ERCOLE

Enciclopedia Italiana (1932)

ERCOLE (‛Ηρακλῆς, Hercŭles)

Paolino MINGAZZINI
Nicola Turchi
*

Il più popolare degli eroi greci, oggetto d'un grandissimo numero di miti. Zeus, invaghitosi di Alcmena moglie di Anfitrione, ne inganna l'onestà presentandosi sotto le spoglie del marito assente. Era, moglie di Zeus, concepisce un odio mortale contro il nascituro e quando Zeus solennemente afferma che un suo discendente regnerà su Argo e su tutti i discendenti di Perseo, fa anticipare, come dea dei parti, la nascita di Euristeo, discendente di Zeus per il tramite di Perseo, e ritarda quella di E., che così è condannato a servire al gracile e pusillanime parente (Alcmena discende da Perseo anch'essa). Di ciò non sazia, Era invia contro il neonato due enormi serpenti; ma il prodigioso infante li strozza ambedue, ciascuno con una mano. Senz'alcuna ragione esteriore, E. diventa pazzo ed uccide i tre bambini avuti da Megara. Recatosi a Delfi per purificarsi, riceve l'ordine di servire ad Euristeo. Qui si potrebbe forse inserire l'episodio della lotta fra E. ed Apollo per il tripode, la quale ebbe popolarità grandissima in età arcaica (come ci attestano i vasi) e minima invece più tardi. Poiché i vasi ci dànno soltanto il momento culminante della lotta (fig. 2), non sappiamo come essa sia andata a finire; probabilmente Apollo avrà dato il suo oracolo, in cambio della restituzione del prezioso tripode.

