KANTOROWICZ, ERNST HARTWIG

Federiciana (2005)

KANTORÓWICZ, ERNST HARTWIG

RRoberto Delle Donne

Nacque a Posen (oggi Poznań) da un'agiata famiglia di industriali ebrei il 3 maggio 1895. Nella città natale, allora capitale dell'omonima provincia prussiana, K. frequentò il Gymnasium tedesco, in cui acquisì una buona formazione umanistica, imparando, oltre al latino e al greco, anche il francese. Apprese inoltre l'inglese da una governante, ma non l'ebraico o lo yiddish. Anche se era solito pronunciare il suo cognome alla polacca, K. restò estraneo alla lingua e alla cultura di questo popolo. I genitori di Ernst, Joseph e Clara Hepner, vollero infatti educarlo alla cultura e ai valori del popolo tedesco, di cui egli si sentì legittima parte almeno fino all'avvento del nazismo ‒ come molti altri ebrei assimilati. Destinato a lavorare nell'azienda paterna, intraprese studi commerciali ad Amburgo, fino a quando la guerra non gli fece indossare, nel 1914, l'uniforme di volontario dell'esercito tedesco. Combatté sul fronte francese, dove fu ferito a Verdun; fu poi inviato in Russia e in Turchia ‒ paese in cui si avvicinò alla cultura mediterranea e orientale che tanta parte avrà nelle sue opere. Nel 1918 si iscrisse all'Università di Berlino, dove seguì le lezioni dell'islamista Carl Heinrich Becker. Presto si allontanò nuovamente dagli studi, per combattere, a Posen, i polacchi in rivolta e per opporsi con le armi, a Berlino, agli spartakisti. Nel 1919 si trasferì a Monaco per iscriversi alla facoltà di economia. Qui seguì i corsi di Max Weber e partecipò, nel maggio dello stesso anno, alla repressione della seconda repubblica dei consigli, insieme ai 'corpi franchi' (Freikorps). In giugno, quando la pace di Versailles assegnò definitivamente alla Polonia la Posnania e l'Alta Slesia, K. perse la propria 'patria di affetti e sentimenti' e parte del patrimonio familiare.

Nell'autunno del 1919 è a Heidelberg per proseguire gli studi universitari. Qui ascolta le lezioni dello storico della cultura Eberhard Gothein, del suo allievo Edgar Salin e dello storico dell'antichità Alfred von Domaszewski. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, egli non seguì corsi di storia medievale, benché entrasse presto in rapporti, anche di amicizia, con i medievisti Karl Hampe, Percy E. Schramm e Friedrich Baethgen.

Si laureò con Gothein nel 1921, discutendo una tesi sulla "natura delle corporazioni artigianali musulmane". In quest'opera, ancora inedita, l'attenzione tipica della Kulturgeschichte per la "storia integrale" dell'umanità e per le "forze operose" che agiscono nella storia (società, istituzioni, economia, cultura, credenze e rappresentazioni collettive, colte nella loro dinamica unità strutturale) è sorretta dalla weberiana consapevolezza delle necessarie cautele che si impongono allo studioso che voglia comprendere realtà, profondamente estranee al moderno mondo occidentale, in cui i fenomeni religiosi investono la vita sociale dell'uomo in tutte le sue forme.

A Heidelberg K. entra inoltre a far parte del cenacolo del poeta Stefan George, di quella cerchia di scrittori, poeti e intellettuali, "élite nella vita culturale tedesca", in cui "gli ebrei […] dimostrarono con la loro intelligenza, con la loro partecipazione e la loro attività, di essere capaci di assimilarsi ai tedeschi senza riserve" (Karl Löwith, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933. Ein Bericht, Stuttgart 1986, p. 24; trad. it. La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Milano 1988, p. 46). George, con utopica sfida al presente, eleggeva le rive del Mediterraneo a scenario e simbolo di un rinnovamento spirituale che avrebbe dovuto conciliare antichità e Germania nel segno di un nuovo classicismo. Sotto l'influsso del poeta, K. impara a coniugare il suo fervore nazionalista con l'universalismo culturale. I georgeani avevano inoltre una spiccata predilezione per la storia, e ritenevano che nel XIX sec. lo spirito della poesia fosse rimasto vivo soprattutto nelle opere di grandi storici come Ranke, Mommsen e Burckhardt, piuttosto che negli scrittori. Nella crisi culturale della Germania guglielmina e poi weimariana, i georgeani affidavano agli storici l'alto compito di ritrovare nel passato i valori assoluti da additare al presente, individuandoli in una persona, in un popolo, in un'epoca o in una cultura. Con la loro opera gli storici avrebbero perciò dovuto contribuire al superamento del relativismo, allora dilagante, che induceva a vedere la realtà come un flusso in cui tutto ciò che nasce è degno di perire, in cui tutte le figure, le opere e gli eventi del passato sono ridotti a momenti transitori di un processo e resi privi di ogni originalità. In tal modo, il popolo tedesco avrebbe finalmente ritrovato in se stesso la 'verità della nazione' e la norma delle proprie scelte, quindi la capacità di decidere e di credere nelle proprie decisioni.

È nel cenacolo di George che matura in K. l'idea di dedicare un libro a Federico II di Hohenstaufen. D'altronde, lo stesso George ne aveva rievocato l'immagine nelle Tombe di Spira (Die Gräber in Speyer) e in Detti ai morti (Sprüche an die Toten), mentre Wolfram von den Steinen, storico vicino al circolo, aveva pubblicato già nel 1922 la sua dissertazione sull'Impero di Federico II, attraverso le sue lettere di stato (Das Kaisertum Friedrichs des Zweiten nach den Anschauungen seiner Staatsbriefe) e, un anno dopo, la sua traduzione delle Lettere di stato dell'imperatore Federico II (Staatsbriefe Kaiser Friedrichs des Zweiten). Più in generale, la figura del sovrano svevo era largamente presente nella cultura tedesca dei primi decenni del Novecento. Del resto, soprattutto per influsso di Nietzsche, aveva lasciato durature tracce, anche negli storici, l'immagine di un Federico II eroe antimoderno e anticristiano, pronto a concepire la realtà empirica quale presenza autosufficiente e oggettiva delle cose, e non più quale linguaggio di segrete rispondenze da leggere e decifrare per portare alla luce un messaggio profondo (v. Storiografia, Otto e Novecento).

