ESPLORAZIONE ARCHEOLOGICA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1994)

Vedi ESPLORAZIONE ARCHEOLOGICA dell'anno: 1960 - 1973 - 1994

ESPLORAZIONE ARCHEOLOGICA (v. vol. III, p. 444 e S 1970, p. 315)

G. Alvisi; P. A. Gianfrotta; G. Andreassi

(v. vol. III, p. 444 e S 1970, p. 315). Esplorazione aerea. - La diffusione che l'aerofotografia ha avuto nell'arco di quest'ultimo ventennio in tutti i campi di applicazione che interessano più o meno direttamente il territorio - e la ricerca archeologica è appunto uno di questi - indurrebbe a supporre da un lato che la tecnica del rilievo si sia sviluppata in maniera analoga e, dall'altro, che quella della fotointerpretazione non abbia più alcun segreto, tanto da poter essere impiegata in modo quanto mai generalizzato. In effetti, se da un lato l'abbandono dell'uso più specifico di «ripresa aerea», per quello più generico di «telerilevamento», sottintende l'utilizzazione di riprese con sistemi anche diversi da quelli fotografici, dall'altro si deve constatare che, dopo le straordinarie scoperte avvenute nel momento in cui divenne possibile per l'archeologo osservare il terreno da un angolo visuale inconsueto ma più onnicomprensivo, l'uso della aerofotografia si è necessariamente fatto più generalizzato, ma, al tempo stesso, anche più meditato. La fotografia aerea è usata come un mezzo di indagine e, soprattutto, di continuo e progressivo approfondimento, attraverso un confronto che avviene, per stadi successivi, con i risultati dello scavo mano mano che questo procede.

In questo senso, l'esempio di Metaponto è quanto mai illuminante e l'esame della bibliografia che riguarda la città evidenzia come le ipotesi iniziali, formulate sulla base di una prima fotointerpretazione - per altro assolutamente giustificabili per lo stato delle conoscenze in quel momento - abbiano subito degli aggiustamenti e delle varianti, mano a mano che l'approccio diretto con il terreno veniva a mutare i parametri della ricerca. Così, mentre da un lato i risultati dello scavo, quando non coincidevano con le ipotesi formulate, chiarivano anche i motivi delle eventuali erronee interpretazioni, dall'altro ponevano nuovi interrogativi che successive indagini aerofotografiche avrebbero in parte risolto. Questo continuo uso della aerofotografia da parte di alcuni archeologi in parallelo con lo sviluppo della ricerca sul campo, è una dimostrazione ulteriore della straordinaria quantità di elementi che un'immagine aerofotografica può rivelare quando lo studio si fa più approfondito e circostanziato.

Nel campo delle riprese di tipo tradizionale, comunque, alcune novità si sono potute registrare, soprattutto negli stati dell'Europa centro-settentrionale, nel corso del 1976. Quell'anno fu caratterizzato da una siccità assolutamente anomala per quelle latitudini. Infatti, essendosi il terreno inaridito fino a una profondità media di oltre 50 cm, fu possibile individuare e rilevare le tracce di fossati esistenti a una profondità superiore al mezzo metro, rese evidenti da un leggero strato di vegetazione cresciuta sfruttando quella minima riserva di acqua che vi si era accumulata. L'eccezionalità dell'evento, pur non implicando novità sostanziali dal punto di vista della tecnica sia del rilevamento, sia della fotointerpretazione, ha tuttavia messo in evidenza come i parametri di lettura delle tracce, caratteristici di ogni ambito territoriale, siano così strettamente legati al tipo di terreno e di clima, che ogni variazione sufficientemente rilevante può facilmente sconvolgerli.

Sempre per rimanere nel campo di un uso più specialistico dell'indagine aerofotografica, si può segnalare la cooperazione di studiosi di varie discipline nell'interpretazione delle riprese aeree, con quella apertura di orizzonti che già nello scavo ha dato ottimi risultati. Così, lo studio del materiale aerofotografico condotto in parallelo da archeologi e geologi ha portato alla soluzione di problemi rimasti aperti, ma anche alla impostazione di nuove problematiche cui lo scavo dovrà fornire poi il suo contributo determinante.

Su questa linea si sono sviluppati gli studi sulle centuriazioni della Pianura Padana e sulle relazioni tra queste e lo spostamento del corso del Po denunciato dalla presenza di paleoalvei, o la verifica delle fonti nella ricostruzione di eventi storici, come, p.es., la battaglia della Trebbia, la cui dinamica si è potuta chiarire solo dopo aver messo a punto un'attenta ricostruzione storica e geomorfologica dell'ambiente quale doveva presentarsi all'epoca dell'evento, ricostruzione scaturita, appunto, da uno studio interdisciplinare delle aerofotografie.

Prendendo in esame le scarse novità che si sono registrate in quest'ultimo ventennio, va ricordato in primo luogo l'uso della pellicola IRC (infrarosso colore), reso possibile dopo la industrializzazione di questa emulsione, rimasta per molto tempo ristretta nell'ambito della ricerca e destinata a un uso prevalentemente militare. In questa pellicola (l'Ektachrome Aero Infrared della Kodak), uno dei tre strati di emulsione, quello sensibile all'azzurro, viene sostituito con uno sensibile alle radiazioni infrarosse, mentre gli altri due rimangono invariati. Si viene così a ottenere un'immagine nella quale i colori risultano totalmente falsati rispetto alla realtà, donde la denominazione di «falso colore» con la quale viene anche indicata questa pellicola.

Volendo scendere in dettaglio, in questo tipo di ripresa si ottengono, generalmente, le seguenti corrispondenze: verde con clorofilla = porpora; verde senza clorofilla = rosso; le tonalità tra il beige, il bruno e l'arancio variano in una gamma tra il beige e l'azzurro; il bianco e il giallo variano nella gamma dei bianco-azzurri. Questa pellicola ha una indiscussa utilità nel campo della individuazione e dello studio delle fitopatologie; l'emulsione infrarosso, infatti, sensibile alla presenza di clorofilla e alla quantità di linfa che scorre nella pianta, permette di rilevare la presenza di un individuo malato nel quale il tasso di questa sostanza e l'equilibrio idrico si presentano alterati, evidenziandolo con un tono di rosso totalmente diverso da quello delle piante sane.