Comincia così il ciclo delle dodici fatiche di E. Come prima fatica tutti gli antichi mitografi pongono l'uccisione del leone di Nemea (fig. 1). La seconda fatica è l'uccisione dell'idra di Lerna (località sul golfo di Argo), mostro munito d'un numero di teste variabile da tre a nove, divergenza spiegata dalla particolarità di rinascere, appena recise, in numero doppio. Nella lotta, un gigantesco granchio viene a mordere al tallone l'eroe, che è costretto a chiamare in aiuto il suo fido scudiere Iolao, il quale provvede a cauterizzare, mediante tizzoni accesi, i colli del mostro man mano ch'essi vengono recisi ed in tal modo toglie loro la facoltà di autorigenerarsi. Le frecce intinte da E. nel sangue dell'idra divengono micidiali per chiunque. Terza fatica è la cattura della cerva cerinitica, che E. raggiunge dopo una caccia (o una corsa durata un anno intero), attraverso tutta l'Arcadia o, secondo Pindaro, addirittura dal Peloponneso al paese degli Iperborei e viceversa. Apollo o Artemide o tutti e due intervengono per cercar di ritogliere all'eroe l'animale a loro sacro. Più tardi, per abbellire l'episodio, le zampe della cerva divennero di bronzo, le corna d'oro e la cerva mutò sesso. Quarta fatica è la cattura del cinghiale d'Erimanto, che E. deve presentare vivo ad Euristeo, il quale, preso da spavento, si rifugia in un pithos, specie di botte fittile e seminterrata, nella quale si usava conservare il vino, l'olio, il grano o altre derrate. A questa fatica si suole aggiungere un πάρεργον, ossia un episodio secondario. Stanco del suo lungo errare, E. viene ospitato dal centauro Pholos che in suo onore apre una botte di vino scelto. Richiamati dall'odore del vino, accorrono altri centauri che reclamano la loro parte, sicché E. è costretto a difendere sé e l'ospite dall'invadenza delle fiere e ad ammazzarne parecchie; anche Pholos per un fatale equivoco vi perde la vita. Quinta fatica è l'uccisione a colpi di frecce degli uccelli carnivori della palude di Stinfalo. Sesta fatica è la pulizia delle stalle di Augia, re degli Epei in Elide, compiuta in un sol giorno, facendovi penetrare il corso d'un fiume (l'Alfeo o il Peneo) e facendolo riuscire con tutto lo sterco attraverso una breccia praticata nel muro. Settima fatica è la cattura del toro di Creta, che Posidone aveva reso furioso per punire Minosse di non averglielo sacrificato. Ottava fatica: E. doma le cavalle carnivore di Diomede, re dei Bistoni, della più selvaggia delle popolazioni tracie e dà loro in pasto il crudele re, dopo averlo ucciso in battaglia. Durante il viaggio per la Tracia, E., ospite di Admeto, re di Fere in Tessaglia, ne riconduce al mondo la sposa diletta, Alcesti. Nona fatica: la conquista della cintura d'Ippolita, regina delle Amazzoni. Alla spedizione prendono parte, oltre E., numerosi altri eroi; E. uccide di sua mano la regina. Decima fatica: la cattura della mandria di Gerione, mostro tricorporeo che la custodisce in Erythia, isola dell'estremo occidente, localizzata infine sulle foci del Guadalquivir (fig. 6). Naturalmente il lungo viaggio di andata e di ritorno offrì un pretesto per inserire E. in una quantità di aneddoti locali e ricollegarlo a numerose genealogie. Undecima fatica: i pomi delle Esperidi, il cui giardino mirabile è situato anch'esso in Occidente ("Esperidi" infatti significa "le Occidentali") e localizzato dapprima nella Cirenaica, più tardi nel Marocco. Quest'ultima versione naturalmente finì col prevalere, sicché le Esperidi divennero le figlie di Atlante, eponimo del monte la cui vetta parve ai primi esploratori sì alta, da reggere il cielo. L'albero dai pomi aurei è custodito da un serpente; ma le fanciulle, su cui fa colpo il bell'eroe, invece di contrastargli il passo, addormentano la bestia con un filtro o ne distraggono l'attenzione e così anche questa prova riesce. Secondo un'altra versione, probabilmente più antica, E. avrebbe ucciso il drago a colpi di mazza. Secondo un'altra versione ancora, E. per permettere ad Atlante di andar lui a cogliere i pomi, avrebbe dovuto reggere il peso del firmamento sulle spalle (cfr. atlante, V, tav. LVII). Come con la fatica precedente, così con questa fu intrecciato più di un mito minore. Anzitutto, quello della lotta col "vecchio del mare", metà uomo e metà pesce, sostituito talora da Nereo, di forma completamente umana, cui E. obbliga a rivelare l'ubicazione precisa del giardino delle Esperidi. Poi ha luogo la lotta con Anteo, figlio della Terra, cui la madre dà forza continuamente, in modo che E. per finirlo deve avere l'avvertenza d'impedirgli di prendere in alcun modo contatto col suolo. Sia che avesse capito male o che avesse sbagliato strada, E. invece di volgersi ad Occidente capita in Egitto, dove il re Busiride uccide tutti gli stranieri che arrivano su quelle spiagge, per immolarli sull'altare di Zeus. E. si fa legare come un agnello paziente: quando è venuto il momento di essere