K. diede inizio al Federico II, imperatore (Kaiser Friedrich der Zweite) nel 1922 e portò a termine la sua poderosa biografia, di oltre seicento pagine, in meno di cinque anni. Alla pubblicazione, nel 1927, del primo tomo dell'opera (Textband) seguì, nel 1931, un secondo volume (Ergänzungsband) di note e di excursus storiografici. Furono per K. anni di lavoro intenso e raccolto, in diversi archivi e biblioteche europee, come la Biblioteca Apostolica Vaticana e i Monumenta Germaniae Historica ‒ da tempo patria d'elezione dell'erudizione storica tedesca. Nondimeno, furono per K. anni di confronto con gli storici di cui fu allievo e amico, nonché di vigile attenzione ai dibattiti culturali del tempo. Sorprendentemente, i primi lettori colsero però solo il carattere letterario dell'opera, fraintendendone la complessa struttura e i principi ispiratori ‒ un malinteso, gravido di conseguenze, che si sarebbe protratto almeno fino agli anni Novanta del Novecento. D'altronde, ancora oggi il Federico II, imperatore continua a sorprendere per la singolare miscela di erudizione e di vocazione alla sintesi storiografica, per le vivide rievocazioni di ambienti e di personaggi, per l'abbondanza di immagini non scevre di valenze politiche.

L'opera, che apparve presso l'editore Georg Bondi di Berlino nella serie dei Fogli per l'arte, la collana voluta e diretta dal poeta Stefan George, celebrava sin dall'Avvertenza (Vorwort) la perpetuità dei valori della comunità spirituale in cui era nato. Vi si racconta infatti che nel maggio 1924, nel VII centenario della fondazione dell'Università di Napoli ‒ creazione di Federico II ‒, a Palermo era stata deposta una corona recante la dedica: "Ai suoi imperatori ed eroi, la Germania segreta". Il riferimento alla Germania segreta ‒ un mitologema che aveva assunto nel cenacolo di George la valenza di richiamo ai valori profondi della cultura tedesca ed europea ‒ rivela sin dall'Avvertenza come il libro non si rivolga a un pubblico di storici di professione, bensì a una più ampia cerchia di lettori, che dall'attenta e appassionata ricostruzione delle vicende del sovrano svevo avrebbero dovuto trarre non solo un accrescimento del proprio sapere, ma anche auspici e prospettive per la crisi politica e culturale in cui si dibatteva la Germania weimariana. L'opera non va però interpretata come il frutto di un'adesione più o meno velata alle posizioni di questa o quella parte politica, dal momento che in K. la politica non è mai concepita come pura tecnica di organizzazione della vita in comune, come mera capacità di indirizzamento e di controllo delle dinamiche delle forze in campo, ma sempre come il luogo in cui l'uomo può e deve realizzare se stesso. Non meno fuorviante sarebbe il pensare che K. consideri la storia un esercizio retorico volto a edificare gli animi dei lettori per spingerli all'azione politica, come un racconto di 'finzione' distante, e anzi contrapposto alle pratiche della storiografia scientifica così come si erano andate consolidando nella seconda metà dell'Ottocento, con la progressiva professionalizzazione della disciplina. K. non contesta infatti mai il valore della ricerca storica e la considera anzi un passaggio obbligato per chiunque voglia realizzare un'opera storiografica non inficiata dal dilettantismo, dal momento che è solo nel rispetto delle sue pratiche conoscitive che possono essere approntati i materiali destinati a essere rielaborati nella rappresentazione storica.

Riteneva però che la storiografia dovesse offrire un'immagine del passato in cui la prospettiva 'sovratemporale' di chi osserva con olimpico distacco l'avvicendarsi delle generazioni e degli uomini nel tempo, presentandoli, rankeanamente, come personae di un dramma, fosse affiancata dal punto di vista di coloro che agiscono nella storia e dal riflesso delle loro azioni nella coscienza e nell'universo mentale dei contemporanei, chiamati a svolgere nella rappresentazione del passato la stessa funzione che nel dramma ha il coro, che con la sua partecipazione all'azione e con le sue espressioni di approvazione o di biasimo consente lo sviluppo dell'intreccio e il suo scioglimento. K. era infatti consapevole che gli uomini non sempre operano in seguito a una valutazione razionale delle condizioni e dei mezzi che il mondo esterno rende disponibili, ma più spesso perché credono nell'incondizionato valore in sé dei propri comportamenti, perché mossi da momentanei affetti e sentimenti, da abitudini acquisite che condividono con i loro contemporanei. Lo storico, per comprendere e interpretare le azioni del passato, non può perciò prescindere dal senso che gli uomini 'intenzionalmente' attribuivano ad esse, dalla conoscenza delle forme codificate di senso, dalle motivazioni e dalle condizioni che orientavano l'agire in un determinato contesto. In altri termini, non può tralasciare la percezione che di uomini, fatti ed eventi del passato ebbero i contemporanei e che essi espressero soprattutto in fonti immeritatamente cadute in discredito, come cronache, "esercizi di stile, lettere fittizie e persino falsi", che restituendo l'"atmosfera del tempo" aiutano a comprendere il modo in cui si sviluppò la "tensione drammatica" tra il singolo e coloro che interagirono con lui o lo osservarono dall'esterno. A tale complessa interazione, che è sempre anche un processo interpretativo reciproco mediato dall'uso di simboli, va ricondotta, secondo K., anche l'enorme fioritura di leggende e miti intorno a determinati individui, prima e dopo la loro morte ‒ come ad esempio avvenne con Federico II. K. riteneva quindi che per comprendere la storia del sovrano svevo fosse indispensabile tenere conto anche di quegli elementi 'leggendari', elaborati dalla cultura del XII e del XIII sec., che la maggior parte dei medievisti tedeschi perlopiù evitava di prendere in considerazione o che, se proprio non poteva fare a meno di esaminarli, non tralasciava di contrapporre alla realtà fattuale, stigmatizzandoli come 'fuorvianti' perché 'deformanti'. K. muoveva invece dalla convinzione che essi, proprio per il loro carattere 'immaginativo', avessero un'effettiva incidenza nelle vicende di Federico II, come dimostra, ad esempio, la ricostruzione che egli compie dell'auctoritas e del 'carisma' dell'imperatore svevo. Consapevole che solo all'interno di un comune universo culturale e simbolico, e solo in risposta a bisogni diffusi, possono costituirsi relazioni autoritative, K. introduce il lettore sin dalla prima pagina della sua opera nella sfera dell'immaginario degli uomini del XII e del XIII sec., in quel complesso e produttivo intreccio di tradizione e di immaginazione che secondo Weber è indispensabile al costituirsi di qualsivoglia vincolo di autorità. Rievocando le attese che la nascita di Federico aveva suscitato nei contemporanei, K. ricorda come Pietro da Eboli avesse cantato la nascita dell'imperatore riecheggiando la IV egloga di Virgilio; riporta poi le predizioni di Gioacchino da Fiore e i versi dedicati al figlio di Enrico VI da Goffredo da Viterbo. In tutto il Federico II la figura del sovrano è calata nel clima storico-antropologico-culturale del suo tempo, nelle sue aspettative escatologiche e nelle sue fedi messianiche, nel suo mondo simbolico e nelle sue concezioni politiche: un contesto, questo, che K. considerava indispensabile per la comprensione del concreto operare dell'imperatore. D'altra parte, già Gothein, con cui K. aveva discusso la sua tesi di dottorato, aveva imparato da Dilthey e da Burckhardt a fermare l'attenzione sull'unità (Gesamt-heit) dei vari aspetti della vita culturale. Per Dilthey la 'comprensione' di un'epoca non poteva infatti prescindere dall'analisi strutturale delle "intuizioni del mondo" (Weltanschauungen), intese come complessi semantici in cui l'antitesi di soggettivo e oggettivo è superata nella dinamica culturale e motivazionale comune a una molteplicità di individui fra loro interrelati, mentre per Burckhardt il concetto di Kultur assumeva un senso quasi antropologico: cosicché Gothein, richiamandosi al loro insegnamento, aveva fatto posto accanto all'arte e alla letteratura, alla filosofia e alla scienza, anche alle superstizioni e alle attività manuali.

