Eredità ed erede [dir. civ.]

Diritto on line (2014)

Vincenzo Barba

Abstract

Nel presupposto che erede ed eredità costituiscono due momenti essenziali del medesimo profilo successorio, il quale viene riguardato nell’un caso nel prisma soggettivo e nell’altro in quello oggettivo, si esclude che l’eredità possa essere considerata una cosa o un bene e si risolve la medesima in una formula riassuntiva capace di chiamare a raccolta tutte le situazioni giuridiche soggettive nelle quali l’erede succede. Con la evidente conseguenza che ogni negozio (inter vivos o mortis causa) che abbia riguardo all’eredità finisce, inevitabilmente, per caratterizzarsi siccome negozio per relationem, il quale demanda la determinazione del suo contenuto all’attività esterna di inventariazione. D’altro canto, collocandosi nella prospettiva del procedimento successorio, si chiarisce il rapporto tra chiamato ed erede, ossia tra colui che per legge o per testamento ha il potere di accettare l’eredità e colui che, esercitato questo potere con l’atto o il fatto dell’accettazione, abbia acquistato, effettivamente, la posizione giuridica di erede. Posizione giuridica caratterizzata principalmente dalla virtù espansiva della quota e dalla responsabilità per il pagamento dei debiti e pesi ereditari.

L’eredità nel codice

La parola eredità, pur comparendo un indefinito numero di volte nel nostro codice, ed il numero aumenta esponenzialmente se si contano anche i casi in cui viene utilizzato l’aggettivo, e pur essendo largamente sciupata oltre che nel linguaggio oggetto anche nel metalinguaggio, sembra aver smarrito l’aspirazione a esprimere un significato proprio, perduta in un’opaca continuità di significati tra loro contigui (Schelesinger, P. Successioni (diritto civile): parte generale, in Nss.D.I., XVIII, Torino, 1971, 750).

Ora declinata come dativo, ora come genitivo si accompagna a tutte le principali vicende del procedimento successorio e incontra, in esse, i più importanti e caratterizzanti istituti. In forma di genitivo si unisce alla delazione, all’accettazione, all’acquisto, alla giacenza, alla petizione, alla quota, alla liquidazione, alla vendita e alle spese, mentre in forma di dativo è utilizzata per caratterizzare la chiamata e la rinunzia.

Se agevole è il compito di raccogliere i numerosi luoghi in cui compare, problematico è scorgervi un significato univoco. Perché in ciascuno di essi, pur con un senso in linea di massima comune, finisce con il declinare profili peculiari, fermando l’attenzione ora su quello soggettivo dell’ereditando o dell’erede, ora su quello oggettivo di una sua parte o del tutto, ora su quello di complessità, piuttosto che su quello di particolarità.

Non sarebbe possibile cogliere l’estensione di contenuto della parola eredità se essa venisse definitivamente sciolta da quella dell’erede.

Non perché i due termini costituiscano un’endiadi, ma perché l’uno e l’altro si completano a vicenda e, pur con tutti i necessarî adattamenti, esprimono, l’uno da un punto di vista oggettivo, mentre l’altro da un punto di vista soggettivo, il medesimo fenomeno giuridico: quello successorio mortis causa.

Al quale è dedicato il libro secondo del nostro codice civile. Nel quale, però, non v’è traccia di una sola disposizione di legge che regoli e stabilisca quale sia l’effetto sostantivo della successione (Stolfi, G., Note sul concetto di successione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, 537 e s.), ovvero che definisca quali siano le vicende di rapporto giuridico dipendenti dalla chiusura del procedimento (Allara, M., La successione familiare suppletiva, Torino, 1954, 8).

Non si chiarisce, cioè, quale è il complesso delle situazioni giuridiche soggettive rispetto alle quali l’apertura della successione determina, dapprima, la delazione a favore del chiamato e, successivamente, compiuta l’accettazione e chiuso il procedimento, la successione dell’erede.

Il luogo più appropriato sarebbe stato quello dedicato alla disciplina dell’accettazione dell’eredità, perché ivi è regolato lo strumento capace di finire il procedimento e realizzare il trapasso da quello alla fattispecie. L’attenzione del legislatore, però, è vigile non sulle vicende di rapporto sostantive, bensì su quelle procedimentali (Allara, M., Le nozioni fondamentali del diritto civile, I, V ed., Torino, 1958, 162 s.). L’analisi, sempre puntuale e precisa, si consuma in ciò che del libro secondo è il prepotente signore: il procedimento; mentre i riferimenti all’effetto sostantivo sono rari ed episodici.