sgozzato, con uno strattone si libera dai lacci e uccide tutti i circostanti, Busiride per primo (fig. 7). Finalmente E. arriva nel Caucaso, dove libera Prometeo, uccidendo l'aquila che gli rodeva il fegato. Prometeo per riconoscenza gl'insegna la vera via per arrivare dalle Esperidi; dopo di che, tornato indietro, E. ci arriva davvero. Tornato a casa consegna i pomi a Euristeo, che glieli rende perché li consegni ad Atena. Secondo una versione tramandataci da alcuni vasi, E. invece restituisce i pomi direttamente a Zeus seduto sul suo trono in Olimpo, modo evidente per alludere all'immortalità raggiunta dall'eroe, ragione per cui questo mito è da taluni collocato all'ultimo posto, in luogo del seguente. Dodicesima fatica: la cattura di Cerbero, il cane a tre teste che custodisce il regno dei morti. Naturalmente durante un viaggio di questo genere E. non poteva tralasciare di rendersi utile in qualche modo anche laggiù. Libera perciò il suo amico Teseo, condannato a stare eternamente seduto su una roccia, ma invece non riesce a staccare Piritoo. Inoltre promette a Meleagro di sposarne la sorella Deianira. Prima di sposare Deianira, E. per un anno rimane presso la regina Onfale, dimentico di tutto fuorché dell'amore. È superfluo dire che ai due amanti si riattaccò la genealogia dei re di Sardi. Per giustificare quest'amore si fece di Ercole un innamorato addirittura folle, capace persino di travestirsi da donna e prestare i suoi attributi alla sua donna. A questo episodio si suole intercalare quello dei Cercopi. Anche alla lotta degli dei dell'Olimpo contro i Giganti avrebbe preso parte E., ancora da uomo: anzi un oracolo avrebbe addirittura dichiarato la presenza di un uomo indispensabile alla vittoria. Talora come episodio inserito nella Gigantomachia, ma più spesso ancora come episodio indipendente, viene qui collocata l'uccisione del gigante Alcioneo, che, per quanto si desume dai vasi, E. sorprende ed uccide nel sonno. Un episodio isolato, ma assai popolare, è il duello con Cicno figlio del dio Ares. Non solo E. uccide il crudele guerriero, ma mette a mal partito lo stesso dio, finché Zeus non interviene a dividere i due fratellastri, sia in persona, sia per mezzo d'un fulmine. Un episodio amoroso-genealogico è quello di Auge, figlia del re Aleos, nonché sacerdotessa di Atena, che E. sorprende intenta a lavare la biancheria sulle rive di un fiume e rende madre di Telefo. Dopo varie peripezie di tipo più o meno corrente (esposizione del neonato sul monte Partenio, ordine non eseguito dell'uccisione della ragazza-madre, ecc., tutto termina a lieto fine con l'incontro dei tre protagonisti a Pergamo, dove Telefo diventa il capostipite della famiglia reale. Fedele alla promessa fatta a Meleagro, E. si reca in Etolia a domandar la mano di Deianira, figlia del re Oineo. La principessa ha già un pretendente in Acheloo, personificazione del fiume omonimo, rappresentato come più o meno tutti i fiumi, come toro a testa umana. Ben si comprende come alla principessa non sorridesse troppo l'idea di un tale marito, e salutasse con gioia la vittoria del nuovo pretendente sul vecchio. Dopo le nozze con Deianira, E. resta a convivere qualche tempo in casa del suocero, dove anzi nasce anche l'unico figlio legittimo, Hyllos; ma avendo in un accesso d'ira ucciso un parente del re, se ne va. Al passaggio del fiume Eveno, il centauro Nesso che vi esercita il mestiere di traghettatore, approfitta della situazione critica nella quale si trova Deianira seduta sulle sue spalle, per tentare di farle violenza. Ucciso sull'istante da E., si vendica suggerendo alla donna d' inzuppare la camicia del marito nel suo sangue, perché questo ha la facoltà di farlo tornare a lei il giorno che fosse innamorato di un'altra; Deianira, naturalmente, cade nel tranello. Difatti E. poco dopo s'innamora di Iole, sorella d'Ifito, di cui è ospite dopo la presa di Ecalia, città localizzata ora in Tessaglia, ora in Eubea, ora in Messenia. Deianira, accecata dalla gelosia, manda al marito la camicia fatale che comunica all'eroe un tormento così insopportabile, che decide di morire salendo sul rogo che si fa elevare sul monte Eta, dopo avere per lo strazio scaraventato in mare Lica, di null'altro reo che di aver portato la veste fatale. Ma invece di morire, dal rogo l'eroe ascende al cielo con il suo corpo intatto e purificato, su un carro guidato da Nike o da Atena; sui vasi più antichi, appartenenti a un periodo che immaginava le case olimpie in cima al monte, si fa salire il carro senza staccarsi dalla terra). Giunto nell'Olimpo, avviene la solenne presentazione a Zeus, davanti a tutti gli dei che acclamano il nuovo cittadino. Come sposa divina gli viene data Ebe, evidente personificazione dell'eterna giovinezza. Era con l'atto simbolico dell'allattamento lo legittima come suo figlio. E. così può darsi a godimenti materiali e intellettuali (fig. 8), premio della sua vita movimentata.

