ESCHILO

Enciclopedia Italiana (1932)

ESCHILO (Αἰσχύλος, Aeschylus)

Giorgio Pasquali

Tragico ateniese, figlio di Euforione, del demo di Eleusi. Della vita sua, come di quella di ogni altra personalità letteraria del sec. V a. C., sappiamo ben poco di sicuro. L'epigramma funebre, composto o da lui stesso o subito dopo la sua morte, testimonia che egli aveva combattuto valorosamente a Maratona (490); colà suo fratello Cinegiro cadde con la mano mozzata da una scure, mentre tratteneva a riva una nave persiana. Da passi delle sue tragedie conservate ricaviamo con sicurezza che egli prese parte a spedizioni in Tracia: dunque fu a lungo soldato in guerra contro i Persiani. È dubbio se sia documentaria la data della nascita (525-24): probabilmente essa risale a un cronografo, che identificò la sua ἀκμή, il suo massimo fiore, con Maratona, e collocò questa ἀκμή nel trentacinquesimo anno. Notizia documentaria può essere invece ch'egli prese parte per la prima volta a un concorso tragico tra il 499 e il 496; è certo ch'egli ottenne il primo premio solo nel 484. Delle sette tragedie di lui conservate sono datate documentariamente (dalle didascalie) non meno di cinque: i Persiani (472), i Sette a Tebe (467) e la trilogia che sogliamo chiamare Orestea (458). Sappiamo che, invitato da Gerone, si recò a Siracusa e celebrò in una tragedia, Αἶτναι (Aetnae), la nuova città di Αἴτνη (Aetna), fondata dal re: questo viaggio sarà all'incirca contemporaneo alla prima Pitica di Pindaro per la medesima città, del 470. E, se ben presto era di nuovo in Atene (ché i drammi sono in questa prima età della loro storia recitati o almeno messi in scena dal poeta stesso), in Sicilia ritornò e colà chiuse la vita: morì a Gela nel 456-55. Una leggenda secondo la quale sarebbe stato ucciso da una testuggine che una aquila gli aveva lasciato cadere sul capo calvo non ha valore neppure di simbolo, e porta evidente la marca di fabbrica della biografia peripatetica: essa sarà invenzione di Ermippo di Smirne (v.). A un processo per un'empietà involontaria, ch'egli avrebbe commesso divulgando senz'intenzione certi riti dei misteri eleusini, alludono già Aristotele ed Eraclide Pontico, e tuttavia è probabile, poiché il più antico testimonio, Aristofane, non ne sa nulla, che anche questa sia invenzione.

Secondo una tradizione grammaticale, ch'è tuttavia incerta, E. avrebbe scritto novanta tragedie: l'edizione antica, che è giunta a noi attraverso i codici bizantini, contiene un catalogo di 72 numeri, e ci conserva sette tragedie: se le disponiamo nel loro ordine cronologico, che solo per due di esse (v. sopra) è presuntivo, esse sono: Supplici (‛Ικέτιδες) o Danaidi (Δαναΐδες), Persiani (Πέρσαι), Sette a Tebe (meglio contro Tebe: ‛Επτὰ ἐπὶ Θήβας) Prometeo legato (Προμηϑεὺς δεσμώτης) e la trilogia dell'Orestea ('Ορέστεια: l'estensione del nome, adoprato da Aristofane per il secondo dramma, a tutta la trilogia è moderna ma comoda): Agamennone ('Αγαμέμνων), Coefore (Χοηϕόροι, le portatrici di libazioni), Eumenidi (Εὐμενίδες). Che le Supplici siano la tragedia più antica, è certo, ed è anche sicuro che un lungo intervallo la divide dalla seguente: dubbia solo la posizione del Prometeo, così come questa tragedia è di tutte la più enigmatica, e ne è contestata persino l'autenticità.