K., nella sua poderosa narrazione storica, basata su un'ampia e accurata documentazione e nondimeno sostenuta da uno stile lieve e trascinante, sottolinea come in ogni campo, nella prassi politica e nella dottrina imperiale, nell'esercizio della poesia cortese e nell'arte del commercio, nella caccia e nella guerra, l'imperatore proclami il dovere e la possibilità intellettuale di guardare le cose "che sono come sono" (manifestare ea quae sunt sicut sunt), scorgendone l'immanente e inesorabile necessità, afferrandole nella loro spietata immediatezza. L'imperatore che scrive il trattato sull'arte della caccia col falcone (De arte venandi cum avibus) e fa di esso un vero manuale di ornitologia, un'opera permeata di rigore d'osservazione analitica e al tempo stesso di ariosa eleganza, è per K. soprattutto la mente chiara e demonica, l'intelligenza inquietante tutta aperta alla superficie della vita e alla sua dura chiarezza senza mistero. La sua visione della realtà si contrappone così alla concezione medioevale di un Liutprando, o a quella epifanica di un Francesco d'Assisi, divenendo nell'esposizione di K. il segno di un razionalismo scientifico che precorre i tempi nuovi e, al tempo stesso, l'eco di un'antica armonia tra spirito e corpo divenuta estranea al mondo moderno. L'instancabile ricercatore, che sviscera spregiudicatamente tutti i campi dello scibile, non accontentandosi dell'usuale spiegazione delle cose note e ignote, che non esita a correggere le osservazioni di Aristotele che riteneva errate con una breve nota: Non sic se habet, può ben presentarsi, secondo uno stereotipo storiografico largamente diffuso, quale precursore d'una mentalità illuministica; ma la sua chiarezza trasparente, che vuol lasciare apparire la vita nella sua luminosa impassibilità, sembra una qualità assai antica che il mondo moderno ha perduto per sempre: l'innocenza mondana non ancora turbata da alcuna introversione né da alcuna interiorità; non ancora, dunque, scalfita dal cristianesimo. In questo senso, Federico II è per K. un personaggio del tutto estraneo alla modernità, che sta invece sotto il segno dell'introversione, dello scavo interiore, dell'analisi psicologica e della profondità cristiana, della perdita dell'innocenza e della bella apparenza. Non sorprende quindi che per lo storico sia stata proprio la Riforma protestante, che diede alla Germania il suo volto moderno, a relegare per sempre il grande imperatore nel regno delle ombre. K. condivide dunque con Nietzsche l'avversione per Lutero e la convinzione che all'origine della decadenza della civiltà moderna vi sia l'opposizione tra antichità e cristianesimo; ma non riprende dal filosofo la ricostruzione della genealogia del nichilismo. Per Nietzsche le lacerazioni della modernità sono conseguenza della décadence socratica, hanno radici nella 'centrifuga' Grecia di Platone che avrebbe annullato la tensione tragica fra la bellezza apollinea e la verità dionisiaca pietrificando le relazioni tra l'uomo e le cose in un'immagine ordinata, che il cristianesimo, considerato dal filosofo come platonismo trasformato e mascherato, avrebbe poi fatta propria. K. invece, come già George, non solo non condivideva la condanna nietzscheana di Platone e quanto ne conseguiva, ma riteneva anche che la radicale e inconciliabile estraneità di antichità e cristianesimo fosse insorta solo con Lutero che, mosso dall'odio per l'umanità superiore dei romani che stava rinascendo, aveva espunto dal protestantesimo quei resti di paganesimo che la Chiesa cattolica aveva fin dalle sue origini metabolizzati. Tale diversità di vedute si riflette emblematicamente nella differente valutazione dell'azione politica di Federico II: se Nietzsche vide nello Svevo colui che aveva combattuto la Chiesa perché irriducibile nemico del cristianesimo che "prima ci ha privato della messe della cultura antica e poi di quella islamica" (F. Nietzsche, Der Antichrist, in Id., Kritische Studienaus-gabe in 15. Einzelbänden, a cura di G. Colli-M. Montinari, Berlin 19882, VI, par. 60, p. 249), lo storico di Posen non tralascia mai di mostrare quanto feconda fosse invece stata quella fusione di culture a Wittenberg bruscamente rinnegata.