Naturalmente la vita d'Ercole, così prammaticamente esposta, è il frutto d'un lungo lavorio di adattamento e di cucitura. Racconti locali, cicli regionali, genealogie di famiglie regie e aristocratiche, miti esplicativi di usi rituali, tutti questi componenti s'intrecciarono nei canti dei rapsodi che celebravano le gesta degli antenati dei signori che li ospitavano o i miracoli del dio di cui ricorreva la festa; e a seconda della potenza politica della singola città o della gente cantata, della celebrità del santuario, e soprattutto della bellezza del singolo poema, le differenti versioni prevalevano; e ove non potevano eliminarsi, altri poeti o narratori cercavano di collegare logicamente tra loro. Districare oggi tutti questi ingredienti è faticoso e piuttosto vano: basti ricordare che Tebe e Argo sono i due centri principali del mito eracleo e che il secondo è assai più importante del primo, come dimostra, non foss'altro, la localizzazione nel Peloponneso dei principali miti del dodecatlo. Fuor di dubbio sembra anche la parte scarsissima o nulla delle religioni orientali o preelleniche o protoarie nella formazione della figura dell'eroe; e nemmeno i culti naturalistici sembra che vi abbiano contribuito gran che. Eracle è fondamentalmente un frutto della fantasia delle genti greche del periodo posteriore al loro assestamento nelle loro sedi storiche. E. è il rappresentante mitico degli ideali aristocratici; in lui radunò tutte le qualità del buon combattente un'età che non conosceva altro genere di lotta se non quello individuale. Non è un caso che i miti nei quali E. partecipa a guerre o a spedizioni collettive siano tardi e secondarî, come non è un caso che egli non sia al servizio d'alcuno stato, ma di tutti e di nessuno. Più ancora di Ettore, più di Achille, più dello stesso Ulisse, egli è a servizio solo di sé e del suo fato, vero cavaliere errante dell'antichità. Le sue peregrinazioni non sono, come quelle di Ulisse, il riflesso di viaggi di commercianti audaci e prudenti, ma animate piuttosto dallo stesso ardore d'imporre sé stesso all'ignoto che dové animare i coloni che partivano alla conquista dei paesi lontani, guidati da divinità che parlavano per bocca di profeti e comunicavano per mezzo di prodigi, presenti col loro aiuto a ogni difficoltà naturale da vincere, a ogni timore nuovo da superare. Un'età aristocratica lo ha fatto capostipite di numerose genealogie, lo ha celebrato come invitto nella lotta e nei piaceri, lo ha collocato in principio a ogni lista di vincitori in qualsiasi genere di gara atletica. Col decadere della società aristocratica di cui è l'espressione, il dio perde fatalmente la bella unità del suo carattere primitivo. L'eroe diviene o troppo dio o troppo uomo; e dell'uomo si sottolineano i due lati, il materiale per deriderlo (ed ecco il tipo dell'Ercole ebbro, o brutale come un atleta di mestiere), quello spirituale per farne un essere gravato dall'irrequietezza dell'ellenismo, tormentato dai suoi problemi. Non più l'eroe che conquista l'Olimpo a dispetto della sua regina e invade l'inferno facendo tutti fuggire innanzi a sé, ma l'uomo che posto dinnanzi alle due vie della virtù e del piacere preferisce quella più lunga e più faticosa che conduce alla immortalità. Ma pur trasformandosi da cavaliere aristocratico in eroe pensoso e filosofico, E. rimase pur sempre il rappresentante tipico dell'individualismo ellenico, il modello dell'uomo incessantemente mosso dal bisogno di superare sé stesso.