Dal punto di vista della ricerca archeologica, invece, l'IRC non ha fornito risultati particolarmente significativi. Anche se è vero che la presenza di clorofilla nella vegetazione viene esaltata dalla emulsione infrarosso, e che gli indici di vegetazione sono da considerare tra i principali elementi-guida per la ricerca dei resti sepolti, è altrettanto vero che, al di là della spettacolarità dell'immagine, la presenza, la consistenza e lo stato della vegetazione può essere ugualmente rilevata da un buon fotointerprete, anche sulle immagini in bianco e nero effettuate con pellicole di tipo pancromatico o su quelle a colori naturali. Senza pertanto togliere nulla a questa nuova emulsione - per altro particolarmente costosa, di uso difficoltoso essendo la sua utilizzazione legata alla scelta di filtri ottimali e di condizioni metereologiche ideali, di trattamento tutt'altro che semplice soprattutto nei formati utili per le riprese zenitali - si può affermare che le fotografie aeree in «falso colore» risultano utili soprattutto nelle riprese prospettiche a bassa quota (nelle quali vengono impiegate pellicole di piccolo formato: 23 x 36,70 x 70 mm), e, specialmente, quando le aerofotografie sono usate come termine di confronto con quelle più comuni in bianco e nero o a colori.

Lasciando da parte le riprese aerofotografiche in senso stretto, per prendere in considerazione altri tipi di telerilevamento che vengono attualmente sperimentati al fine di determinarne l'utilità nel campo della ricerca archeologica, vale la pena di ricordare quelli effettuati con l’infrarosso termico. Nella termografia, come mette in evidenza la stessa denominazione, l'immagine registrata è quella determinata dalla differente quantità di calore emesso dal terreno o dalle presenze che su questo insistono, con una variazione di toni dal bianco al nero corrispondenti, rispettivamente, alle temperature più alte e a quelle più basse.

Nello specifico campo archeologico si stanno effettuando da alcuni anni delle prove al fine di sperimentare le possibilità di resa di questo tipo di ripresa, ma, almeno fino a questo momento, i risultati ottenuti, pur potendosi ritenere interessanti, non sono stati di particolare importanza; ciò non esclude che in futuro la resa possa essere migliorata.

Attualmente, tanto per citare qualche esempio, sono stati condotti studi sulle riprese eseguite con una termocamera Aga thermovision mod. 782 LW, relative ad alcune zone archeologiche della Puglia. Le indicazioni scaturite dall'esame del copioso materiale disponibile hanno messo in evidenza che, per ottenere immagini abbastanza significative, è necessario che la ripresa venga effettuata nelle ore di massimo contrasto termico quali sono, p.es., quelle del tramonto e, soprattutto, dopo aver liberato completamente il terreno dalla vegetazione al fine di ottenere un'immagine nella quale i dati non siano falsati da elementi estranei. Tuttavia, data la particolare tecnica della ripresa e il tipo di immagine ottenuta, l'uso della termografia non può assolutamente prescindere da un'ottima conoscenza del terreno che permetta di selezionare nell'immagine i dati originati dalle strutture di superficie rispetto a quelli relativi a ciò che è ancora sepolto.

Sempre in tema di telerilevamento, possiamo accennare agli studi sperimentali compiuti sulla Pianura Padana, per l'utilizzazione delle riprese da satellite ai fini dell'individuazione dei resti delle centuriazioni. In questo caso, però, pur potendo considerare l'esperimento sostanzialmente riuscito, i risultati sono stati al di sotto delle aspettative.

Oltre alle novità citate nel settore specifico della ripresa propriamente detta, si deve segnalare una notevole attività di ricerca nel campo dell'utilizzazione di sofisticate tecniche di elaborazione delle immagini, sia fotografiche che telerilevate. Una delle tecnologie più frequentemente usate è quella della trasformazione delle bande di grigio che presentano la stessa densità, in colori predeterminati. Partendo da una ripresa di tipo bianco-nero, attraverso il trattamento elettronico, vengono preventivamente selezionate le parti dell'immagine che hanno la stessa intensità di grigio; la selezione, naturalmente, non avviene individualmente per ognuna delle oltre 200 gradazioni effettive esistenti nella scala tra il bianco e il nero, ma per bande che ne raggruppano un certo numero. A ognuna di queste fasce predeterminate, viene elettronicamente attribuito un diverso colore. L'immagine che si forma ricomponendo le singole parti variamente colorate, e che è di tipo assolutamente astratto, permette di evidenziare meglio, attraverso appunto la differenza di colori contrastanti, quelle diversità di toni di grigio che nell'immagine originale sarebbero apparse minime o addirittura non percepibili a vista.

Un altro tipo di elaborazione delle immagini aerofotografiche, messo a punto in Francia, è quello del filtraggio ottico a luce coerente. Attraverso questo, è possibile estrarre dal complesso dell'immagine solo le informazioni relative alla direzione prescelta e a quella ortogonale. L'utilità di questo metodo risulta ovvia nella ricerca dei resti di centuriazioni quando queste siano ormai così deteriorate da risultare pressoché illeggibili. Il filtraggio, che avviene utilizzando un fascio di luce coerente (laser) e con l'aiuto di una complessa apparecchiatura ausiliaria, può essere così sintetizzato: quando il raggio attraversa la diapositiva ricavata dalla fotografia che è stata prescelta per l'esame, si genera all'infinito una figura di diffrazione. Una lente convergente posta subito dopo, riporta lo spettro bidimensionale dell'immagine sul piano focale: il c.d. piano di Faurier. Questo spettro è una registrazione esatta delle frequenze spaziali e della ripartizione delle direzioni contenute nell'immagine esaminata. Attraverso un disco rotante munito di quattro fessure a croce, si può operare una selezione di questo spettro che viene rinviata a una seconda lente convergente; l'immagine filtrata che si viene così a ricreare può essere proiettata su uno schermo o andare a impressionare una pellicola fotografica. La fotografia che si ottiene al termine di questa elaborazione non può rivelare strutture sepolte, compito questo che rimane appannaggio della fitointerpretazione dell'immagine aerea, ma mette in evidenza, all'interno della enorme massa di linee che comparivano sulla ripresa originale, quelle che possono verisímilmente essere attribuite a un piano organico di suddivisione agraria.