Già Wolfram von den Steinen aveva compendiato nell'espressione "Cristianesimo cesareo" la sua convinzione che solo Federico II avesse saputo fondere antichità e cristianesimo, mentre i precedenti imperatori, compresi il Barbarossa ed Enrico VI, avevano lasciato "paganesimo e cristianesimo separati, l'uno accanto all'altro" (W. von den Steinen, Das Kaisertum Friedrichs des Zweiten nach den Anschauungen seiner Staatsbriefe, Berlin 1922, p. 40). K. ricostruisce le tappe attraverso cui Federico II venne a fondare una religio iuris riassorbendo l'eredità dell'Oriente e dell'antichità pagana e imprimendole il suggello della religione rivelata. Anch'egli ricorda che i precedenti sovrani svevi erano già stati talora esaltati, con toni innocuamente classicheggianti, come dei de prole deorum; e che in età carolingia l'imperatore era stato talvolta chiamato 'vicario di Dio', 'novello Davide', o anche 'Unto del Signore' e Salvator mundi; ma sottolinea altresì come con accenti totalmente nuovi Marcovaldo di Ried, Terrisio di Atina e Pier della Vigna celebrassero Federico come il signore degli elementi, come colui che climata ligat et elementa coniungit. Tutore della giustizia, massima prerogativa divina, il sovrano svevo appare come il necessario custode dell'ordine terreno e cosmico che altrimenti verrebbe turbato dalle forze del male, come il legislatore che impartisce le leggi dello stato come specchio di quelle divine, come il giudice che ne sorveglia l'osservanza e ne punisce le trasgressioni; l'Impero diviene così la presenza concreta e tangibile dell'armonia di Dio. A Pier della Vigna, che riconosce in Federico "l'archetipo del bene", il sovrano appare come colui "che tutto delimita nell'ordine del diritto", e "sul quale le nubi piovono giustizia e che i cieli dall'alto irrorano" (J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865 [riprod. anast. Aalen 1966], p. 425 n. 107). Costruendo il proprio mito e il proprio culto, Federico tende a identificarsi con Cristo, col Cristo trionfante e severo, e, al tempo stesso, col sol invictus della tradizione romana. L'imperatore, il divus Augustus, "simile in tutto a questo imperatore romano come portatore visibile della salvezza"(Kantorowicz, 1927-1931, I, p. 222), diviene sotér, salvatore e redentore del mondo. La maestà cesarea riassume in sé i tratti di Giove e quelli di Cristo-re e Cristo-giudice; nell'imperatore, sacerdote dell'ordine, viene esaltata l'energia dell'uomo cosmocratore, signore dell'universo, ma questa energia viene esaltata solo in lui, arbitro supremo.

Per K. Federico II rappresenta una svolta epocale nella storia politica dell'Occidente cristiano, dal momento che crea un diritto pubblico dello stato che salda insieme l'eredità romana e la dottrina della Chiesa, attraverso un'innumerevole serie di calchi, prestiti e chiasmi dalla teologia al diritto. Egli rappresenta quindi uno dei punti nodali di quel secolare processo di sacralizzazione del potere laico che, di lì a qualche secolo, sarebbe culminato nel culto dell'onnipotenza e della sacralità della nazione. La metafora che domina le Constitutiones Augustales, le Costituzioni emanate a Melfi nel 1231, è che dall'imperatore, immagine di Dio sulla terra e fonte del diritto, la giustizia fluisce copiosa per lo stato in tutto il Regno. Trasponendo in ambito imperiale la dottrina della plenitudo potestatis su cui Innocenzo III aveva edificato la solida struttura della gerarchia ecclesiastica, Federico offre al mondo l'immagine di un "imperatore che dispensa Dio ai suoi sudditi, in forma di leggi e norme, attraverso i suoi giudici e i suoi giuristi", come "il papa e i sacerdoti dispensano Dio ai credenti sotto forma di grazia, nei misteri e nei miracoli" (ibid., pp. 213 s.). K. vede nel XIII sec. il ridestarsi del pensiero razionale e della libertà di coscienza individuale, gli albori di un sentimento nazionale, e ritrova questi momenti nelle teorie dello stato elaborate dai legisti. Attraverso la loro opera, in "un vertiginoso sincretismo mimetico" (Valensise, 1989, p. 201), si elabora quella teoria medievale della sovranità su cui K. tornerà nelle opere del periodo americano, ricostruendo con dottrina duttile ed enciclopedica il modo in cui il nuovo pensiero razionale favorisce l'emergere di una concezione dello stato impersonale, concepito come corporazione immortale, congiunta e al tempo stesso separata dal suo rappresentante mortale. Federico II rappresenterebbe dunque uno dei cardini di quel "processo di secolarizzazione" che già Max Weber ed Ernst Troeltsch avevano individuato come uno dei tratti salienti della modernità, e che giuristi come Carl Schmitt e, più di recente, Ernst-Wolfgang Böckenförde hanno riconosciuto come premessa peculiare e caratterizzante per la formazione del moderno stato occidentale. Tuttavia, se costoro non sempre seppero sfuggire al rischio di proporre una versione lineare della secolarizzazione, al punto che talora a buon diritto si è potuta imputare loro la formulazione di una filosofia della storia camuffata, K., dalle sue pagine, lascia invece emergere vividamente la straordinaria complessità di un processo tutt'altro che teleologico, mostrando come il conflitto tra i due poteri non conduca a una netta e immediata differenziazione tra loro, quanto piuttosto a un interscambio istituzionale e simbolico, in cui l'uno tende ad assimilare le prerogative e le sembianze dell'altro, così che la Chiesa assume i caratteri della centralizzazione e della razionalizzazione burocratica, mentre lo 'stato' incrementa le proprie caratteristiche sacrali e ritualizza le proprie procedure.