L’effetto sostanziale trova, invece, la sua disciplina nei luoghi del codice civile in cui sono regolati e disciplinati i singoli rapporti giuridici (Giannattasio, C., Delle successioni. Disposizioni generali – Successioni legittime, in Comm. cod. civ., Libro II, 1, Torino, 1959, 5): il libro terzo per quelli reali, mentre il quarto per quelli obbligatorî.

Contenuto dell’eredità e diversità dal patrimonio dell’ereditando

Cosa contenga la parola eredità è tema, davvero, arduo. Perché se, in prima approssimazione, anche attraversando l’idea che consegna la tradizione, da un lato, e la derivazione etimologica della parola, dall’altro, potrebbe apparir semplice affermare che si fa riferimento all’insieme dei rapporti rispetto ai quali si compie la successione a causa di morte, non appena si tenti un chiarimento di quali e quanti siano questi rapporti, numerosi si affollano i dubbî che insidiano, sino a svuotarla, questa iniziale definizione.

Impossibile scioglierli se non compiendo una scelta di metodo, la quale, in difetto di una definizione offerta, seppur indirettamente, dal legislatore, sposta l’indagine dal linguaggio oggetto al metalinguaggio, restituendo il tema alla teoria dei concetti giuridici. Ciò, almeno in una prospettiva schiettamente normativa, è principio di soluzione.

Non qualunque grandezza economica può considerarsi appartenente all’eredità, né occorre proporre un’analitica di tutto ciò che può esservi compreso, essendo sufficiente il mero richiamo alle grandezze giuridiche (Schelesinger, P., Successioni (diritto civile): parte generale, cit., 761 e s.). Ciò che costituisce eredità è ciò di giuridico in cui l’erede succede. L’espressione non è tautologica e vale a distinguere l’eredità dal patrimonio dell’ereditando. Non tutte le situazioni giuridiche soggettive che si appuntavano in capo al de cuius costituiscono la di lui eredità (contra: Polacco, V., Delle successioni. Lezioni tenute nella R. Università di Roma negli anni accademici 1922-1923, 1923-1924, Roma, 1928, 16 e Barassi, L., Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, 6), in quanto esse costituiscono il suo patrimonio. Alcune di esse andranno smarrite, ossia si estingueranno (Bonilini, G., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, V ed., Torino, 2010, 10 e ss.; Ferri, L., Successioni in generale, artt. 456-511, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Roma-Bologna, 1965, 25 e ss.). Si pensi, ad esempio, a un diritto di uso, a un diritto di abitazione o a un diritto di usufrutto la cui durata sia commisurata alla vita dell’ereditando. Di nuove se ne costituiranno (Piras, S., La successione per causa di morte. Parte generale. La successione necessaria, in Tratt. Grosso-Santoro Passarelli, II, 3, Milano, 1965, 9 ss.; Ferri, L., Successioni in generale, artt. 456-511, cit., 19). Si pensi, al riguardo, a un legato di credito o a un legato di contratto, (Bonilini, G., Autonomia testamentaria e legato. I legati così detti atipici, Milano, 1990, passim; Id., I legati, artt. 649-673, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2001, 13 e ss. e spec. 100 e ss.). Talune si troveranno in quel prima e in quel dopo, mutate nel loro oggetto. Si pensi, a esempio, a un legato a favore del creditore satisfacendi causa. L’erede, allora, non succede in tutto e soltanto in ciò che costituiva il patrimonio dell’ereditando. Esiste tra patrimonio ed eredità un importante iato, segnato, appunto, dall’erede.

Non esiste tra queste due grandezze un rapporto di continenza, né è possibile affermare che la seconda sia un minus o un maior rispetto al primo (in senso contrario: Santoro-Passarelli, F., Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1989, 85; Azzariti, F.S., Martinez, G., Azzariti, G., Successioni per causa di morte, VI ed., Padova, 1973, 5).

Sono due grandezze diverse, la cui linea di continuità dal primo alla seconda è tracciata proprio dall’erede. Poiché soltanto nella prospettiva soggettivamente qualificata di quest’ultimo è possibile individuare il complesso delle situazioni giuridiche soggettive che costituiscono l’eredità (Cariota Ferrara, L., Le successioni per causa di morte. I Parte generale. 1 Principii – problemi fondamentali, Napoli, 1959, 108).