Bibl.: G. Alvisi, Note sulla resa delle pellicole pancromatiche, infrarosso e infracolore ai fini della fotointerpretazione archeologica, in AttiCItRom, V, 1973-1974, p. 95 ss.; AA.VV., Speciale Archéologie Aérienne (DossAParis, 22), Parigi 1977; J. Dassie, Manuel d'archéologie aérienne, Parigi 1978; F. Guidi, Fotogrammetria, fotointerpretazione, telerilevamento, Firenze 1978; B. Marcolongo, M. Mascellani, Immagini da satellite e loro elaborazioni applicate alla individuazione del reticolato romano nella pianura veneta, in AVen, I, 1978, p. 131 s.; I. Scollar, Computer Image Processing for Archaeological Airphotographs, in WorldA, Χ, 1978, I, p. 71 ss.; A. H. Α. Hogg, Surveying for Archaeologists and Other Fieldworkers, Londra 1980; AA.VV., Découvertes d'archéologie aérienne (DossAParis, 43), Parigi 1980; AA.VV., L'aerofotografia da materiale di guerra a bene culturale, le fotografie aeree della R.A.F. (cat.), Roma 1980; F. Favory, Detection des cadastres antiques par filtrage optique: Gaule et Campanie, in MEFRA, XCII, 1980, I, pp. 347-386; D. R. Wilson, Air Photo Interpretation for Archaeologists, Londra 1982; G. Marchetti, P. L. Dall'Aglio, Geomorfologia e vicende storiche nel territorio piacentino: la battaglia della Trebbia (Atti Istituto Geologico della Università di Pavia, XXX), Pavia 1982, pp. 141-160; G. S. Maxwell (ed.), The Impact of Aerial Reconnaissance on Archaeology (BAR, 49), Oxford 1983; S. JDiceglie, La termografia nella prospezione archeologica: applicazioni sull'acropoli di Egnatia, in Atti del Convegno Nazionale Esperienze e Prospettive del Telerilevamento AITA-SITE, Pavia 1984, pp. 767-786; F. Piccarreta, Manuale di fotografia aerea. Uso archeologico, Roma 1987.

(G. Alvisi)

Esplorazione subacquea. - La grande diffusione delle tecniche e della pratica delle immersioni subacquee ha avuto negli ultimi decenni importanti riflessi anche in campo archeologico. Scoperte occasionali, recuperi e scavi sistematici hanno in vario grado interessato le coste del Mediterraneo: particolarmente quelle della Francia, dell'Italia, della Spagna, della Turchia, della Grecia, di Israele, dove più intense e organizzate sono state le ricerche. Altrettanto è avvenuto anche in paesi europei extramediterranei, come la Gran Bretagna, la Scandinavia, la Germania, la Polonia. Così pure nelle Americhe, in Africa, in Australia, in Estremo Oriente.

Oltre che in mare, ricerche subacquee hanno avuto luogo nei fiumi e nei laghi, principalmente quelli dell'Europa centrale (laghi di Zurigo, di Neuchâtel, di Annecy, ecc.) e dell'Italia settentrionale (laghi di Viverone, di Monate, di Garda) e centrale (Bolsena, Mezzano, Bracciano e Albano). Oggetto di tali ricerche sono state essenzialmente le presenze archeologiche sommerse, per l'innalzamento dei livelli lacustri, per lo più in epoca preistorica: ma in alcuni casi risalenti all'età romana o anche medievale o rinascimentale (p.es., un abitato dell'XI sec. è nel lago prealpino di Palandru, in Francia). Meno frequenti le presenze di relitti d'imbarcazioni naufragate: come già per le navi del lago di Nemi, barconi romani sono stati tuttavia rinvenuti a Neuchâtel, mentre imbarcazioni veneziane sono state individuate nel lago di Garda e piroghe monoxili di varia epoca sono state recuperate un po' dovunque. Interventi del tutto eterogenei, quindi, che spesso nulla hanno in comune, ma che, evidenziando la estrema varietà di applicazione della ricerca archeologica subacquea, ne rivelano la prevalente natura di tecnica specialistica al servizio dell'archeologia e in generale della ricostruzione storica, le cui indagini possono così inoltrarsi in una vastissima area, altrimenti preclusa.

Equipaggiamenti e attrezzature specifiche sempre più perfezionate consentono ormai di svolgere direttamente sott'acqua tutte le principali attività di ricognizione, di documentazione, di scavo e permettono persino di effettuare i primi interventi di conservazione. Come nelle ricerche sul suolo, la fase preliminare della ricerca subacquea è costituita dalla prospezione.

In condizioni favorevoli (poca profondità, trasparenza dell'acqua, giusta incidenza della luce solare, ecc.) già la fotografia aerea può fornire utili indicazioni, soprattutto in presenza di resti di edifici sommersi o di impianti marittimi, quali porti e peschiere, parzialmente distrutti. Notevoli contributi si sono avuti, p.es., in Campania, lungo la costa dei Campi Flegrei sommersa per il bradisismo, dove riprese aeree hanno nettamente rivelato i contorni di estesi impianti commerciali nella zona suburbana di Puteoli e in quella del Portus Iulius. A indispensabile integrazione dei dati desunti dalle foto aeree, in quest'ultima località si è ora finalmente avviata l'opera di rilevamento topografico subacqueo, mentre nella vicina Baia (v.), a Punta Epitaffio, lo scavo sistematico di un grande ninfeo imperiale sommerso ha portato al recupero di un importante nucleo di sculture marmoree (statue di Ulisse e di un compagno, di Antonia Minore, di una bambina non identificata della gens giulio-claudia, di Dioniso in due versioni).

Altri soddisfacenti risultati riguardano strutture portuali sommerse (p.es., il porto di Caesarea in Palestina, l'area portuale di Kenchreai presso Corinto, quella di Apollonia in Cirenaica, ecc.), oltre che impianti per l'allevamento ittico, diffusi soprattutto lungo le coste del Mare Tirreno in connessione con ville marittime della tarda età repubblicana e della prima età imperiale.