In questa sede non è possibile dilungarsi oltre nella presentazione del Federico II. È però opportuno ribadire, ancora una volta, come in K. la visione della storia e dei compiti dello storico finisse, inevitabilmente, col riflettersi sulla tipologia delle fonti di cui egli fece uso. Diversamente dai medievisti del tempo, che privilegiavano le fonti diplomatiche a scapito di quelle cronachistiche, ritenute inquinanti perché soggettive, K. aveva affinato le sue duttili capacità di lettura delle più disparate fonti ‒ diplomatiche, giuridiche, cronachistiche, letterarie, iconografiche e architettoniche ‒ grazie alla dimestichezza con gli storici dell'antichità e con quelli della cultura della seconda metà del XIX sec., che erano soliti servirsi di ogni sorta di documentazione per ricostruire la vita di un'epoca e di un personaggio nella loro intrinseca correlazione. È evidente che una concezione come la sua, così fortemente innovativa rispetto alle consuetudini di ricerca di moltissimi storici tedeschi del tempo, non potesse non suscitare malintesi, forti ostilità e ostracismi. Emblematica fu la reazione di Albert Brackmann, che nel corso di una polemica dai toni assai aspri denunciò sulle pagine della "Historische Zeitschrift" la filiazione intellettuale dell'opera dal cenacolo di Stefan George, additando in essa l'avvento di una concezione storiografica contraria alla pura determinazione dei fatti e protesa invece all'esaltazione delle grandi ed eroiche personalità del presente e del passato; sostenne inoltre che K. non avrebbe dovuto lasciar tanto spazio al racconto di saghe e leggende fiorite intorno a Federico, perché, a suo dire, nella rievocazione dell'immaginario è insito il pericolo di oscurare la figura reale dell'imperatore. Non meno eloquente fu però anche la posizione assunta da Karl Hampe, nei primi decenni del Novecento tra i più autorevoli studiosi di temi fridericiani. Egli, pur nell'intento di difendere la scientificità di un'opera che i più definivano dispregiativamente letteraria, voleva che i due piani del di-scorso ‒ quello 'scientifico' e fattuale e quello della fantasia e delle rappresentazioni ‒ andassero scrupolosamente distinti e persino trattati in sedi diverse. Finanche Friedrich Baethgen, legato a K. da una lunga e amichevole frequentazione, non mancò di osservare nella sua recensione all'opera che l'autore, dedicando tanta attenzione all'immaginario e alle ideologie diffuse nei circoli imperiali, si era esposto "al pericolo di scambiare la rivendicazione per la realtà e il gesto per l'azione" ‒ un rilievo, il suo, solo in parte attenuato dalla denuncia del possibile impoverimento che sarebbe venuto alla storia dal suo esclusivo concentrarsi sull'accertamento dei 'fatti', tralasciando ogni tentativo di 'attualizzazione' del passato, eludendo il bisogno avvertito da ogni generazione "di elaborare con i mezzi disponibili una propria immagine della storia" e lasciando i più giovani in balia di dilettanti in vena di facili sintesi (F. Baethgen, Besprechung von Ernst Kantorowicz' "Kaiser Friedrich der Zweite", "Deu-tsche Literaturzeitung", 51, 1930, coll. 75-85, ora in Stupor mundi. Zur Geschichte Friedrichs II. von Hohenstaufen, a cura di G. Wolf, Darmstadt 1966, pp. 49-61, in partic. p. 59).

Anche se l'apprezzamento per il Federico II, imperatore fu tra i medievisti tedeschi tutt'altro che unanime, K., nel 1930, venne chiamato a insegnare storia medievale all'Università di Francoforte sul Meno, soprattutto grazie al sostegno di filologi classici e storici delle religioni come Karl Reinhardt e Walter F. Otto, entrambi ammiratori di Nietzsche e di George. Due anni dopo, nel 1932, egli divenne a Francoforte professore ordinario ‒ e tale riconoscimento giunse, felicemente, nel momento in cui i rovesci finanziari della sua famiglia stavano per privarlo della possibilità di continuare a dedicarsi agli studi con mente sgombra da preoccupazioni materiali. Egli poté però esercitare il suo magistero solo per un semestre, giacché nell'aprile 1933 una legge nazista impose a tutti i docenti ebrei o di origine ebrea di ritirarsi dall'insegnamento, a meno che non avessero combattuto 'per la patria' durante la prima guerra mondiale, oppure contro gli 'spartakisti', nell'immediato dopoguerra. K., pur potendo avvalersi di questa clausola, sospese polemicamente l'insegnamento, perché si sentì ferito nella persona e nei valori da una norma ottusamente antisemita, che per di più sembrava snaturare in servile opportunismo ogni sua dichiarazione di fede nella nazione tedesca. Alcuni mesi dopo, nel novembre 1933, per contrastare il clima di intimidazione e di violenza sempre più diffuso nelle università, riprese le lezioni e denunciò coraggiosamente, nella prolusione dedicata alla "Germania segreta", i recenti tentativi di assimilare i valori "eterni" della cultura tedesca ed europea alle dozzinali misticherie della Germania hitleriana. Nelle settimane seguenti studenti in divisa delle Sturmabteilungen presidiarono l'aula, e il prorettore, per 'preservare la quiete' all'interno dell'ateneo, invitò K. a sospendere il corso. Nell'agosto 1934, quando fu chiamato a giurare fedeltà a Hitler, egli rifiutò e scelse di ritirarsi in pensione, a soli trentanove anni.

Tuttavia, non abbandonò la Germania, per quanto la permanenza nel suo paese fosse per lui divenuta oltremodo penosa. Fino al 1938 visse prevalentemente a Berlino, anche se fu più volte in Italia e in Inghilterra, a Bruxelles e a Parigi, per esigenze di studio e di ricerca, per conferenze e brevi incarichi di insegnamento. In questi anni si spense però del tutto il suo fervore nazionalista: se in passato era stato incline a ritenere che l'appartenenza a un gruppo etnico e alle sue tradizioni rappresentasse un valore costitutivo per l'esistenza, ora tutt'al più considerava, con Herder, la nazionalità come portatrice concreta dell'universale-umano. Se nel Federico II, imperatore egli aveva fatto del sovrano svevo il simbolo dell'indifferibile rinnovamento spirituale della Germania weimariana, sublimando le pratiche conoscitive della ricerca storica nella narrazione delle imprese gloriose di un popolo e di un suo eroe, ora prendeva in lui il sopravvento l'inclinazione all'indagine analitica delle trasformazioni di concetti, immagini e simboli, soprattutto della regalità, in una prospettiva di lungo periodo che abbracciava Oriente e Occidente, antichità, Medioevo ed età moderna. E a poco a poco cambiò anche il suo stile: lo stilus su-blimis, adatto secondo Cicerone, Quintiliano e Dante a trattare materie 'gravi', cede infatti il passo al genus medium, non solo perché più idoneo a sviluppare temi che difficilmente gli antichi retori avrebbero definito 'elevati', ma anche perché le mutate condizioni politiche della Germania, col loro seguito di conflitti, di profonde lacerazioni e di drammi personali, avevano esaurito in K. l'impulso a fondare l'unità del mondo nella parola. Se la scrittura epica è sempre la rappresentazione di un mondo integro e significativo in ogni particolare, retto da immutabili codici di comportamento e ordini di valori, governato da un'armonia totale che nessuna tragedia e nessuna morte potrebbero mai incrinare, quel che era accaduto e accadeva in Germania dopo il 1933 rivelava crudamente a K. che la continuità della vita e del racconto che la tramanda si è ormai spezzata, che le fratture e le discontinuità segnano profondamente la storia, che la banalità del male rende stridente qualsiasi tentativo di ricondurla a un'armoniosa unità di significato. Il 'grande stile' appare ormai inadeguato a rappresentarla ‒ quel 'grande stile' che per Schiller era l'arte di dire il tipico e il generale, arginando la disgregazione della vita nell'accidentalità del fortuito. In K. diviene perciò preponderante la tendenza a eleggere come destinatari della sua opera gli storici di professione ‒ un orientamento che del resto già affiora nel secondo tomo del Federico II (Ergänzungsband), con i suoi ricchissimi apparati paratestuali e i suoi excursus. Nelle sue pagine s'infittiscono perciò i richiami e le allusioni dotte, e soprattutto si affaccia l'ironia, che misura la distanza tra la vita e la sua rappresentazione; anzi, a poco a poco, l'atteggiamento di lieve e sereno distacco e, al tempo stesso, di profonda comprensione per le idee, le rappresentazioni e le vicende degli uomini del passato diviene la cifra caratteristica della sua scrittura.