Eredità è, dunque, parola ellittica con la quale s’intende complessivamente designare l’insieme delle situazioni giuridiche soggettive che, per effetto della morte di un certo soggetto e all’esito del procedimento successorio, si appuntano e possono appuntarsi in capo a colui che succede a titolo universale. Posizioni giuridiche soggettive non dominate da nessun criterio ordinante se non quello di essere le situazioni in cui l’erede deve succedere. Accomunate non tanto per il fatto di essere appartenute al de cuius, quanto per il loro essere offerte al chiamato. Muta, in questa prospettiva, il tradizionale angolo d’osservazione, che cessa di essere l’ereditando, collocato in retroguardia, e diviene l’erede. L’ereditando è signore del proprio patrimonio, ma non della propria eredità. Padroneggia nell’eredità colui che succede a titolo universale. Eredità, dunque, è formula sintetica con la quale si designano, al tempo dell’apertura della successione, il complesso delle situazioni giuridiche soggettive destinate a ricevere quelle vicende di rapporto giuridico brevemente compendiate, senza pretesa di precisione nella descrizione del fenomeno, nella formula “successione mortis causa”. Per misurare gli elementi che la compongono, occorre inventariare tutti i rapporti giuridici. (Scozzafava, O.T., I beni, in Tratt. Dir. Civ. del Cons. Naz. del Notariato, diretto da P. Perlingieri, cit., 148). Si chiarisce, allora, il rapporto di alterità, che ci pare ineluttabile e ineludibile, tra eredità ed erede. Soltanto il secondo consente di segnare la linea capace di determinare la singolarità della prima, altrimenti destinata a confondersi con ciò che non v’è più, ossia con ciò che fu il patrimonio dell’ereditando.

L’eredità nella teoria dei beni

Posta l’alterità tra erede ed eredità, è fin troppo ovvio che il primo trova il proprio spazio disciplinare nella teoria del procedimento successorio, mentre la seconda nella teoria degli oggetti (Allara, M., Dei beni, Milano, 1984, p. 3). Calata l’eredità nel capitolo degli oggetti dell’attività giuridica, si tratta, regolati i confini tra cosa (Pugliatti, S., Cosa (teoria generale), in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 19-93) e bene (Pugliatti, S., Beni (teoria gen.), in Enc. dir., V, Milano, 1959, 164-189), di stabilire se essa possa, o meno, considerarsi appartenente all’una o all’altra classe. Con sacrificio di sfumature e toni mi limiterò soltanto a esporre il risultato che mi convince di più. Il bene (arg. ex art. 810 c.c.) appartiene esclusivamente alla scienza giuridica, sicché è plausibile affermare che in rerum natura non esistono beni, ma soltanto cose materiali (Irti, N., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001, 49 e s.). Incerto, invece, se le 'cose' appartengano soltanto al mondo naturale e il diritto se ne serva, togliendovi il significato naturalistico, ovvero se esse, al pari dei beni, rappresentino un noumeno giuridico (Allara, M., Dei beni, cit., 27 ss.; Messinetti, D., Oggetto dei diritti, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 808 e ss. e spec. 815, e più ampliamente Id., Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano, 1970, 105 e ss.). Benché ciò sia discusso, la seconda prospettiva mi sembra più convincente. Ma, quale che sia la soluzione che si voglia preferire, non v’ha dubbio che i beni non si identificano mai con la cosa materiale, rappresentando i primi una mera valutazione deontologica che il giurista, ponendosi nell’orizzonte di un certo ordinamento giuridico, consuma, riguardando la cosa giuridica in funzione di un fatto o un atto capace di costituire il diritto sulla cosa. Il concetto è dominato, dalla relatività, perché soltanto le officine del diritto traducono le cose materiali in beni o questi in cose; è spazialmente e storicamente condizionato; presuppone non soltanto la cosa, ma anche l’accadere di un fatto o un atto al quale l’ordinamento stringe la vicenda di costituzione del diritto. Ciò posto, escludo che l’eredità possa considerarsi una cosa materiale: non esistendo in natura una res alla quale si possa ricondurre l’idea o il concetto di eredità. Neppure possibile sostenere che l’eredità sia un bene. Una tale conclusione imporrebbe, infatti, di individuare una o più norme che, all’accadere di un certo atto o fatto, producano una vicenda di costituzione di un diritto su essa (Scozzafava, O.T., I beni, cit., 5). Non è dato, però, di trovare nel nostro ordinamento giuridico norme che abbiano questo effetto o tale ritmo. Non la norma sulla vendita di eredità (Rubino, D., La compravendita, in Tratt. Cicu-Messineo, XXIII, II ed., Milano, 1962, 142; Degni, F., Lezioni di diritto civile. La compravendita, Padova, 1935, 68; Bianca, C.M., La vendita e la permuta, in Tratt. Vassalli, VII, t. 1, II ed., Torino, 1993, 225), la quale, generando una vicenda di modificazione soggettiva, ipotizza, per definizione, l’anteriore esistenza del bene. Neppure, ove configurabile, la norma sulla vendita del diritto di usufrutto o di uso di eredità, le quali, per un verso, avrebbero tratto a un diritto reale minore, che presuppone, a sua volta, il diritto pieno e, per altro verso, presuppone risolta positivamente l’idea intorno alla esistenza di un diritto dominicale pieno che si appunti sull’eredità.