Le Supplici erano il primo dramma della trilogia: le Danaidi si sono rifugiate dall'Egitto nella patria degli avi, Argo, per sfuggire alle nozze forzate con i cugini, figli del re Egitto. Il re Pelasgo, d'accordo con la propria città, le accoglie e ricusa di renderle all'araldo dei cugini, che minaccia guerra. Il conflitto si risolveva solo nel secondo dramma. I Persiani (del 472) cantano il ritorno in patria di Serse sconfitto a Salamina: questa è l'unica tragedia conservata che tratti un argomento non leggendario ma preso dalla storia contemporanea. A questa audacia E. fu forse indotto dal desiderio di emulare la Presa di Mileto di Frinico, se questa, come pare ancor certo, è anteriore. Qui le altre tragedie della trilogia (della quale i Persiani erano la seconda), il Fineo e il Glauco di Potnia, non erano congiunte né con essa né tra, loro né con il dramma satirico, che prendeva il nome da Prometeo. I Sette a Tebe (del 467) sono invece il terzo dramma di una trilogia collegata da unità di argomento, Laio, Edipo, Sette (anche il dramma satirico era tratto dalla leggenda tebana: la Sfinge: v. edipo). Nei Sette a Tebe è trattata la vittoria di Tebe contro gli assedianti e il tragico duello dei fratelli Eteocle e Polinice. Il Prometeo legato rappresenta l'incatenamento dell'eroe a una roccia in Scizia e il suo contegno, nonostante i conforti di creature divine benevole, sempre più ribelle contro Zeus, finché questi adirato non inabissa la roccia e il peccatore sotto terra. La trilogia (del 458) rappresenta l'uccisione di Agamennone per mano della moglie Clitennestra, la vendetta del figliolo Oreste, divenuto pubere, sulla madre e il drudo Egisto, la sua assoluzione dinanzi all'Areopago e la riconciliazione delle Erinni, che lo perseguitavano, divenute d'ora in poi divinità benigne ad Atene, Eumenidi. La tradizione è ristrettissima, gli scolî utili e assennati, ma esigui; due tragedie, Coefore e Supplici, sono tramandate in un solo codice, per ragioni diverse mutile l'una e l'altra. E. è stato sul punto di perdersi. Questo non meraviglia: Aristofane inventa nelle Rane un agone nell'Ade nel quale Eschilo riesce vincitore sull'idolo del tempo nuovo, Euripide; ma le osservazioni che Aristofane mette in bocca al suo Euripide e la parodia dello stile eschileo mostrano che già cinquant'anni dopo la morte del tragico la sua arte era sentita anche dai suoi ammiratori più intelligenti quale arcaica. Citazioni da E. sono nell'antichità classica rarissime (quindi la scarsità dei frammenti) e divengono con il tempo sempre più rare. Le scoperte dei papiri non ci hanno reso altro che un monologo di Europa. Già per Aristotele stesso egli è il fondatore della tragedia, ma non più un artista presente alla coscienza estetica e culturale contemporanea. E. è stato riscoperto nella prima metà del sec. XIX, piuttosto che dai filologi di professione, dai romantici tedeschi, più alto di tutti il suo traduttore Guglielmo di Humboldt. Anzi, egli ha conquistato i filologi lentamente, e nella più vecchia generazione la sua grandezza non pare ancora riconosciuta, il suo spirito pare ancora incompreso. Oggi non vi è autore antico che sia studiato con tanto interesse e tanta profondità, specie in Germania e in Italia; quindi l'infinita estensione della bibliografia.