Strappato al suo mondo, K. muta perciò, a poco a poco, anche il suo modo di guardare al passato, e accetta di muoversi nello spazio incerto e frammentario di una molteplicità di significazioni variamente stratificatesi nel tempo, senza presumere di poterle trascendere trasformandole in simboli dalla valenza universale, consapevole dell'inevitabile parzialità di ogni indagine storica. Se resta costante il suo metodo di lavoro, basato sulla scrupolosa disamina delle fonti; se non viene meno la sua attenzione per alcuni nodi tematici e problematici, come il rapporto tra Occidente e Oriente, tra antichità e Medioevo, tra sacralità e sovranità, tuttavia, nel corso degli anni Trenta, egli prende definitivamente atto che simboli e immagini sono tracce dell'appartenenza dell'uomo al mondo della vita e che lo storico può solo ripercorrere la trama delle innumerevoli variazioni e dei trasferimenti cui esse andarono incontro nei diversi momenti e luoghi della storia, in relazione con la religione e il mito, con la poesia e la scienza, con la vita politica e sociale, senza tralasciare le effettive condizioni di trasmissione di un tema o di un'idea. È questo il periodo in cui egli si avvicina anche al gruppo di studiosi ed esuli che si raccoglievano nella biblioteca dell'Istituto Warburg, a Londra, al punto da stampare con loro due articoli, di lì a pochi anni, e da concordare con l'allora direttore Fritz Saxl la pubblicazione di un volume, mai completato, intitolato Studi di liturgia politica.

Che la sua visione della storia e dei compiti dello storico abbia subito proprio dagli anni Trenta una duratura trasformazione si evince anche dal modo in cui ritorna nei suoi lavori la figura di Federico II: il sovrano dominatore è relegato sullo sfondo mentre viene data enfasi alla discussione delle fonti e della letteratura, al dibattito dottrinale e giuridico, alla storia della tradizione. È quanto accade, ad esempio, nell'articolo Pier della Vigna in Inghilterra (Petrus de Vinea in England), apparso in Austria nel 1937, un anno prima dell'Anschluss che avrebbe reso per lui impossibile pubblicare anche in questo paese: il saggio è dedicato alla notevole fortuna fino agli anni Ottanta del XIII sec., nelle cancellerie europee ‒ più contenuta e soprattutto più tarda, secondo K., in quella inglese ‒, dello stilus grandiloquus introdotto da Pier della Vigna nella cancelleria imperiale e siciliana. Lo stesso orientamento si manifesta anche nei lavori dei decenni seguenti, come L'imperatore Federico II e l'immagine ellenistica della regalità (Kaiser Friedrich II. und das Königsbild des Hellenismus, 1952), in cui vengono ricostruite le influenze che sull'idea medievale della regalità ebbero l'ideale regio e le teorie dello stato proprie dell'ellenismo, attraverso la tarda antichità e l'Impero di Bisanzio fino alla corte di Federico II; analoghe tendenze sono presenti nel saggio I fondamenti giuridici della saga dell'imperatore (Zu den Rechtsgrundlagen der Kaisersage, 1952), in cui, dall'esame filologico dei cosiddetti testamenti di Federico II, K. trae utili indicazioni per far luce sulle origini della saga dell'imperatore che, secondo il detto della sibilla eritrea, vivit et non vivit. Non diversamente il suo Invocatio nominis Imperatoris (1955) prende le mosse da alcuni versi del Contrasto di Cielo d'Alcamo per ricostruire le origini e il significato dell'istituto giuridico della defensa, l'invocazione del nome dell'imperatore a difesa della propria persona, della propria famiglia e dei propri beni, a partire dall'Egitto della dinastia dei Tolomei attraverso la Roma del basso Impero e poi Bisanzio fino al Liber Augustalis di Federico II, in stretta connessione con la storia del concetto di ubiquitas imperiale.

Nel 1938, quando la sua sopravvivenza in Germania era ormai divenuta impossibile, K. abbandonò definitivamente il paese, per trasferirsi prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, dove ottenne un incarico di insegnamento all'Università di Berkeley, in California. Sua madre e sua cugina, Gertrud, la celebre storica dell'arte compagna di Georg Simmel, non riuscirono invece a mettersi in salvo e morirono nel campo di sterminio di Theresienstadt. A Berkeley K. riuscì a raccogliere intorno a sé un gruppo di allievi (da Ralph E. Giesey a Robert Benson) che avrebbero continuato a coltivare i suoi interessi di ricerca anche dopo la sua morte. Il clima sereno di questi anni fu bruscamente interrotto nel 1949, quando, in piena isteria maccartista, venne chiesto ai docenti universitari di firmare il giuramento di fedeltà anticomunista. K. criticò aspramente, prima davanti al senato accademico, poi in un pamphlet intitolato The Fundamental Issue, una di-sposizione che gli sembrava minare il principio di libertà di insegnamento, usando toni e argomenti non dissimili da quelli cui era ricorso quindici anni prima, in Germania, per protestare contro la proscrizione dei docenti ebrei. Diede così inizio a una disputa legale con l'Università di California, che si sarebbe conclusa vittoriosamente per lui e i suoi colleghi, anni dopo, quando ormai egli aveva già abbandonato Berkeley per trasferirsi, nel 1951, all'Institute for Advanced Study di Princeton, dove rimase fino alla morte, il 9 settembre 1963.

Quando nel 1938 K. lasciò per sempre la Germania portava con sé il manoscritto di un'opera già compiuta che sarebbe apparsa solo nel 1946, da lui stesso tradotta in altra lingua: Laudes Regiae. Studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto dei sovrani medievali (Laudes Regiae. A Study in Liturgical Acclamations and Mediaeval Ruler Worship). In questo libro, che "prende le mosse da una ricerca sulla leggenda delle bullae d'oro siciliane di Federico II" (Kantorowicz, 1946, p. X), veniva per la prima volta riconosciuta, in ampia prospettiva storica, l'importanza fondamentale della liturgia per la comprensione del regno medievale e del Medioevo tout court.