Per quanto ci si possa sforzare, le norme giuridiche evocate non contemplano fatti o atti che determinano vicende di rapporti giuridici di un isolato diritto, quello di eredità, bensì una moltiplicazione di quelle vicende per tutti i diritti o rapporti giuridici, raccolti insieme, sotto il nome “eredità”. La parola è algido contenitore di una pluralità di beni, riuniti per ragioni di sintesi e disciplina, ma incapaci di esprimere un bene nuovo, ulteriore e diverso. Ogni atto o fatto sinteticamente riferibile all’eredità, così come ogni vicenda di rapporto giuridico che la riguardi, finisce, di necessità, con il tradursi nella moltiplicazione di quell’atto o fatto o di quella vicenda per ciascuno dei diritti in essa compresi (Messineo, F., Manuale di dir. civ. e comm., VI, IX ed., Milano, 1962, 41). Così, a esempio, la vendita dell’eredità non può evocare il trasferimento della eredità, come se esso fosse un singolare bene, bensì il trasferimento di tutti i diritti compresi nella eredità (Perlingieri, G., L’acquisto dell’eredità, in Calvo, R.-Perlingieri, G., a cura di, Diritto delle successioni, Napoli, 2008, 270 e s.).

L’eredità tra universalità e successio

Esclusa l’eredità dal novero dei beni, si riduce drasticamente anche il senso dell’antico dibattito intorno alla sua appartenenza alle universalità patrimoniali, (Messineo, F., L’eredità e il suo carattere di «universum jus», in Riv. dir. civ., 1941, 363 ss.).