Il culto di Ercole a Roma. - E. è giunto in Roma dalla Magna Grecia, dove il suo culto era diffusissimo e dove aveva assunto, attraverso i contatti dei coloni greci con i mercanti fenici, anche talune delle caratteristiche del fenicio-punico Melqart. Secondo J. Bayet le città di Crotone, Metaponto e Poseidonia avrebbero trasmesso ai Latini attraverso gli Etruschi (‛Ηερακλῆς, Hercles, Hercules) la composita figura del dio il quale, giunto nel Lazio, pur mantenendo le caratteristiche fondamentali del tipo greco, particolarmente nel culto, ha assunto un aspetto più astratto e più grave, meno individualmente personale e più socialmente utile, qual'era proprio dell'ideazione religiosa dei Romani.

La leggenda latina che riguarda la lotta con Caco, che aveva osato rubargli le vacche di Gerione da lui prese nel suo viaggio all'isola di Eritia, risulta di due motivi mitici: ratto della mandra e lotta contro l'ospite empio, che si ritrovano frequenti nella mitologia greca ma che sono stati trasferiti nei luoghi più venerabili della Roma antichissima (Palatino, Aventino, Porta Trigemina, Foro Boario). La Porta Trigemina, sul tracciato della Ostiense, tra l'Aventino e il fiume ai piedi dell'odierna chiesa di S. Sabina fu sede di un culto pubblico di Ercole con un'ara e un tempio dove il dio era venerato sotto i titoli di Invictus o Victor. Quivi nel 399 per ordine dei duumviri fu celebrato un lettisternio espiatorio in occasione d'una pestilenza (Liv., V, 13, 6).

L'Ara massima situata nel Foro Boario sotto l'attuale Museo dell'impero comprendeva un'ara scoperta, un fanum o boschetto sacro con una cappella dedicata a Ercole, cui in appresso si vennero ad aggiungere i templi di E. Emiliano ed E. Pompeiano. L'Ara massima era sede d'un culto gentilizio, dunque privato, devoluto alla famiglia dei Potizî coadiuvata da quella dei Pinarî. I Potizî detennero la celebrazione del culto fino al 312 a. C. quando il censore Appio Claudio lo aggregò ai culti di stato. Da questo momento l'Ara massima diviene il centro principale del culto di Ercole in Roma e la tradizione ascrive la sua fondazione a Ercole medesimo. La grande festa si svolgeva il 12 agosto secondo un rituale descrittoci nei suoi elementi essenziali da Virgilio (Aen., VIII, vv. 102 seg.; 268 seg.) che lo fa compiere da Evandro proprio all'arrivo di Enea. Detto rituale ha le caratteristiche del culto eroico qual'era praticato in Grecia. Il rito si svolgeva in due tempi: la mattina e la sera. La mattina s'immolava un toro o una giovenca, che è in Grecia la vittima del culto eroico; gli assistenti lo celebravano graeco ritu, cioè coronati d'alloro (ma a capo coperto, mentre in Virgilio stanno a capo scoperto e coronati di pioppo) e il pretore vi faceva una libazione con una coppa lignea (scyphus) che ricorda quella che il dio ha in mano nelle figurazioni greche. Al sacrificio seguiva un banchetto in cui i partecipanti stavano seduti e non sdraiati. Le donne e gli schiavi erano esclusi dalla cerimonia. La sera si svolgeva la parte più propriamente greca del rituale. Le viscere (exta) della vittima immolata la mattina venivano offerte sull'ara, indi seguiva una processione con torce e un banchetto (non rituale) in cui venivano completamente consumate le viscere e perfino la pelle dell'animale al canto di inni.

Altro uso connesso con il culto d'Ercole era l'offerta della decima dei beni posseduti dall'offerente (decimam Herculi facere). Essa aveva luogo in occasione di voti particolari (buon viaggio, conclusione di affari, ecc.) ed era seguita da un allegro festino (polluctum).