In situazioni meno vantaggiose e a profondità maggiori, al di là dei limiti fisici che gli attuali equipaggiamenti non consentono al corpo umano di oltrepassare senza danno, oppure quando la permanenza sott'acqua deve essere assai ridotta (per non prolungare eccessivamente i tempi della decompressione), è necessario, invece, affidarsi a strumenti di osservazione e di misurazione più sofisticati. Tra questi, la televisione comandata a distanza, che nella pratica consente il prolungamento dell'osservazione diretta, non richiedendo particolari passaggi interpretativi, risulta di grande utilità giacché consente anche di registrare documentazioni su nastro.

Prospezioni a vasto raggio possono essere effettuate con sonar (apparecchi o localizzatore a ultrasuoni) o con magnetometri di vario tipo, ma la loro applicazione nel campo dell'archeologia subacquea, come pure quella di altre strumentazioni mutuate da settori di diversa natura (come, p.es., quelli della ricerca degli idrocarburi o delle attività strategiche), solo in casi particolari risulta adeguata e vantaggiosa. In aree circoscritte, per avviare operazioni di scavo e per indirizzare le ricerche, è certamente proficuo l'impiego di rilevatori di metalli (metal-detectors).

Nello scavo, accorgimenti tecnici adattabili ad ambienti e a circostanze diverse consentono di applicare i consueti metodi usati a terra, ossia distinguendo gli strati, sia che documentino fasi cronologiche, come negli abitati sommersi, sia che si riferiscano a differenti livelli di carico sovrapposti, come nei relitti di nave. Va inoltre considerata l'eventualità di sconvolgimenti dovuti alla meccanica dell'affondamento e alle caratteristiche del giacimento.

I principali strumenti impiegati per lo scavo sono la Sorbona ad aria o ad acqua e la lancia ad acqua. La Sorbona ad aria è costituita da un lungo tubo all'interno del quale viene immessa aria compressa che, risalendo con forza alla superficie, crea un'aspirazione mista di aria e acqua e con esse, quindi, anche dei sedimenti da asportare. La Sorbona ad acqua, sebbene fondata su un principio diverso, funziona in modo simile. La lancia ad acqua, invece, svolge funzione dirompente ed è costituita da un tubo con getto regolabile d'acqua sotto pressione che, a seconda dell'intensità, rimuove delicatamente gli strati archeologici oppure smembra con forza masse di fango o di sabbia o di detriti.

Tuttavia, quantunque gli ostacoli fisici non rappresentino più un impedimento insormontabile per l'archeologia subacquea che può ormai avvalersi delle tecniche più perfezionate, essa rimane rigidamente condizionata da regole e tempi la cui trasgressione comporta dei rischi. La durata di un'immersione è limitata e diminuisce progressivamente con l'aumentare della profondità; di conseguenza, l'indagine archeologica deve essere effettuata con rapidità, ma senza che ciò porti discapito alla completezza della documentazione che - tanto più sott'acqua - spesso è tutto quanto resta di un sito che è stato oggetto di scavo. La documentazione è per lo più realizzata con le stesse tecniche impiegate a terra, ma al rilevamento tradizionale (trilaterazione e misurazioni manuali) spesso si affianca la fotogrammetria che, soprattutto operando a considerevole profondità, consente maggiore precisione e grande risparmio di tempo.

Pur comportando il superamento di difficoltà pratiche anche rilevanti, lo scavo subacqueo consente di ottenere risultati che a terra molto raramente è possibile raggiungere. La raccolta dei dati avviene, infatti, in condizioni privilegiate, come nel caso, p.es., del relitto di una nave antica, che rappresenta una sorta di giacimento chiuso, cronologicamente ben determinabile e con abbondanza di materiali eterogenei (anfore, ceramiche, metalli, marmi, opere d'arte, ecc.) in grado di fornire importanti dati quantitativi allo studio dell'economia antica.

Un relitto di nave, poi, pur con i limiti dovuti alla deperibilità di alcuni materiali in ambiente marino, rappresenta in se stesso una testimonianza insostituibile di un processo economico in atto, di un meccanismo commerciale cristallizzatosi in un momento della sua fase dinamica. Fornisce, quindi, attraverso la documentazione di un importante strumento produttivo - in quanto protagonista di una trasformazione di valore - una grande quantità di informazioni, confrontabili con quelle derivate dai consueti mezzi della ricerca storica.

Le indagini e gli scavi di relitti hanno già portato rilevanti contributi alla conoscenza di molteplici aspetti connessi con le navigazioni: da quelli dell'architettura e delle costruzioni navali, a quelli delle rotte, dei traffici marittimi e delle distribuzioni commerciali, e quindi della storia economica, con le sue implicazioni sociali e politiche.

Lo studio dell'archeologia navale, in precedenza costretto nei limiti di quanto desumibile dalle testimonianze letterarie e iconografiche - con esiti spesso controversi - ha potuto così accedere a documenti originali compiendo determinanti progressi, soprattutto per la conoscenza dei procedimenti e delle tecniche di costruzione.

Oltre al procedimento, di gran lunga più diffuso, della tecnica «a incastro», basata sull'assemblaggio dei vari elementi mediante - appunto - l'incastro sistematico di linguette fissate con cavicchi, le ricerche sottomarine hanno documentato anche l'impiego della tecnica «a cucitura», prevalentemente su scafi d'età arcaica (quelli di Bon-Porté, in Francia, dell'Isola del Giglio e di Gela), ma con attardamenti locali che giungono fino alla prima età imperiale (navi di Valle Ponti, presso Comacchio, e di Nin, in Croazia). Secondo tale sistema il fasciame è assemblato mediante strette legature passanti tra fori predisposti lungo i margini di tavole combacianti.

In qualche caso, alle documentazioni realizzate in corso di scavo hanno fatto seguito il recupero e la conservazione degli scafi di legno, come la nave di Kyrenia, a Cipro, della fine del IV sec. a.C., quella punica di Marsala, della metà del III sec. a.C., quella augustea di Valle Ponti, quelle d'età imperiale rinvenute nello scavo di Piazza della Borsa a Marsiglia, quelle di Blackfriars a Londra, del porto di Claudio a Fiumicino (Roma), di Monfalcone, del Reno presso Magonza, di Tiberiade in Israele.