E. è secondo Aristotele colui che "portò il numero degli attori da uno a due e diminuì le parti del coro e rese il dialogo primo attore". Ma nella più antica tragedia conservata, le Supplici, se la prima innovazione, ch'è la più importante, è già compiuta, il coro delle cinquanta figlie di Danao (solo più tardi il numero dei coreuti si riduce a dodici) è ancor sempre il primo attore; gli attori propriamente detti sono poco più che "risponditori", come suona la parola greca (ὑποκριταί). Questa tragedia può essere anteriore persino a Maratona; ché essa è arcaica quasi per ogni verso: se non appaiono più, come pure è stato sostenuto, tracce di quella comicità che la tragedia primitiva avrebbe dovuto ereditare dalle sue origini satiresche, arcaiche sono le forme metriche delle parti liriche: E. non compone ancora strofe complesse, come p. es. nell'Agamennone. Manca, come ancora nei Persiani, un prologo, cioè una scena preliminare, espositiva, anteriore all'entrata del coro. La poesia della tragedia consiste nel carattere del coro, "nella sua asprezza, nella sua religiosità, nel suo odio violento degli uomini, nelle sue angoscie di povera bestia inseguita" (Perrotta). Ma non già che questo carattere sia esente da contraddizioni: anzi si potrebbe dire che la sua unità è soltanto lirica, non psicologica. Le Danaidi sono dipinte talora come viragini nemiche di Afrodite, ma talora anche come fanciulle obbedienti al padre, che si rifiutano al matrimonio con i cugini, non già perché odino l'uomo e l'atto sessuale, ma per obbedienza al padre che a quel matrimonio non consente. Pur tuttavia il primo aspetto prevale: verso la fine delle Supplici, un coretto d'ancelle che esalta la potenza di Afrodite, non lascerebbe dubbio che il poeta vede in quest'avversità all'amore qualche cosa d'eccessivo anzi d'innaturale e quindi di riprovevole, anche se non sapessimo abbastanza sia della leggenda sia del seguito della trilogia per essere sicuri che il poeta vedeva un delitto nell'uccisione dei mariti che le Danaidi, costrette al matrimonio, compiranno nella notte nuziale, tutte meno una. Il carattere del lirismo (se si astrae dalla minore complessità metrica) è affine a quello delle tragedie successive. Già in questo dramma Zeus è esaltato sovra ogni altro dio, tanto che si può dire che già qui il politeismo gerarchico dell'Iliade si avvia a risolversi in una specie di monoteismo. Già nelle Supplici appare quella poesia di terra lontana (qui l'Egitto, sul quale E. è bene informato) che impronterà di sé Persiani e Prometeo.

Alla seconda tragedia, i Persiani, è stata spesso rimproverata mancanza di unità; a torto, se si tien fermo che il legame che unisce le varie parti è costituito dalla rappresentazione della sconfitta persiana: questa è sempre presente, in ogni verso e in ogni parola. La prima parte la presagisce attraverso la parodo, con la quale la tragedia comincia, e attraverso il sogno della regina madre di Serse; la narra per bocca del messo; la fa sentire nell'animo del popolo attraverso il corrotto per i Persiani morti. La seconda parte, per bocca del padre di Serse, Dario, evocato dall'Ade, spiega che la sconfitta è frutto di tracotanza, di mancanza di moderazione, di aver voluto più che gli dei non consentano agli uomini, persino al gran re. La terza ci mette dinnanzi agli occhi il re giovane, che questa tracotanza impersona, fuggitivo e umiliato. Certo, E. è anche qui il combattente di Maratona che si esalta nel pensiero della vittoria assegnata dagli dei al suo piccolo popolo contro la potenza e la prepotenza barbarica, ma è anche il soldato che rispetta l'avversario e sente con lui, il soldato che non ama la guerra, perché la conosce. Qui già si annunziano i primi sintomi di quella disposizione d'animo, si direbbe, pacifista che caratterizza la trilogia e specie l'Agamennone.