L'E. romano dunque, giunto nel Lazio, acquista caratteristiche italiche e si associa a la Bona Dea, Carmenta, Fauno, Diana, Giunone, Cerere, divinità tutte di carattere agrario o fecondativo, e care a un popolo di agricoltori, cui egli propizia l'abbondanza del raccolto e del bestiame e anche il rigoglio della vita umana, poiché nodo di E. si chiamava quello che lo sposo scioglieva alla sposa la sera delle nozze, e a ogni nuovo parto si preparava una mensa in onore del dio. Il suo ravvicinamento con il Dius Fidius sabino protettore della buona fede e del buon viaggio lo fa patrono dei contratti e vindice della parola data (mehercle!). Pertanto, la diffusione del suo culto in Roma e nel Lazio (Tivoli, Preneste, Lanuvio, Tuscolo, Ostia), nelle varie provincie d'Italia e nelle diverse regioni dell'Impero, nelle quali ultime ha dato spesso il suo nome a divinità indigene che presentavano con lui qualche analogia, è del tutto giustificata.

Tra queste divinità indigene merita menzione speciale il Melqart fenicio-punico dai Fenici portato sulle loro navi a Tartesso (Gades, Cadice), dove sotto il titolo di Hercules Gaditanus ebbe un tempio famoso in cui le cerimonie si svolgevano secondo il rito fenicio (Strab., III, 5, 3-5; Diod., V, 20). Gl'imperatori romani ebbero per E. una particolare devozione, da Caligola e Commodo che amarono fregiarsi dei suoi attributi (pelle leonina e clava) ai tre spagnoli Galba, Traiano e Adriano che lo riprodussero come E. Gaditano sulle loro monete, a Massimiano che si chiamò Erculeo e dal nome di Ercole contraddistinse la sua dinastia. Il culto dell'Ara massima restò in vigore fino all'epoca di Costantino.

Bibl.: A. Müller, Die Dorier, I, 2ª ed., Breslavia 1844, p. 415 segg.; P. Friedländer, Herakles. Sagengeschichtliche Untersuchungen, Berlino 1907; U. v. Wilamowitz, Euripides Herakles, 2ª ed., Berlino 1900; C. Robert, Die griechische Heldensage, II, Berlino 1921, p. 422 segg.; Zwicker, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VII, col. 516 segg.; R. Peter, Hercules, in Roscher, Lexikon der gr. u. röm. Mythologie, I, ii, coll. 2253-2297, 2901-3023; Durrbach, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiq. gr. et rom., III, i, pp. 124-128; Bohem, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, i, coll. 550-609; L. Cesano, in De Ruggiero, Diz. epigr., III, coll. 679-725; J. G. Winter, The myth of Hercules at Rome, Univ. of Michigan Series, IV (1910), pp. 171-173; P. Münzer, Cacus der Rinderdieb, Basilea 1911; G. Lugli, Il culto e i santuari di E. vincitore in Roma, in Boll. dell'Assoc. Archeol. rom., V (1915), pp. 108-129; J. Bayet, Les origines de l'Hercule rom., Parigi 1926.

Iconografia. - La popolarità e la complessa varietà del mito fecero di E. e delle sue avventure uno dei soggetti preferiti dell'arte.

Agl'inizî di questa l'eroe non ha ancora nulla che lo distingua da un usuale guerriero: ma ben presto la clava diviene la sua caratteristica. Attributo consueto di E. è altresì la pelle di leone recata sul braccio, o indosso, al disopra del chitone, o sulla testa: la tradizione posteriore ricollega l'uso di essa con l'uccisione del leone nemeo: ma è probabile che tale interpretazione sia nata più tardi, e che l'attributo sia invece venuto dall'arte di Cipro, dove esso era forse proprio di qualche divinità locale confusa poi con E.: certo è che esso compare soltanto sulla fine del sec. VI o sul principio del V. Più tardi E. reca talvolta il cornucopia, al pari delle divinità e degli eroi considerati datori di benessere e di felicità; in qualche rappresentazione romana ha nelle mani i pomi delle Esperidi.