Autorevole dottrina (Barbero, D., Le universalità patrimoniali. Universalità di fatto e di diritto, cit., 321 ss.), dopo aver distinte le universitates in facti e iuris a seconda del loro essere un aggregato materiale o ideale di cose, intorno alla seconda ha raccolto il patrimonio e la dote. Movendo, poi, dal convincimento che l’universalità è soltanto una categoria logica, poiché non rappresenta né un essere, né un modo di essere, ma, soltanto un modo di considerare, ha escluso che l’eredità potesse essere una universalità. Di qui le principali posizioni della nostra dottrina. Il dibattito ha, però, una radice più profonda e problematica, perché attorno a esso si cela il tema che nel nostro tempo si definisce, in via di sintesi, dell’istituzione ex re certa (Ferri, L., Successioni in generale, artt. 456-511, cit., 17). Esso, a sua volta, è l’esito di quel tentativo che aspira a giustificare dogmaticamente il perché l’erede subentra non soltanto nei beni, bensì anche nei debiti, nel possesso e nelle situazioni soggettive. La via che autorevole dottrina (Santoro-Passarelli, F., in Riv. it. sc. giur., 1928, 234; Id., Vocazione legale e vocazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1942, 194 ss.; Messineo, F., L’eredità e il suo carattere di «universum ius», in Riv. dir. civ., 1941, 364) percorse, movendo dalla nobile tradizione romanistica, fu proprio quella della universalità patrimoniale. Il concetto di universalità, secondo tali autori, permette di motivare dogmaticamente un fenomeno altrimenti difficilmente intelligibile: come mai l’erede succede non soltanto nei beni, bensì anche nei debiti e nel possesso (Coviello, L., Successione legittima e necessaria, Milano, 1937, 3; Degni, F., Lezioni di diritto civile. La successione a causa di morte, I, La successione legittima, Padova, 1931, 1 ss.; D’Avanzo, W., Delle successioni, I, Firenze, 1941, 3; Messineo, F., Manuale di diritto civile e commerciale, VI, cit., 25 ss.; Bianca, C.M., Diritto civile, VI, La proprietà, Milano, 1999, 620). Il vantaggio di poter giustificare la successione nel debito porta con sé un costo di non breve momento: dover accettare l’idea che l’eredità è una universalità e, di necessità, dover illustrare in che misura sia legittimo parlare di essa nel nostro ordinamento. Ciò spiega la profonda diversità di pensiero di studiosi che, pur valendosi del comune concetto di universalità, gli assegnano significati opposti e vi rinvengono fondamento in molteplici fatti o situazioni tra loro disparati. Al punto che il loro stringersi intorno a questa idea risulta, sovente, più formale che sostanziale. Nella comune idea dell’universalità si stringono, infatti, sia coloro per i quali l’eredità è un quid diverso e ulteriore rispetto alla complessità dei beni che la compongono, sia coloro per i quali l’eredità è soltanto una formula di sintesi. E, ancora, coloro che rintracciano il fondamento della universalità dell’eredità nei debiti, quasi che essi costituissero un onere reale, piuttosto che nel venir meno del soggetto, o nel fatto che esso apparterrà a un nuovo soggetto, o nella capacità dell’eredità di giacere in attesa del suo essere acquistata.

Le reazioni a codesta impostazione non tardarono (Cicu, A., Natura giuridica della vocazione nell’usufrutto di eredità, in Studi in onore di F. Mancaleoni, in Studi Sassaresi, XVI e in Foro It., 1938, IV, 136 e s., da cui le citazioni; Id., Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità, in Tratt. Cicu-Messineo, II ed., XLII, Milano, 1961, 9; L. Ferri, Successioni in generale, artt. 456-511, cit., 18; L. Barassi, Le successioni per causa di morte, cit., 8; Salis, R., Brevi note sul concetto dell’hereditas concepita come universitas, in Riv. dir. civ., 1943, 140 ss.; Mengoni, L., L’istituzione di erede «ex re certa», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 744 ss.; Schlesinger, P., La petizione di eredità, Torino, 1956, 151 ss.). Il concetto di universalità, si è detto, non soltanto non spiega perché si debba dare successione nei debiti, nel possesso e nelle posizioni soggettive, ma soprattutto non ha la forza di fondare l’idea che i debiti ineriscono al patrimonio ereditario, se solo si pensa che l’erede che accetta puramente e semplicemente risponde illimitatamente dei debiti ereditari anche con il proprio patrimonio.

Si riscopre, quindi, l’antico concetto della successio. Il meccanismo della successio consente all’erede di prendere il luogo dell’ereditando (Bonfante, P., La successio in universum jus, in Id., Scritti giuridici varii, I, Famiglia e successioni, Torino, 1916, 250 ss) e, in conseguenza, consente al primo di subentrare nella totalità o, se vogliamo, senza perciò assegnare all’espressione un significato maggiore di quello di cui essa è capace, nell’universalità dei rapporti giuridici che facevano capo all’ereditando. Il ricorso al concetto, di tradizione romanistica, della successio in locum et ius evita quello di universitas. L’uno e l’altro hanno pregi e svantaggi, ma credo che nessuno di essi sia, in sé, autosufficiente (Nicolò, R., Erede (dir. priv.), in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, 196 e s.). Il fenomeno dipende, esclusivamente, dalla sovranità del legislatore; perché soltanto la norma è autosufficiente e autoreferenziale.