I Sette a Tebe sono per Aristofane un "dramma pieno di Ares". Essi sono più: certo i terrori e gli orrori della guerra si rispecchiano con evidenza angosciosa nei canti del coro, composto di vergini della città assediata, Tebe; ed Eteocle è nella prima parte, più che altro, un savio reggitore di popolo e capitano d'esercito. Ma qui per la prima volta E. si è posto il problema delle relazioni tra l'operare e il destino del singolo e le colpe della stirpe. Eteocle e Polinice sono maledetti perché figli di un parricida (sia pure parricida involontario) e nati da nozze incestuose; e pare certo che proprio quest'origine li ha portati a quella colpa, certo personale, non ereditaria, d'irriverenza verso il padre, che ha meritato loro la maledizione. È certo anche, per quanto in questi ultimi tempi sia stato da parecchi sostenuto l'opposto, che Eteocle è trascinato al duello con il fratello Polinice, nel quale ambedue dovranno perire, da una forza irresistibile, contro la miglior coscienza, rappresentata dai consigli del coro. Eteocle parla, sì, di dovere d'onore contro il nemico della patria ancorché fratello, ma con queste parole egli inganna sé stesso. Qui la predestinazione, se tale parola ha un senso per un'età che non ha coscienza filosofica del problema della libertà, è ancora sovrana, se pure da certe parole del coro forse già trasparisce che l'uomo ha una via d'uscita, ch'egli può resistere alla forza che lo spinge a perdizione. Del problema E. tenterà una soluzione più matura nell'Orestea. Nei Sette egli è ormai in grado di caratterizzare; Eteocle ha un carattere, e dipinta brevemente ma efficacemente è l'indole di ciascuno dei Sette nella descrizione delle loro armature e dei loro scudi istoriati, posta in bocca al messo. Il dialogo prevale qui sul coro forse più ancora che in seguito nell'Orestea: la parodo è per la prima volta preceduta da un prologo. Nella tragedia autentica la fine era costituita dalla comune sepoltura di Polinice ed Eteocle; i due fratelli nemici riposeranno nella stessa terra. Ma, quando l'Antigone di Sofocle e le Fenice di Euripide divennero popolari, qualcuno rielaborò la scena per una nuova rappresentazione, introducendo la proibizione della sepoltura per il traditore Polinice. Nell'interpolazione Antigone si oppone come in Sofocle; e, diversamente che in Sofocle, ha subito rpgione dell'autorità legittima e della legge: l'interpolatore è inabile.