L'aspetto che l'arte ha dato all'eroe è duplice, come di duplice ordine sono le virtù che il mito gli attribuisce: la forza fisica e la saggezza: onde l'eroe, sempre forte e vigoroso nelle forme del corpo, ha talvolta il volto giovanilmente fresco e imberbe, tal'altra invece barbato e con i lineamenti di uomo adulto e maturo. I due tipi, ambedue antichi, persistono sempre, anche dopo, l'uno accanto all'altro: così nelle metope d'Olimpia (v. appresso), pur prevalendo il tipo barbato, compare una volta quello imberbe; la stessa commistione dei due tipi si riscontra nelle figurazioni delle tazze argentee di Pompei, rinvenute recentemente. Il tipo imberbe prevale dalla fine del sec. V e per tutto il sec. IV, ed è quasi il solo adottato nel periodo d'Alessandro, quando il re prese l'eroe a modello per la sua immagine: tuttavia anche allora il tipo barbato continua a essere in onore: barbato è l'Ercole Farnese.

Mentre il rilievo e la pittura vascolare adottano e creano, nella rappresentazione delle avventure di E., una maggiore varietà di motivi, la statuaria si tiene a pochi tipi, che ripete con non profonde varianti. Uno fra i più antichi di essi è quello dell'eroe combattente: così lo rappresenta l'idolo di Eritre, d'origine certamente molto vetusta, che vediamo riprodotto nelle monete imperiali della città: l'eroe, nudo, stante, con le gambe strette alla maniera xoanica, ha la clava alzata nella mano destra e impugna con la sinistra la lancia. Da esso si svolge il tipo dell'E. gradiente in vivace movimento. Con agitata vigoria, l'eroe, armato di clava e d'arco, è in atto di slanciarsi avanti, contro l'avversario: un gran numero di statuette d'arte arcaica ci dicono la diffusione di questo tipo, che ritroviamo anche in monete di diverse città: su di esso era modellata, secondo alcuni, la grande statua scolpita da Onata, e dai Tasi posta nella loro Altis, quantunque ciò sembri poco probabile date le dimensioni colossali che essa aveva. Il tipo persiste nei secoli seguenti e passa dall'arte arcaica a quella del sec. V: quando la pelle leonina entra a far parte degli attributi dell'eroe, essa viene portata da questi o sulla testa, o ricadente dal braccio sinistro proteso. In quest'ultimo modo la troviamo di solito nelle numerosissime statuette bronzee dell'Italia centrale e meridionale, quasi sempre di fattura molto rozza, che testimoniano il favore che ebbero, presso gli Etruschi e presso le altre popolazioni italiche, il culto dell'eroe e questo suo particolare aspetto. Esso invece si fa più raro nel sec. IV e scompare quasi del tutto in età ellenistica e romana.

Accanto alla figura in movimento compare già nel sec. V quella di E. in riposo. Egli è fermo, insiste con la persona su una gamba e ripiega leggermente l'altra; appoggia sulla spalla la clava, che sorregge con una mano, e lascia ricadere dall'altro biaccio la pelle leonina. Varianti del tipo presentano la clava appoggiata a terra, o semplicemente abbassata, ma senza appoggio. Esempî di questo tipo abbiamo in molti rilievi attici del sec. V, e in opere d'arti minori: a esso si atteneva probabilmente l'E. di Policleto, menzionato da Plinio; se ne può considerare come la più bella espressione la celebre statua, già nella collezione Lansdown, che dimostra nella testa giovanile un'evidente derivazione prassitelica, ma che nel corpo dipende, secondo alcuni, da un originale di Lisippo. Le repliche ne continuano in età romana: è del sec. I a. C. la statua colossale in bronzo, il cosiddetto Ercole Righetti, rinvenuta nel teatro di Pompeo (ora al Vaticano). Dal tipo in parola deriva quello in cui l'atteggiamento di riposo s'accentua fino a dare all'eroe l'aspetto d'una figura stanca, quasi triste: egli si appoggia alla clava, che è puntata sotto l'ascella e sulla quale è rigettata la pelle leonina: la copia più nota che ne possediamo è la statua Farnese, rinvenuta alle Terme di Caracalla e ora nel museo di Napoli, firmata da Glicone, ma forse si attiene più all'originale un bronzetto proveniente dall'Umbria, già nella collezione Tyszkiewicz, oia nel museo del Louvre. Un'altra replica, a Firenze, reca l'indicazione ἕργον Λυσίππου: pare dunque certo che la creazione del tipo si debba ascrivere a Lisippo, e che in esso si debba vedere quello che l'artista sicionio fece per l'agorà della sua città.