Utili indicazioni riguardano poi molti aspetti tecnici delle attrezzature e dell'armamento, come p.es. il tipo e il numero delle ancore, l'alberatura e la velatura, il calafataggio e il rivestimento esterno con lamine di piombo, il sistema di prosciugamento delle infiltrazioni della sentina attraverso l'impiego di pompe idrauliche. Una notevole documentazione si riferisce alla vita di bordo (utensili da lavoro, suppellettile da cucina e da mensa, oggetti del corredo personale, ecc.) o a particolari aspetti delle navigazioni commerciali, come p.es. la pirateria.

L'ampliata documentazione sottomarina, oltre che per l'architettura e per le tecniche di costruzione, fornisce una base essenziale per formulare attendibili valutazioni relative al tonnellaggio e alle potenzialità di carico, in qualche caso veramente considerevoli, come per i relitti di Albenga e della Madrague de Giens (presso Tolone), della prima metà del I sec. a.C., con carichi valutati intorno a 10.000 anfore (Dressel 1) o poco più.

Anche per le navigazioni la documentazione archeologica sottomarina inizia a integrare le notizie delle fonti geografiche e letterarie. Oltre che dall'esplorazione delle aree portuali vere e proprie, infatti, nuove indicazioni provengono dall'individuazione dei luoghi d'ancoraggio, di varia conformazione e funzione (fonde naturali, semplici approdi, siti di stazionamento periodico, ecc.), caratterizzati in genere dalla presenza di materiali eterogenei e di varia datazione accumulatisi dove le navi sostavano temporaneamente (in attesa di venti propizi, per rifornimento, per riparazioni o altro). A volte risultano connessi con il piccolo cabotaggio; spesso la loro dislocazione denota un'approfondita conoscenza dei fondali e delle caratteristiche marine e meteorologiche.

Ricchi di testimonianze sono poi tutti i luoghi pericolosi per la navigazione: in particolar modo i promontori - il cui doppiaggio raramente era esente da rischi - le aree con scogli semiaffioranti, le secche, i bassi fondali. In zone con tali caratteristiche, con il trascorrere del tempo può essersi verificato il naufragio di numerose imbarcazioni, colate a picco a non molta distanza le une dalle altre. In coincidenza con esse, già in diversi casi si è riscontrata la presenza di giacimenti multipli e di varia datazione (i c.d. cimiteri di relitti). Al Grand-Congloué (Marsiglia) p.es., dove nella prima metà degli anni '50 furono scavati i resti di una grande nave mercantile, il cui carico risultava composto di materiali (anfore, ceramiche e altro) che presentavano tra loro forti discordanze cronologiche. Recenti controlli hanno chiarito che il giacimento era, in realtà, costituito da due relitti di navi sovrappostisi quasi completamente uno sull'altro a distanza di circa un secolo.

Sempre al largo di Marsiglia, intorno all'isolotto di Planier, circondato da scogli semiaffioranti ed esposto alla violenza dei venti, sono stati localizzati almeno sette relitti antichi e molti altri moderni, alcuni distanti tra loro poche decine di metri. Analoga situazione si è riscontrata anche intorno a Yassı Ada, in Turchia, dove sono stati individuati una quindicina di relitti, databili dal I .sec. d.C. all'età moderna. Due di essi, del IV e del VII sec. d.C., sono distanti appena pochi metri e sul primo si sovrappone parzialmente un terzo relitto del XVIII secolo. Altrettanto si è verificato in varie altre località, p.es., a Cala Culip (presso Cabo Creus, in Spagna), a Porto dementino (Gravisca), all'Isola di Lavezzi e a Capo Sperone (Corsica), all'isola di Porquerolles (presso Tolone).

Di gran lunga più rilevante, tuttavia, è il contributo che l'archeologia sottomarina ha recato allo studio dei commerci marittimi e della storia economica attraverso gli scavi dei resti degli antichi naufragi. Naturalmente, le ricerche finora effettuate sono ben lungi dal restituire un quadro completo per distribuzione geografica o per periodi storici; numerose sono le lacune e le discontinuità dovute a cause di varia natura (quantità e qualità delle ricerche, tipi di costa e di fondale, ecc.). Tuttavia, di relitti di navi se ne conoscono, in maggiore o minore misura, ormai moltissimi, rintracciati un po' ovunque nel Mediterraneo.

Le più antiche presenze finora note, per lo più lungo le coste turche, risalgono al secondo millennio a.C.: un relitto del XVI sec. a Şeytan Deresi; uno del XIV sec. a Ulu Burun (presso Kaş), con un carico misto di pani di rame, di derrate alimentari e di oggetti pregiati (avori, oreficerie, paste vitree, ecc.); uno del XII sec. a Capo Chelidonia, anch'esso con pani di rame e oggetti metallici da riutilizzare. Una statuetta in bronzo di divinità fenicia (Melqart), datata alla fine del II millennio, proviene invece dalle acque di Selinunte.

Relativamente più abbondanti risultano le testimonianze riconducibili all'età arcaica. Ambientate finora principalmente nel Mediterraneo occidentale, si riferiscono a navigazioni fenicie (Ma'agan-Michael, presso Haifa, in Israele) oppure d'ambito greco (a Santa Sabina, presso Brindisi; a Camarina e a Gela, nella Sicilia sud-orientale; al Circeo; alla Pointe Lequin, in Provenza) o etrusco (ad Antibes, a Bon-Porté, a Dattier, in Provenza, e all'Isola del Giglio). A traffici locali di modesta entità si riferiscono due relitti di imbarcazioni dedite, come già quella di Capo Chelidonia, al commercio e al riciclaggio di oggetti metallici, una a Rochelongue, in Provenza, l'altra alla foce dell'Huelva (Cadice).

L'età tardo-classica e la prima età ellenistica, invece, sono ancora scarsamente rappresentate: oltre che dal relitto di Porticello (ν. sotto), da quello del Sec a Palma de Mallorca, databile verso la metà del IV sec. a.C., da quello di Kyrenia, a Cipro, degli ultimi anni del IV sec., dagli altri quasi coevi di «La Madonnina» (Taranto), della Secca di Capistello (Lipari), e della Pointe Lequin 2, in Provenza. Appartengono a età ellenistica anche le due principali testimonianze finora rinvenute di navi da combattimento: una è costituita dal grande rostro di bronzo tridentato trovato presso 'Atlit, in Israele, l'altra dalla nave di Marsala, ambientata nello scenario della prima guerra punica.