La trilogia è contrassegnata dalla complessità del pensiero e dalla molteplicità dei motivi. Di qui si spiega che, benché il dialogo possa ormai procedere più spedito per la novità del terzo attore introdotta secondo Aristotele da Sofocle e accettata da E. qui e già nel Prometeo, le parti liriche tendono di nuovo a estendersi, e si presentano in masse sempre più compatte, contro la tendenza generale dell'evoluzione della tragedia: E. non può esprimere pensieri in qualche misura astratti o almeno generali se non nei cori, non può altrove ragionarli o esporli largamente. Affermando che nell'Orestea il pensiero di E. si presenta più complesso e più profondo che in tutta la produzione precedente, non si nega in alcun modo che la trilogia sia anche l'opera più alta della sua arte. E. è pensatore e profeta, profeta nel senso ch'è profeta Geremia o Ezechiele, ma né filosofo né predicatore, e i suoi pensieri si vestono, almeno fuori dei cori, di forme sensibili, teatrali. Nessuno dimenticherà facilmente Agamennone, che, per non peccare di tracotanza verso la moglie, la quale lo tenta consapevolmente, pecca di tracotanza verso gli dei, incedendo su tappeti di porpora, come non è lecito a mortali ma solo alla divinità. Nessuno dimenticherà Cassandra, che arretra dinanzi al feticcio di pietra che rappresenta Apollo, il dio che l'ha punita, col dono funesto del vaticinio non creduto, della promessa d'amore non mantenuta. E la visione degli orrori commessi nei tetti degli Atridi in un passato non lontano, la visione dell'uccisione del marito che Clitennestra sta per compiere, sta compiendo, non ha pari se non nell'arte di Shakespeare. Ma questo non toglie che ogni figura e ogni azione contenga un problema non soltanto artistico. E tra i motivi di cui dicevamo, uno, per dichiarazione esplicita del poeta, è il più importante: E. non crede più, come i suoi contemporanei, all'invidia degli dei, non crede più che troppa ricchezza, troppa felicità portino necessariamente alla colpa. Egli sa di essere "solo in quest'opinione, in disparte da ogni altro". Ma nella trilogia è accentato più fortemente che nei Sette che nessuno è punito se non di un peccato personale, anche se l'eredità della colpa dispone alla colpa, è tentazione. La volontà è libera, e l'eredità non dispensa dalla responsabilità. Ed E. sa che gli dei perdonano: Oreste, fattosi, in obbedienza a una norma indiscussa e a un vaticinio dell'Apollo delfico ma non senza contrasti violenti con sé medesimo, uccisore della madre, è salvato: le Erinni divengono Eumenidi. È stato spesso osservato che il volo del pensiero etico è più alto nelle due prime tragedie che nelle Eumenidi; ma è stato anche spesso risposto (e di questa risposta bisogna contentarsi) che la tragedia, poiché non può rovesciare la leggenda, cioè abolire i proprî presupposti, conviene da ultimo risbocchi nella storia sacra consacrata. Ai motivi già detti s'intrecciano altri minori: E. odia qui la guerra più apertamente che nelle tragedie precedenti, e addossa intera la colpa della morte dei soldati innocenti ai sovrani ambiziosi, non senza allusioni attuali a conflitti civili ed esterni. Qui più che altrove risuona alta la condanna dell'omicidio, il solo peccato che non abbia rimedio, il solo per cui vige la legge del taglione. E qui i personaggi sono caratterizzati con pienezza d'arte non più arcaica; specie i due personaggi principali, Clitennestra e Oreste, ma anche Agamennone, debole là dove si crede più forte, ingannato dove si crede più prudente. Clitennestra non è, come spesso è stato detto, un mostro. Essa è adultera ed è per necessità finta, ma non è vero che il sacrificio della figlia Ifigenia sia un pretesto messo innanzi a giustificare l'adulterio. Nell'annullamento di una vita, necessario solo per attuare un disegno ambizioso che non è necessario sia attuato (dunque un imperativo ipotetico, non categorico), essa sente la violazione di un diritto alla vita che E. ritiene assoluto, e l'offesa d'un suo diritto sulla figlia. Anche che Agamennone voglia introdurre la concubina Cassandra nel tetto comune, è offesa e delitto, come il poeta fa ben intendere, inventando che Agamennone preghi umilmente la consorte (per dar retta alla quale ha pur dianzi offeso gli dei) di essere benevola verso la nuova schiava. Clitennestra reagisce così perché essa, donna, e nata quindi a ubbidire, ha in sé gl'impeti di un uomo, il che è per vero contro natura. È probabile che E., presentando così Clitennestra, voglia rispondere a una domanda formulata da Pindaro anni prima, nel 474, nella XI Pitica. Nella trilogia le forme tecniche della tragedia sono già pienamente sviluppate: E. vecchio ha accolto le novità tecniche sofoclee (tre attori e scenografia), ma alle parti corali ha dato uno sviluppo nuovo, non sofocleo ma del tutto originale.

Anche in un cenno cosi breve non si può tacere del tutto dello stile di E., quantunque esso non possa esser goduto se non da chi sa di greco e, consumando molto tempo, ha preso dimestichezza con il testo. Spesso a un inciso nominale si aggiunge un'apposizione, a questa un'altra, o un sostantivo è accompagnato da una lunga serie di aggettivi, giustapposti ma ciascuno in funzione logica diversa. Mezzi tecnici simili a quelli di Pindaro, che E., come si rileva da imitazioni non dubbie, conobbe e apprezzò, ma un complesso molto più libero dai legami tradizionali, molto più personale. Specie nella trilogia E. tenta spesso di costruire periodi complicati, ma poi, vinto dalla passione, lascia cadere il filo, come Pindaro non fa. Spesso le immagini si seguono in lunga sfilata, ma spesso anche si accavalcano. Tra i due, E. è la personalità più giovanile, più fresca, più originale.