I diritti sull’eredità

Affermata la natura meramente logica dell’universalità, negato che l’eredità, in sé, sia una cosa e risolto il suo significato in formula verbale di sintesi del complesso di situazioni giuridiche soggettive rispetto alle quali si attende la successione mortis causa, il problema dei diritti sull’eredità appare siccome falsa questione o tema mal posto, giustificando, così, la ragione di una sua assenza nel contenuto delle norme di diritto italiano. Chi si provi nel tema dei diritti sull’eredità tenta di combinare un matrimonio che, già in punto d'inizio, manifesta la sua irreparabile crisi. La quale non dipende dall’astratta possibilità di ordinare questa convivenza, ma dalla congenita impossibilità di coniugare grandezze che si rifiutano reciprocamente. Occorre cambiare la prospettiva e tenere conto di ciò che la parola eredità significa. Non appena si riflette che essa non è altro dal complesso delle situazioni giuridiche destinate alla vicenda successoria, anche l’espressione diritti sull’eredità, acquista una nuova vitalità. Non soltanto perché diventa il medio logico attraverso il quale è possibile pensare a diritti che riguardino il complesso, ma soprattutto perché risolve in radice anche il problema del contenuto normativo dei diritti che la possono riguardare.

Aver risolto l’eredità in una mera formula riassuntiva scioglie, sostanzialmente, il problema del contenuto dei diritti, il cui oggetto mediato è l’eredità, ma il cui oggetto immediato e diretto sono i singoli beni e le singole cose in essa comprese.

L’interprete di un testamento o di un contratto sull’eredità ha necessità di guardare oltre il testo per scoprire quali siano i beni o le cose, unitariamente denominati sotto la sintetica espressione “eredità”, sui quali il diritto debba costituirsi. La sola circostanza che l’atto non sia autosufficiente, ossia che dalla sola interpretazione del suo testo non sia sempre e soltanto possibile individuare tutti i beni destinati a ricevere la vicenda di rapporto giuridico, impone di ricondurre i negozî in parola sotto la categoria di quelli nei quali si consuma l’uso di una relatio. La quale non rinvia a un altro testo o a un altro fatto di linguaggio, bensì a una vera e propria operazione materiale: quella consistente nella individuazione e specificazione dei beni compresi nella eredità. Affermare che tutti gli atti che abbiano tratto all’eredità, ivi compresa la mera istituzione di erede, sono atti il cui contenuto è necessariamente determinato per relationem induce a escludere che si possa discorrere di negozî relativi a eredità in tutti quei casi in cui la relatio alla operazione materiale sia espressamente esclusa o preclusa.

L’individuazione dell’erede

Se l’eredità è un capitolo della teoria sui beni, l’erede trova la sua collocazione all’interno del procedimento successorio.

Colui che può diventare erede, ossia il chiamato all’eredità, è designato dalla legge o dal testamento o dall’una e l’altro insieme; acquista la posizione giuridica di erede soltanto con l’accettazione. Quest’ultima può constare di un atto, nei casi di accettazione espressa, tacita o presunta, o di un fatto, nei casi espressamente preveduti dalla legge (es. art. 485, co. 2, c.c.; 485, co. 3, ult. cpv., c.c., 487, co. 2, c.c.; 488, co. 1, c.c.). Qualora manchi in tutto un testamento, è la legge che individua i soggetti che vengono chiamati alla successione, secondo un rigoroso criterio famigliare che, salvi i casi di concorso, è costruito sulla inclusione del più prossimo e l’esclusione del più lontano. Con il limite del parente nel sesto grado, l’assenza del quale determina la successione dello Stato (cfr. artt. 565-585 c.c.). La scelta dell’erede può, anche essere compiuta direttamente dal de cuius, il quale nel testamento, con arbitrio e salvo il limite di efficacia delle proprie disposizioni connesso alla disciplina di tutela dei legittimarî (rinvio), designa coloro che intende chiamare alla successione. Non sempre facile, però, stabilire se il testatore abbia voluto istituire i soggetti nominati nel testamento siccome eredi o legatarî. Il criterio è fissato all’art. 588 c.c., il quale contiene una norma generale sull’interpretazione del testamento, secondo la quale sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o la denominazione utilizzata, se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore. Il primo comma dell’art. 588 c.c., nel negare rilevanza concludente alle espressioni e denominazioni e nel negare rilevanza concludente alla tecnica logico-linguistica con cui il testatore si esprime, assegna valore ermeneutico determinante e concludente al suo contenuto o, più esattamente, al suo comprendere o escludere l’universalità o una quota dei beni del testatore (Amadio, G., L’oggetto della disposizione testamentaria, cit., p. 899; Bonilini, G., Institutio ex re certa e acquisto, per virtù espansiva, dei beni non contemplati, in Fam. Pers e Successioni, 2008, 535; Barba, V., Istituzione ex re certa e divisione fatta dal testatore, in Riv. dir. civ., 2012, 53 ss.). Tale regola si completa con quella contenuta al secondo comma, la quale chiarisce che la tecnica logico-linguistica consistente nell’indicazione di un bene o un complesso di beni determinato non esclude che il testatore abbia inteso assegnare quel bene o quel complesso di beni come quota del proprio patrimonio (Amadio, G., La divisione del testatore senza predeterminazione di quote, cit., 249), ossia che la disposizione possa essere qualificata a titolo universale e non necessariamente a titolo particolare, come si potrebbe a prima vista ipotizzare. Qualora il chiamato manchi ai vivi, dopo che sia aperta la successione, ma prima di aver accettato, la sua posizione giuridica si trasmette ai suoi eredi, a norma dell’art. 479 c.c.; qualora, invece, il chiamato non possa o non voglia accettare, la legge individua i soggetti che prenderanno il suo luogo, attraverso i cc.dd. meccanismi devolutori (in caso di successione legittima: rappresentazione, accrescimento, devoluzione in senso stretto; in caso di successione testamentaria: sostituzione, rappresentazione, accrescimento, devoluzione in senso stretto). Può darsi, infine, il caso che con il proprio testamento il de cuius non abbia assegnato l’interezza del proprio patrimonio. In tale ipotesi, la determinazione dei chiamati, per la parte mancante, avviene secondo la disciplina sulla successione legittima.