A Lisippo si debbono altresì riportare altre immagini, che rappresentano l'eroe seduto. Il motivo era stato già trattato nella seconda metà del secolo V: ma limitatamente ai prodotti delle arti minori, gemme, scarabei, monete. Soltanto adesso esso si traduce nella statuaria. Lisippo infatti fece su questo schema la statua colossale ordinatagli dai Tarentini, e che Fabio Massimo dedicò poi sul Campidoglio: l'eroe era rappresentato seduto sopra un canestro, allusivo forse alla pulitura delle stalle di Augia, con la gamba sinistra leggermente piegata e la destra protesa, privo di armi, il capo appoggiato alla mano sinistra, il braccio destro disteso inoperoso. Come una rielaborazione, più che una derivazione diretta, di tale originale si considera da molti, e forse non a torto, il famoso torso del Belvedere, opera d'Apollonio di Atene (v.). Opera di Lisippo infine era l'Ercole Epitrapezio che Marziale e Stazio descrivono da un esemplare, più probabilmente una copia, e non l'originale, come affermano i poeti, posseduto in Roma da Nonio Vindice. L'originale era stato scolpito dall'artista per servire da ornamento alla tavola d'Alessandro: donde il suo nome. Una copia, che possiamo credere molto fedele, sebbene di dimensioni maggiori, è l'E. Matrone di Pompei, in bronzo, ora nel museo di Napoli: l'eroe, seduto su una roccia su cui è gettata la pelle leonina, protende nella destra il nappo, mentre con la sinistra abbandonata tiene la clava. Il tipo ebbe invero larghissimo favore in età ellenistica e soprattutto in età romana, e fu riprodotto con più o meno profonde varianti, oltre che in altre opere statuarie, nella pittura, nel mosaico, nei prodotti delle arti minori.

Forse già creato in età ellenistica, ma divenuto più frequente solo in età romana, è l'E. ebbro; l'E. che suona la cetra, frequente nei vasi a figure nere, ricompare, dopo essere stato in disuso per varî secoli, nei monumenti italici e romani degli ultimi tempi repubblicani e dell'Impero (Hercules Musarum); cosi anche l'E. banchettante, pure esso frequente nei vasi a figure nere, e poi dai Romani ricollegato forse con episodî del mito di Caco (Hercules cubans). Prettamente romani sono infine l'E. seduto in trono, con aspetto maestoso; l'E. vincitore che reca un trofeo d'armi o una Vittoria, ecc.

Le fatiche e le altre avventure di E. (assalto dei serpenti nella culla, lotta con Apollo per il tripode, apoteosi, ecc.) diedero spesso soggetti alla pittura vascolare e murale e alla decorazione a rilievo: fra i cicli più famosi ricordiamo le metope del tempio di Zeus a Olimpia e quelle del cosiddetto Theseion d'Atene; numerosi sono altresì i sarcofagi, soprattutto romani, che traggono argomento dalle stesse leggende.

In età ellenistica e romana prevalsero le figurazioni di carattere erotico, idillico o bacchico: E. in abiti femminili presso la regina Onfale, E. assalito dagli Amorini o tra Menadi e Satiri, E. col piccolo Telefo, soggetto d'una celebre pittura ercolanese, ecc.

V. tavv. XI e XII.

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