Procedendo nel tempo la situazione cambia radicalmente: le presenze di relitti si fanno numerose, toccando l'apice nella tarda età repubblicana (UT sec. a.C.), soprattutto lungo le coste del Tirreno, della Provenza e della penisola iberica. Tra gli ancora scarsi relitti che sono stati oggetto di scavo integrale, quello della Madrague de Giens (Tolone), della prima metà del I sec. a.C., può considerarsi esemplare per metodo di lavoro e per risultato scientifico, sia per quanto riguarda lo scafo (studio degli aspetti costruttivi, calcolo del tonnellaggio, ecc.), sia per quanto riguarda il carico, costituito da anfore vinarie Dressel 1, delle quali è stata individuata l'area di produzione e d'imbarco nei pressi di Terracina.

Per l'età imperiale, per circostanze forse attribuibili alla casualità delle ricerche e non effettivamente rispecchianti una situazione antica, si registra un calo di presenze. Tra i relitti maggiormente investigati, va ricordato quello di Port-Vendres II (Pirenei orientali), della prima metà del I sec. d.C., che trasportava un carico di anfore spagnole della provincia Baetica (Dressel 20, Haltern 70 e Pompei VII) corredate da tituli picti con l'indicazione del contenuto e con i nomi dei mercatores. Tra quelli tardo-imperiali si collocano relitti con anfore di provenienza nord-africana (p.es., il Dramont «E», in Provenza; quello del Giglio Porto; di Monte Cristo) e dal Mediterraneo orientale (Yassı Ada). Oltre le soglie dell'antichità giungono poi alcuni relitti di navi bizantine (a Cefalù; a Yassı Ada; a Tartous, in Siria; ad Alonisos, in Grecia) e arabe (ad Agay, a Bataiguer e a Plane, in Francia; a Serçe Limani, in Turchia; a Marsala).

Ben al di là delle singole scoperte - grandi e piccole - è grazie all'insieme di esse che l'apporto delle ricerche sottomarine è risultato determinante per la comprensione di alcuni aspetti dei traffici mercantili, in precedenza poco noti o del tutto ignorati: p.es., quello dei vini dell'Italia centrale e meridionale inviati a rifornire i mercati della Gallia e della penisola iberica negli ultimi due secoli della Repubblica.

Sono ormai centinaia i relitti di navi con carichi di questo tipo disseminati principalmente lungo il Tirreno e le coste della Provenza (tra i più noti, quelli di Albenga, del Grand-Congloué, della Madrague de Giens, di Drammont «A», di Santa Severa, di Punta Scaletta). La diffusione delle anfore Dressel 1, appartenenti alle medesime produzioni di quelle trovate a bordò delle navi naufragate, evidenzia come, oltre alla rete di percorsi marittimi, esistesse per gran parte dei carichi la possibilità di usufruire delle grandi vie fluviali dell'Europa, con ampia e capillare distribuzione.

In tali circuiti distributivi s'inserisce un cospicuo gruppo di relitti, quasi esclusivamente d'età giulio-claudia, con il carico di vino trasportato in grandi dolia e solo in minima parte in anfore (Dressel 2-4). Maggiormente investigati sono quelli di Diano Marina, di Ladispoli, del Grand Ribaud «D», del Petit Congloué, de La Garoupe, dell'Ile Rousse. I dolia erano probabilmente fissi a bordo delle navi e da considerare quindi come parte dell'armamento. Si deve all'archeologia sottomarina l'avere posto in evidenza questo loro impiego, di cui altrimenti (dato che in precedenza questi grandi contenitori erano stati rinvenuti solo a terra), non si sarebbe saputo nulla.

Anche il rinvenimento su relitti di diversa datazione di «ceramica comune», in alcuni casi certamente riferibile al carico e non a usi di bordo, è risultato altrettanto inatteso, giacché la scadente qualità induceva a escluderne il trasporto per lunghe distanze.

Oltre ai numerosi e assai varí filoni del commercio di derrate alimentari, ai quali si può risalire soprattutto attraverso le anfore, altre voci ben documentate dai rinvenimenti subacquei riguardano il trasporto marittimo di materie prime, quali i marmi di cava e i metalli. Sono ormai alcune decine i relitti di navi romane cariche di marmi, grezzi oppure in uno stadio di lavorazione più o meno avanzato (blocchi di cava, colonne, capitelli, basi, sarcofagi, vasche, ecc.), per lo più concentrati in zone di transito lungo rotte provenienti dalle principali cave del Mediterraneo orientale e dell'Africa settentrionale.

Significativamente abbondanti sono, appunto, le presenze di carichi naufragati nel Peloponneso sud-occidentale (Methone, Isola della Sapienza), lungo la costa ionica della Puglia (Torre Sgarrata, San Pietro in Bevagna), a Capo Colonna e a Punta Scifo, in Calabria, e lungo la direttrice dello Stretto di Messina (Marzamemi, Isola delle Correnti, Camarina, Giardini-Naxos, Taormina). Oltre ai numerosissimi capitelli e colonne rinvenuti nella nave di Mahdia, altri carichi di marmo o di pietra sono noti a Capo Granitola (Sicilia sud-occidentale), a Carry-Le-Rouet e a Saint Tropez, in Provenza, alla Punta del Miracle (Tarragona), in Spagna.

Nei trasporti marittimi dei manufatti di pietra va compreso quello delle macine in pietra vulcanica (lapis molaris)·. esse sono presenti in varia quantità, p.es., nei carichi dei relitti del Sec a Palma de Mallorca, di Kyrenia, di Porto Badisco. Tra i materiali da costruzione rientrano poi i carichi di laterizi, spesso di produzione urbana e quindi imbarcati, forse, per assicurare un «carico di ritorno» alle numerose navi mercantili che giungevano a Roma e che non era conveniente far ripartire vuote.

