Tazzoli negò ogni addebito. Solo a seguito della decifrazione del registro e degli arresti che ne seguirono si risolse il 26 giugno a rendere un’ampia e circostanziata confessione. Fece i nomi di alcuni partecipanti alla riunione fondativa oltre a quelli già denunciati da Luigi Castellazzo e da altri; parlò dell’orientamento repubblicano della maggior parte degli affiliati; disse della ramificazione dell’organizzazione, indicando per ogni circolo, distretto e parrocchia i nomi dei rispettivi referenti. Nell’esordio motivò la confessione con il desiderio che le sue informazioni concorressero a dare al governo un’idea dell’inconsistenza dell’iniziativa cospirativa, ma al tempo stesso delle ragioni profonde del malcontento che l’aveva originata, nonché permettessero di alleggerire le imputazioni a carico di molti processati; peraltro in una lettera a Giovanni Acerbi del 24 novembre 1852 spiegò che di fronte al registro decifrato non si era sentito di negare l’evidenza. Nel successivo costituto del 24 luglio decifrò le abbreviazioni e gli pseudonimi del registro dietro l’assicurazione – così nella lettera ad Acerbi – che le persone da lui indicate non sarebbero state molestate. Il 22 agosto il confronto con Tazzoli indusse Carlo Poma a confessare quanto aveva fino ad allora negato. Nel costituto del 22 ottobre Tazzoli dichiarò recisamente di non essere stato informato del progettato assassinio del commissario di polizia Filippo Rossi di cui aveva parlato Castellazzo.

La prima sentenza, pubblicata il 4 dicembre 1852, riconobbe nove imputati colpevoli d’alto tradimento e li condannò alla pena di morte per impiccagione, ma il governatore Radetzky confermò la pena solo per Tazzoli, Poma, Angelo Scarsellini, Bernardo Canal e Giovanni Zambelli. Frattanto, il 24 novembre, il vescovo Giovanni Corti, su richiesta di Radetzky e della Curia pontificia, aveva sottoposto Tazzoli alla cerimonia di degradazione allo stato laicale: una misura di cui questi contestò espressamente la legittimità.

Sono delle sue ultime settimane di vita alcuni importanti scritti. Al governatore della fortezza generale Karl Culoz presentò due memorie (Don Enrico Tazzoli e il cattolicesimo sociale lombardo, cit., pp. 616-621, 624-640): nella prima, mentre ribadiva il suo ideale di una religione fondata su verità persuadenti e impegnata a contribuire attraverso le opere al progresso degli uomini, si diceva persuaso che la scelta di impegnarsi in prima persona nella lotta non fosse stata la più conveniente al ministero sacerdotale. Infine, in alcune lettere indirizzate alla zia Maria Teresa Giacomelli Arrivabene (pp. 642-650), che nel periodo della detenzione fu la persona a lui più vicina, senza rinnegare le ragioni che avevano indotto lui e i suoi compagni a congiurare, espresse un giudizio critico sulla cospirazione, alla quale sostenne che si sarebbe dovuta preferire in futuro, in vista di una lotta alla luce del sole contro l’oppressore, l’opera di educazione morale e politica dei giovani.

Secondo la testimonianza di Luigi Martini (Il confortatorio di Mantova negli anni 1851-’52-’53-’55 (1867), Mantova 1952, pp. 238 s.), negli ultimi giorni Tazzoli continuò a dirsi convinto che moriva da sacerdote cattolico. Le condanne furono eseguite il 7 dicembre 1852 nella valletta di Belfiore.

Le autorità vietarono la sepoltura in terra consacrata e le salme furono inumate sul luogo dell’esecuzione, dove rimasero fino al 1866, quando Mantova fu unita all’Italia; ma già prima di questa data il ‘martirio’ di Belfiore era divenuto uno dei riferimenti fondamentali della memoria del Risorgimento e dell’educazione nazionale. Uno speciale rilievo era destinata ad assumere in questo quadro la figura di Tazzoli, in ragione sia del valore della sua esperienza sia del significato polemico che il suo sacrificio non poteva non assumere nel contesto dell’aspro conflitto tra Stato e Chiesa che caratterizzò la storia dell’Italia liberale.

Opere. Scritti di Tazzoli sono pubblicati in T. Urangia Tazzoli, Don Enrico Tazzoli e i suoi tempi, Bergamo 1952; Scritti e memorie, 1842-1852, introduzione di F. Della Peruta, Milano 1997. L’edizione più completa è costituita dal volume Don Enrico Tazzoli e il cattolicesimo sociale lombardo, II, Documenti, a cura di C. Cipolla - R. Benedusi - A. Fabbri, Milano 2012, dove si trovano ragguagli sulle precedenti edizioni di ogni testo.

Fonti e Bibl.: I verbali dei suoi costituti si possono leggere in Archivio di Stato di Mantova, Auditorato di Guarnigione di Mantova, Processo dei Martiri di Belfiore. Utili alla ricostruzione biografica, oltre al libro di Urangia Tazzoli, sono i saggi di C. Bonora Previdi, C. Mezzadrelli, M. Cenzato in Don E. T. e il cattolicesimo sociale lombardo, I, Studi, a cura di C. Cipolla - S. Siliberti, Milano 2012. Per il pensiero resta fondamentale il saggio di F. Traniello, Don T. e la Storia universale del Cantù (contributo allo studio della cultura del clero liberale nell’800), in Rivista di storia della Chiesa in Italia, XVIII (1964), 1, pp. 254-289. Ugualmente importante la citata Introduzione di Della Peruta. Per la cultura dei sacerdoti del seminario di Mantova: S. Landucci, Mons. Luigi Martini e Roberto Ardigò, in Mons. Luigi Martini e il suo tempo (1803-1877), a cura di L. Bosio - G. Manzoli, Mantova 1980, pp. 117-233.

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