Statuto disciplinare dell’erede

Lo statuto disciplinare dell’erede si raccoglie, principalmente, intorno a due fenomeni: uno di vantaggio e l’altro di svantaggio. Il primo è noto come ‘virtù espansiva della quota’; il secondo attiene alla ripartizione dei debiti ereditarî.

Si discorre di virtù espansiva (Bonilini, G., Institutio ex re certa e acquisto per virtù espansiva, dei beni non contemplati nel testamento, cit., 239 e ss.) per indicare la capacità della quota di raccogliere a sé tutti i beni dell’eredità in proporzione al suo valore. Questo principio di carattere generale, benché ciò sia discusso, credo che debba valere anche nel caso di chiamato ex re certa. La precisa indicazione di beni determinati non mi pare possa considerarsi un incontrovertibile indice dell’intenzione del testatore di escludere il beneficiario dal riparto di beni ulteriori o diversi (così era, invece, nel diritto romano classico). La tesi che esclude, in via di principio, l’istituito ex re certa dal riparto dei beni residui o ulteriori finisce, inevitabilmente, per un verso, per eludere l’intenzione del testatore di considerare i medesimi quale quota del patrimonio, limitando l’acquisto a quelli e, per altro verso, per violare la norma sull’interpretazione del testamento, che impone, sulla base del testo e del contesto, di assegnare alla disposizione testamentaria un significato che sia indipendente dalla tecnica logico-linguistica e vincolato al suo comprendere l’universalità o una quota dei beni del testatore. La virtù espansiva, in uno con l’esatta determinazione dei successibili, consente di risolvere tutti i principali problemi intorno alla sorte dei beni residui e dei beni dei quali il testatore non abbia disposto. Quanto al pagamento dei debiti e pesi ereditarî, salvo che il testatore non abbia diversamente disposto, ciascun erede risponde rispetto ai creditori personalmente e in proporzione della propria quota ereditaria. Fa eccezione a questa regola il caso in cui si tratti di debito garantito da ipoteca: in tal caso ciascun erede risponde per l’intero. L’erede che abbia pagato l’intero o più di quanto a quegli competa può ripetere dagli altri coeredi soltanto la parte per cui costoro devono contribuire (ossia pro quota), quantunque si sia fatto surrogare nei diritti dei creditori. In tema di pagamento dei debiti deve, altresì, segnalarsi la profonda differenza che corre tra gli eredi cc.dd. puri e semplici e gli eredi che abbiano accettato con beneficio di inventario. I primi, infatti, rispondono personalmente e in proporzione della propria quota ereditaria, anche con il proprio patrimonio personale; diversamente, i secondi rispondono personalmente e in proporzione della propria quota ereditaria, ma nei soli limiti di quanto abbiano ricevuto.

Fonti normative

Artt. 456, 458, 470, 474, 519, 533, 536, 565, 588, 752, 754, 757 c.c.

Bibliografia essenziale

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