Per quanto riguarda i metalli, pur tenendo presenti rinvenimenti come quelli di pani di rame del II millennio a.C. (Capo Chelidonia e Ulu Burun), si può dire che il maggior numero di testimonianze si concentri soprattutto in età romana.

Presenti a volte in non grandi quantità all'interno di carichi misti (p.es. sulla nave di Valle Ponti, a Comacchio), su alcuni relitti del I sec. a.C. i metalli costituiscono invece la componente essenziale: p.es. quelli dell'Isola di Mal di Ventre e di Capo Testa, in Sardegna, sui quali sono state rinvenute grandi quantità di lingotti di piombo spagnolo. Meno frequente è la presenza di altri metalli o minerali, come ferro (a Capo Testa e ad Arbatax, in Sardegna), stagno (a Port-Vendres II e ad Arbatax), zolfo (a Procchio, nell'Isola d'Elba).

Altra consistente presenza è poi quella del trasporto marittimo delle opere d'arte, con varie decine di rinvenimenti effettuati, a partire dagli inizi del secolo, in molte località del Mediterraneo (v. Anticitera, Artemisio, Mahdia, Maratona).

Non sempre la permanenza in fondo al mare ha avuto effetti distruttivi: anzi in qualche caso, quando coperture di sedimenti impediscono la corrosione, le condizioni per una buona conservazione di bronzi e marmi possono essere perfino più soddisfacenti che a terra.

Anche negli ultimi due decenni hanno avuto luogo sorprendenti scoperte. Tra le principali, quella effettuata nel 1968 nel golfo di Baratti, in Toscana, di un'anfora d'argento tardo-antica completamente istoriata con medaglioni figurati (personificazioni di mesi o stagioni, satiri e menadi, divinità e altro ancora). Nel 1969, a Porticello (Villa S. Giovanni) sono stati sequestrati alcuni frammenti di statue di bronzo, clandestinamente recuperati da un relitto sul quale ha poi condotto indagini un 'équipe dell'Università di Pennsylvania. Tra essi la testa-ritratto di filosofo esposta nel Museo Nazionale di Reggio Calabria. Nello stesso museo si conservano le due statue bronzee rinvenute a Riace, sempre in Calabria, nel 1972.

Nel 1974, poi, al largo della costa adriatica tra Fano e Pesaro, viene clandestinamente recuperata e quindi esportata dall'Italia la statua bronzea di un atleta vittorioso in atto di incoronarsi, attribuita a Lisippo (v.), ora al Paul Getty Museum di Malibu, in California. Nel 1979, al largo di Lemno, in Grecia, è stata casualmente recuperata parte di una statua equestre di Augusto in bronzo, ora nel Museo Nazionale di Atene. Di recente, infine, nel canale di Martigues (foce del Rodano), in Francia, si è ripescata la testa di una colossale statua-ritratto di Augusto in marmo di Carrara.

Bibl.: A. Tchernia, in Encyclopaedia Universalis, II, Parigi 1968, pp. 291-296, s.v. Archéologie sous-marine; Κ. Muckelroy, Maritime Archaeology, Cambridge 1978; P. A. Gianfrotta, P. Pomey, Archeologia subacquea, Milano 1981. - Per l'archeologia e l'architettura navali: L. Casson, Ships and Seamanship in the Ancient World, Princeton 1971 (Paperback Edition 1986, con aggiornamenti); P. Pomey, A. Tchernia, Le tonnage maximum des navires de commerce romains, in Archaeonautica, II, 1978, pp. 233-251; L. Basch, Le musée imaginaire de la marine antique, Atene 1987. - Notizie e articoli, di carattere sia archeologico che tecnico, appaiono in riviste specializzate, come The International Journal of Nautical Archaeology and Underwater Exploration, The Mariner's Mirror, Archaeonautica, Les Cahiers d'Archéologie Subaquatique, Forma Maris Antiqui (nella Rivista di Studi Liguri) o, con periodicità irregolare, nelle cronache di Gallia (anni 1958, 1960, 1962, 1969, 1973, 1975, 1982, 1985, 1987-1988), in appositi supplementi del BdA (al n. 4, 1982; al n. 29, 1985; ai nn. 37-38, 1986), in Sefunim. - V. anche Arqueología Submarina. VI Congreso Internacional, Cartagena 1982, Madrid 1985. Non pubblicati invece gli atti del IV e del V Convegno internazionale di archeologia sottomarina.