L'opera può essere, a buon diritto, considerata un raffinato pendant agli studi sugli Ordines che Percy E. Schramm andava conducendo negli stessi anni. K. seppe inoltre guadagnare al volume il contributo del musicologo Manfred F. Bukofzer, che mise in luce come le evidenze musicali potessero rappresentare una preziosa fonte per lo storico. Se l'esistenza di canti liturgici in onore dei sovrani era già nota, ad esempio per l'incoronazione a imperatore di Carlomagno, K. ne ricostruiva le vicende nella loro interezza, seguendone le tracce fin nell'antichità e legando le loro origini alla fusione di formule tardoromane con elementi anglo-irlandesi, mostrando come durante il regno di Pipino o, al più tardi, nei primi anni di Carlomagno giungessero a compimento quale espressione dell'idea franca del sacerdozio regale, secondo cui il sovrano rappresentava l'immagine terrena di Cristo, signore dell'universo. Poi ne seguiva gli sviluppi nella Curia romana, nei Regni normanni di Sicilia, Normandia e Inghilterra, in Dalmazia e nelle colonie veneziane, sino alla loro tarda, inquietante risonanza in un inno dell'Italia fascista, "in modo così esaustivo che su questo tema resta ben poco da aggiungere" (P.E. Schramm, recensione ai Selected Studies, "Erasmus", 18, 1966, p. 451). Nella Prefazione egli richiama alcuni principi basilari che permeano tutta la sua produzione storiografica e ispirano la sua visione della civiltà occidentale: egli sottolinea infatti il profondo legame del sentimento religioso occidentale, fino al XIII sec., con i culti della tarda antichità, e dichiara l'impossibilità di poter comprendere la storia politica e culturale non solo dell'antichità ma anche del Medioevo "senza una profonda conoscenza dei culti e degli usi religiosi". Il medievista, non diversamente dall'antichista, dovrà perciò essere "egli stesso il 'teologo' e lo 'storico della chiesa' del periodo che studia", non lasciandosi irretire da partizioni legate alla divisione dei saperi e degli ambiti disciplinari proprie dell'età moderna e del mondo contemporaneo, giacché "i problemi della modernità sono lontanissimi dai culti degli dei, dai riti religiosi e dalle funzioni liturgiche" (Kantorowicz, 1946, p. VII).

Se le Laudes trattano prevalentemente dell'Alto Medioevo, quando forte era il culto del rex-sacerdos, The King's Two Bodies si inoltra dall'Alto al Basso Medioevo. Quest'opera, iniziata nei tardi anni Quaranta all'Università di Berkeley e, in seguito alle note controversie del loyalty oath, portata a compimento solo nel clima libero da preoccupazioni materiali dell'Institute for Advanced Study di Princeton, fu sollecitata dalla conversazione con studiosi di chiara fama, come Max Radin, Erwin Panofsky, Andreas Alföldi, Kurt Weitzmann, Theodor E. Mommsen, Harold Cherniss, Leonardo Olschki.

Che essa non soddisfi l'ambizione di aver risolto il problema che Ernst Cassirer aveva definito del "mito dello stato" è dichiarazione autentica di K., che sui suoi paradigmi culturali è molto più eloquente di quanto non si sia voluto vedere. Del resto, l'importanza del concetto di forma simbolica, centrale nella filosofia di Cassirer, era stata subito riconosciuta da uno dei più assidui interlocutori di K. in questi anni, Panofsky, che se ne servì per la storia dell'arte già nel suo celebre saggio sulla Prospettiva come forma simbolica (1927). Come è noto, secondo Cassirer il nucleo essenziale del kantismo va colto nel trapasso dalla conoscenza tradizionalmente intesa alla "conoscenza trascendentale", che non si occupa più di oggetti, ma del modo di conoscerli, delle condizioni di possibilità a priori dell'esperienza che stabiliscono tra tali fenomeni la "relazione funzionale". Con la prevalenza del concetto di funzione, si determina altresì in Cassirer il riconoscimento del valore del segno; in tal modo, appare decisiva la funzione costitutiva del linguaggio rispetto agli oggetti di cui la scienza si occupa. Già nella Filosofia delle forme simboliche (1923-1929) Cassirer non si era però limitato a indagare le condizioni di possibilità della sola conoscenza scientifica, ma aveva incluso tra le forme fondamentali della comprensione del mondo tutte quelle sfere della cultura (linguaggio, mito, religione, arte, ecc.) che egli sussumeva, pur riconoscendone le differenze peculiari, sotto il concetto onnicomprensivo di forma simbolica. Se Cassirer, sulla base delle sue riflessioni teoriche, aveva individuato nel Mito dello stato soprattutto la patologia dello stato moderno, in una ricostruzione che con chiarezza e rigore va da Platone fino a Carlyle e a Gobineau, K. ne evidenzia piuttosto la fisiologia, lasciandone intravedere, sulla base di alcuni indicatori (corona, dignità, patria, ecc.), la genesi, lo sviluppo, l'acquisizione di funzioni, la sua ragion d'essere in rapporto alle grandi trasformazioni e alle crisi che condussero alle forme moderne di rappresentazione e di organizzazione del sociale.

Diversamente dal Marc Bloch dei Re taumaturghi (1924) che ricostruiva, con sensibilità antropologica per le "rappresentazioni collettive", il carattere sacrale delle antiche monarchie europee, K. inventaria cronologicamente quei materiali della cultura dotta che ne costituiscono i fondamenti simbolici. La sua opera rivela già nell'impianto della ricerca le ragioni della sua vitalità anche al di fuori della cerchia degli specialisti: il ricorso a una documentazione di-spersa e svariatissima, dai trattati teologici ed ecclesiologici a quelli giuridici e politici, dagli atti amministrativi alla numismatica, dalle fonti letterarie e cronachistiche alle rappresentazioni iconografiche.

Partendo dalla finzione giuridica del corpo doppio del re, enunciata nell'Inghilterra del XVI sec. allo scopo di porre al riparo i diritti della Corona e dello stato dalle pretese di poteri e istituzioni particolari, K. conduce il lettore attraverso i diversi strati ideologici che si erano coagulati in questa teoria. Affronta, attraverso l'archeologia del concetto di incarnazione monarchica, su un arco cronologico che dall'Alto Medioevo giunge al Rinascimento, il modo in cui il pensiero giuridico e politico tardomedievale giunse a concepire l'immortalità della monarchia di là dalla persona mortale in cui si incarna, fornendo così la genealogia della distinzione tra la funzione pubblica e la persona che l'esercita, cardine su cui avverrà il passaggio da una concezione dell'autorità incarnata nel suo titolare all'idea di un potere impersonale, a cui il titolare accede per temporanea delega collettiva.