Non abbiamo ancora discorso del Prometeo. Da lungo tempo si discute se questa tragedia, singolare anche perché i personaggi sono tutti dei e perché manca quasi l'azione esterna, sia genuina, interpolata, o spuria. Poiché la seconda ipotesi non risolve le difficoltà maggiori, rimangono in campo le due estreme. I dubbî si fondano su due generi di considerazioni. Il Prometeo è stilisticamente più facile, più normale delle altre tragedie eschilee: non a caso è la tragedia per lo più scelta per essere letta in scuole medie. Lasciamo pure andare la ristrettezza delle parti corali, che non è decisiva perché qui il coro, poiché si trovava su rocce, era molto meno libero nelle sue evoluzioni; ma certe particolarità nell'enjambement dei trimetri ricordano Sofocle. Qui una soluzione non par difficile a trovarsi: tra i Sette e l'Orestea, E., spirito originale ma aperto (si può dimostrare ch'egli s'interessò di orfismo e di sofistica), accolse dall'emulo più giovane, come per sempre i tre attori, così per una volta le particolarità stilistiche. Paralleli moderni mostrano che l'ipotesi non è poi così assurda com'è stato detto di recente. Ma resta un altro ordine di difficoltà: non a caso Prometeo è divenuto nelle letterature moderne un simbolo di quella libertà sconfinata ch'è privilegio dell'intelletto umano, un eroe senza macchia sottoposto a pena ingiusta e crudele in compenso dei benefici da lui recati all'umanità. Zeus sarebbe qui dipinto quale un vile tiranno dal suo devoto E., che pochi anni più tardi nell'Orestea avrebbe cantato la sua incommensurabilità con qualsiasi altro essere, la sua impenetrabilità a qualsiasi intelletto, in una parola la sua trascendenza. L'obiezione è gravissima. Ma d'altra parte del tutto eschileo è il personaggio episodico di Io, perseguitata da Era, come Cassandra da Apollo: l'episodio del Prometeo è per molti rispetti simile a quello di Cassandra nell'Agamennone, tiene anche un posto simile nella composizione. Ed eschileo è l'interesse per terre lontane e favolose. Già Aristofane rileva in E. la predilezione per personaggi statici: a quale tragedia questa caratteristica si attaglia meglio che al Prometeo? Ma, soprattutto, tanto e poi tanto è indiscutibilmente arcaico ed eschileo nello stile, tanto spesso c'imbattiamo in immagini e modi di dire caratteristici, che chi nega l'autenticità dovrebbe supporre, ognun vede con quanta probabilità, che già in periodo prealessandrino sia vissuto un abile falsificatore, che era al tempo medesimo un grande poeta. E allora converrà piuttosto immaginare che E., indotto dall'osservazione che ogni governo nuovo è, sul principio e finché non è solido, crudele per necessità, credesse che Zeus fosse col tempo divenuto un altro, si fosse spogliato di mali abiti e avesse attinto solo progressivamente quella perfezione che la trilogia esalta. Questa credenza pare a noi, con ragione, bambinesca; ma non manca di paralleli nell'Antico Testamento. E certe espressioni nella tragedia consigliano questa ipotesi. Anche le Erinni divengono Eumenidi.

Edizioni e traduzioni: Edizione critica fondamentale di U. Wilamowitz-Moellendorff, Berlino 1914 (una revisione dei codici minori ha intrapreso G. Pasquali: v. per ora Rend. d. Lincei, 1930): su essa si fonda quella, assennata, di P. Mazon, Parigi 1920-1925. Edizione commentata di prim'ordine con traduzione poetica: Aeschylos, Orestie II, ed. Wilamowitz, Berlino 1896; di alto valore anche Le Coefore, traduzione e commentario di M. Valgimigli, Bari 1926 (il testo che manca si ricostruisce facilmente dalle discussioni); e le edizioni commentate delle Coefore (Halle 1906) e delle Eumenidi (Berlino 1907) di Fr. Blass, delle Supplici di J. Vürtheim (Amsterdam 1928), del Prometeo di P. Groeneboom (Groninga 1928). Numerose e per lo più buone anche le edizioni annotate italiane: dell'Agamennone, Eumenidi, Sette a Tebe di P. Ubaldi (Torino: spiegazioni ampie, ottima informazione, solo l'Ubaldi tende troppo a voler interpretare anche corruttele), dell'Agamennone di A. Cosattini (Torino 1925), delle Coefore di G.A. Piovano (Città di Castello 1925; l'editore è privo di senso critico); delle Supplici (Palermo 1921), e del Prometeo di N. Terzaghi (Palermo 1917), di A. Mancini (Firenze 1927) e di G. Cammelli (Firenze 1930).

Il Wilamowitz ha pubblicato insieme con l'edizione un volume di Interpretationen (Berlino 1914) e ha poi raccolto le sue versioni poetiche dell'Orestea nel II vol. delle Griechische Tragödien (Berlino 1925) ciascuno con un'introduzione in cui sono posti e risolti i problemi più importanti sul pensiero eschileo. Di traduzioni moderne oltre a quella del Wilamowitz, che ha valore precipuamente interpretativo, segnaliamo le tedesche di Guglielmo di Humboldt e di J. G. Droysen, la francese di Lecomte de Lisle, le italiane di E. Romagnoli e di D. Ricci (4 voll., Lanciano 1930-31). Quella di F. Bellotti è mediocre.

Bibl.: Si citano solo gli scritti più recenti, in cui si troverà la bibliografia anteriore. Per la valutazione dell'arte v. Wilamowitz, Griechische Tragödien, IV, Berlino 1923, p. 303 segg.; P. Friedländer, in Die Antike, I (1925), p. 5 segg.; Br. Snell, Aischylos und das Handeln in Drama, in Philologus, Suppl. 20, 1928 (acuto ma talvolta esagerato) e specie M. Pohlenz, Griechische Tragödie, Lipsia 1930, pp. 24-146; G. Perrotta, I tragici greci, Bari 1931, pp. 1-103 dà di Eschilo una caratteristica originale, fine, per lo più adeguata, ma tende troppo a svalutare il pensatore. Misero il libro di M. Croiset, Eschyle, étude sur l'invention dramatique, Parigi 1928. Sul pensiero, oltre alle pubblicazioni citate del Wilamowitz, che hanno impostato il problema, e i dinieghi del Perrotta, W. Kranz, Gott und Mensch im Drama des Aischylos, in Sokrates, 1920, p. 129 segg.; G. Pasquali, La scoperta dei concetti etici nella Grecia antichissima, in Civiltà Moderna, I (1929), 354 segg. e contro lui R. Mondolfo, ibid., II (1930) 12 segg.; Ed. Fraenkel, in Philologus, LXXXVI (1931). Lo scritto di A. Lesky sull'Orestea in Hermes, LXVI (1931), p. 190 segg. non pare significhi né per questo né per altri rispetti un progresso. Sull'arcaicità e la cronologia delle Supplici, Fr. Focke, in Göttinger Nachrichten, 1922, p. 165; sul carattere delle Danaidi, A. Elisei, Le Danaidi nelle "Supplici" di Eschilo, in Studi it. d. fil. class., n. s., VI (1928) p. 197. Per la conoscenza dell'Egitto, G. Pasquali, in Riv. it. d. fil. class., 1924, p. 246 segg. Su alcune scene dell'Agamennone, importanti per l'arte e il pensiero eschileo, Kranz, in Hermes, LIV (1919), p. 301 segg.; G. Pasquali, in Studi it. d. fil. class., n. s., VII, (1929), pp. 219 e segg. e specie 230 segg. Per la questione del Prometeo, dopo M. Valgimigli, La trilogia di Prometeo (Bologna 1904; contiene anche testo e traduzione della tragedia; ormai antiquato) v., specie in favore dell'autenticità, A. Körte, Das Prometheusproblem (in Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, 1920, p. 201 segg.), e con speciale rispetto alla lingua A. Peretti in Stud. it. di fil. class. n. s., V, 1927, p. 165 segg. e in Gnomon, 1930, p. 64 segg.; contro, W. Schmid, Untersuchungen zum gefesselten Prometheus, Stoccarda 1929. L'ipotesi di una prima rappresentazione in Sicilia, sostenuta da Fr. Focke, in Hermes, LXV (1930) p. 259 segg. non risolve le difficoltà maggiori.

TAG

Antichità classica

Incommensurabilità

Legge del taglione

Ermippo di smirne

Eraclide pontico