Uno degli snodi di questo processo plurisecolare è costituito dall'imperiale "teologia di governo" di Federico II, che per quanto "pervasa dal pensiero ecclesiastico, contaminata dalla terminologia canonistica e infusa d'un linguaggio quasi cristologico per esprimere gli arcani del governo", non dipendeva più dall'idea altomedievale di una regalità "cristocentrica", basata cioè sulla credenza che il re, attraverso la consacrazione, divenisse vicario e "imitatore" del Cristo vivente. Il sovrano svevo e soprattutto i suoi consiglieri giuridici derivavano invece la funzione duale dell'imperatore quale "signore e ministro della giustizia" (Kantorowicz, 1957, pp. 97 ss.; trad. it. pp. 84 ss.) dal diritto romano, dalla tradizione della lex regia, aprendo la strada alla distinzione tra Impero e imperatore, già suggerita da Accursio e poi sostenuta più recisamente da Cino da Pistoia.

È proprio nell'acutezza delle analisi e nell'ampiezza euristica, nella straordinaria capacità di K. di restituire, ricorrendo a fonti straordinariamente disparate, la complessità concettuale del processo storico che segnò il passaggio da un'idea della sovranità secondo cui un individuo rappresenta un essere collettivo a quella secondo cui un essere collettivo rappresenta degli individui, che vanno ricercate le ragioni della sua recente fortuna tra un pubblico non di soli medievisti: nell'opera è possibile cogliere non solo le origini della moderna concezione dello stato occidentale, ma anche individuare a livello embrionale le diverse modalità di evoluzione che essa ha subito nei vari paesi d'Europa.

Il nucleo germinativo dell'opera, la sua ragion d'essere, non va tuttavia cercato nell'interesse per lo stato, ma per gli uomini mortali che elaborarono "la credenza politica nello Stato moderno e nel suo carattere perpetuo" (ibid., passim). K. ha fondato la sua inesausta ricerca della dignitas perpetua, che "non muore mai", in tutte le sue manifestazioni nell'universo mentale del Medioevo, muovendo da un ideale umanistico: il corpo mistico del re, che simboleggia la sovranità dello stato, è congiunto a un ideale di optimus homo, simboleggiante a sua volta la sovranità individuale, l'humanitas, la dignità stessa dell'essere uomo che accompagna, come un corpo mistico perenne, ogni singolo individuo, e che fa del principe, proprio perché appartenente all'humana universitas, un homo instrumentum humanitatis. Questa concezione della politica e della responsabilità di chi detiene un ufficio politico K. la ritrova, in un capitolo di straordinaria ispirazione, come categoria fondante dell'umanesimo medievale di Dante. Agli antipodi di quella "orribile esperienza del nostro tempo in cui intere nazioni, dalle più piccole alle più grandi, caddero preda dei dogmi più irrazionali e in cui i teologismi politici divennero autentiche ossessioni che sfidarono i più elementari principî della ragione umana e politica" (ibid., p. XVIII; trad. it. p. XXX), l'idea dantesca di humanitas potrebbe far risuonare la sua eco anche nel nostro presente. È questo un aspetto non secondario del lascito spirituale di K., ancora valido per tutti coloro che vogliono leggere e pensare, vivere e agire in accordo con il proprio pensiero.

Fonti e Bibl.: opere di K.: Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931 (trad. it. Federico II, imperatore, Milano 1976); Laudes Regiae. A Study in Liturgical Acclamations and Medi-aeval Ruler Worship, Berkeley 1946; The Fundamental Issue. Documents and Marginal Notes on the University of California Loyalty Oath, ivi 1950; The King's Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton, NJ 1957 (trad. it. I due corpi del Re. L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989); Selected Studies, Locust Valley, NY 1965 (il volume contiene la bibliografia completa degli scritti di K.); sette saggi di K. sono poi tradotti in italiano, a cura di M. Ghelardi, in La sovranità dell'artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia 1995. E. Grünewald, Ernst Kantorowicz und Stefan George. Beiträge zur Biographie des Historikers bis zum Jahre 1938 und zu seinem Jugendwerk 'Kaiser Friedrich der Zweite', Wiesbaden 1982; R.E. Giesey, Ernst H. Kantorowicz. Scholarly Triumphs and Academic Travails in Weimar Germany and the United States, "Yearbook of the Leo Baeck Institute", 30, 1985, pp. 191-202; M. Valensise, Ernst Kantorowicz, "Rivista Storica Italiana", 101, 1989, pp. 195-221; R.E. Lerner, Ernst Kantorowicz and Theodor E. Mommsen, in An Interrupted Past. German-Speaking Refugee Historians in the United States after 1933, a cura di H. Lehmann-J.J. Sheehan, New York 1991, pp. 188-205; A. Boureau, Histoires d'un historien. Kantorowicz, Paris 1992 (è preferibile la trad. ted. Kantorowicz. Geschichten eines Historikers, Stuttgart 1992, con Nachwort di R. Delle Donne); R.E. Lerner, Ernst H. Kantorowicz (1895-1963), in Medieval Scholarship. Biographical Studies on the Formation of a Discipline, I, History, a cura di H. Damico-J.B. Zavadil, New York-London 1995, pp. 263-276; R. Delle Donne, Kantorowicz e la sua opera su Federico II nella ricerca moderna, in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 67-86; Ernst Kantorowicz. Erträge der Doppeltagung, a cura di R.L. Benson-J. Fried, Stuttgart 1997; Geschichtskörper. Zur Aktualität von Ernst H. Kantorowicz, a cura di W. Ernst-C. Vismann, München 1998; Ernst Kantorowicz (1895-1963). Soziales Milieu und wissenschaftliche Relevanz, a cura di J. Strzelczyk, Poznan 20002; K. Schiller, Gelehrte Gegenwelten. Über humanistische Leitbilder im 20. Jahrhundert, Frankfurt a.M. 2000; R. Delle Donne, 'Historisches Bild' e signoria del presente. Il 'Federico II imperatore' di Ernst Kantorowicz, in Le storie e la memoria. In onore di Arnold Esch, a cura di Id.-A. Zorzi, Firenze 2002, pp. 295-352.

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