Per ulteriori approfondimenti su relitti e siti sommersi: P. R. V. Marsden, A Roman Ship from Blackfriars, Londra 1967; A. M. McCann, A Fourth Century B.C. Shipwreck near Taranto, in Archaeology, XXV, 1972, p. 181 ss.; AA.VV., L'épave Port-Vendres II et le commerce de la Bétique â l'époque de Claude, in Archaeonautica, I, 1977, pp. 3-143; H. Blanck, Der Schiffsfund von der Secca di Capistello bei Lipari, in RM, LXXXV, 1978, p. 91 ss.; AA.VV., L'épave romaine de la Madrague de Giens (Viir) (Gallia, Suppl. XXIV), Parigi 1978; V. Santa Maria Scrinari, Le navi del porto di Claudio, Roma 1979; H. Frost, Lilybaeum (Marsala), The Punic Ship: Final Excavation Report (NSc, XXX, 1976, Suppl.), Roma 1981; P. A. Gianfrotta, Commerci e pirateria: prime testimonianze archeologiche sottomarine, in MEFRA, XCIII, 1981, p. 227 ss.; G. Purpura, Sulle vicende ed il luogo di rinvenimento del cosiddetto Melqart di Selinunte, in Sic A, XLVI-XLVII, 1981, pp. 87 ss.; P. Pomey, L'épave de Bon-Porté et les bateaux cousus de Mediterranée, in The Mariner's Mirror, LXVII, 1981, pp. 225 ss.; G. F. Bass, F. H. van Doorninck Jr. (ed.), Yassi Ada, I. A Seventh-Century Byzantine Shipwreck, College Station (Texas) 1982; O. Höckmann, Spätrömische Schiffsfunde in Mainz, in AKorrBl, XII, 1982, p. 231 ss.; J. R. Steffy, The Athlit Ram, in The Mariner's Mirror, LXIX, 1983, p. 229 ss.; AA.VV., Baia, il ninfeo imperiale sommerso di Punta Epitaffio, Napoli 1983; G. F. Bass, The Nature of the Serçe Limarvi Glass, in JGS, XXVI, 1984, p. 64 ss.; J. P. Oleson, R. L. Hohlfelder, A. Raban, R. L. Vann, The Caesarea Ancient Harbor Excavation Project: Preliminary Report on the 1980-1983 Seasons, in JFieldA, XI, 1984, p. 281 ss.; J. R. Steffy, The Kyrenia Ship. An Interim Report on Its Hull Construction, in AJA, LXXXIX, 1985, p. 71 ss.; M. Bound, Early Observations on the Construction of the PreClassical Wreck at Campese Bay, Island of Giglio: Clues to the Vessel's Nationality, in Sewn Planks Boats (BAR, Int. s., 276), Oxford 1985, p. 49 ss.; P. E. Arias, L'anfora argentea di Porto Baratti, Roma 1986; A. Arribas, M. G. Trias, D. Cerda, J. de Hoz, El barco de el Sec (Costa de Calma, Mallorca), Maiorca 1987; S. Wachsmann, The Galilee Boat, in Biblical Archaeology Review, XIV, 1988, 5, p. 18 ss.; A. Hesnard, M.-B. Carre, M. Rival, B. Dangréaux, L'épave romaine Grand Ribaud D (Hyères, Var), in Archaeonautica, VIII, 1988, pp. 3-180; J. Nieto Prieto e altri, Excavacions arqueològiques subaquâtiques a Cala Culip, I, Girona 1989; E. Touloupa, La statua equestre in bronzo di Augusto rinvenuta nel nord dell'Egeo, in BdA, LXXIV, 1989, p. 67 ss.; G. F. Bass, C. Pulak, The Bronze Age Shipwreck at Ulu Burun: 1986 Campaign, in AJA, XCIII, 1989, p. 1 ss.; P. A. Gianfrotta, Testimonianze sottomarine al Circeo, in Atti del Convegno Incontro con l'archeologia, Sabaudia 1984, Roma 1989, p. 43 ss.

(P. A. Gianfrotta)

I Bronzi di Brindisi. - L'interesse archeologico per lo specchio di mare prospiciente Punta del Serrone, c.a due miglia a NO dell'imboccatura del porto esterno di Brindisi, risale al 1972. È di quell'anno, infatti, la notizia del rinvenimento di un piede bronzeo, di grandezza maggiore del vero, da parte di subacquei dilettanti, acquisito direttamente dal Museo Archeologico Provinciale di Brindisi e poi restaurato dall'Istituto Centrale per il Restauro; ma nessun ulteriore dato poté trarsi dalle ricognizioni successivamente effettuate nella zona.

Nel luglio 1992, altri subacquei rinvenivano casualmente un altro piede bronzeo, in grandezza naturale, recuperando dopo alcuni giorni ulteriori reperti e individuandone altri a c.a 400 m dalla riva e a 15/16 m di profondità.

A questi rinvenimenti casuali è seguita, dopo le prime immersioni ricognitive, un'apposita campagna di scavo nei mesi agosto-settembre 1992, che ha portato al recupero di 121 reperti significativi di statue in bronzo, sparsi sul fondo roccioso o, nel caso dei due meglio conservati, incastrati al di sotto di un rialzo della roccia.

Agli inizi di novembre dello stesso anno, inoltre, una campagna di prospezioni veniva condotta dalla nave oceanografica «Mirto», dell'Istituto Idrografico della Marina Militare, che, percorrendo rotte parallele e facendo uso di side-scansonar e di magnetometro a protoni, riusciva a indivi duare alcune anomalie riferibili ad altri resti sommersi, la cui specifica natura potrà essere meglio precisata solo attraverso successive indagini archeologiche.

Il materiale bronzeo recuperato nel corso del 1992 è stato preliminarmente distinto in: 2 statue in discreto stato di conservazione, 23 fra teste intere e parti di teste, 22 frammenti di arti superiori, 15 di arti inferiori, 52 di panneggi, 7 di natura diversa o irriconoscibili.

L'insieme si presenta eterogeneo per dimensioni, tipi e cronologia, risultando, almeno a un primo esame dei reperti più significativi, scaglionato tra il IV sec. a.C. e il III d.C. Poco aggiungono dal punto di vista cronologico gli altri reperti: un'ancora in pietra, un anello per velatura, uno scandaglio in piombo, varí frammenti di anfore da trasporto.

I reperti bronzei più antichi (IV sec. a.C. o prima età ellenistica) sono costituiti da due teste maschili barbate, una incompleta riferibile al tipo del filosofo seduto, e l'altra, forse anch'essa di filosofo, eccezionale anche per la conservazione delle labbra e di uno degli occhi eseguiti in altro materiale.

Tardo-ellenistica è un'altra testa virile dalla corta barba, del tipo dei dinasti ellenistici, a volte preso come modello anche nel ritratto romano repubblicano; e ancora al I sec. a.C. potrebbe riferirsi un torso maschile originariamente panneggiato intorno al bacino e alle gambe.

Sembra augustea la figura intera di un togato, il cui volto è però perduto, mentre di età giulio-claudia è un busto-ritratto ben conservato, probabilmente un Tiberio in età giovanile. Alla seconda metà del II sec. d.C. riportano le uniche due teste femminili, delle quali una di bambina, che trovano stringenti confronti con alcuni ritratti di Faustina Minore.

Tra i vari altri frammenti di teste, si riconoscono infine quelli di un personaggio caratterizzato da capelli e barba a fitti riccioli, del tipo noto da ritratti di Caracalla, o forse di Commodo.

Tutti i pezzi si presentano rifiniti, e molti anche fatti oggetto di piccole riparazioni; segno certo che in nessun caso siamo di fronte a scarti di fabbrica, come è stato ipotizzato. Al contrario, non si sono riconosciuti finora segni certi di rottura violenta, tali da far riferire il carico a una sistematica azione di rapina.

L'ipotesi più verosimile è che il trasporto, effettuato non prima del III sec. d.C., comprendesse sculture sia intere che frammentarie, alcune già usurate per la lunga esposizione agli agenti atmosferici, che si saranno ulteriormente frammentate a contatto con il fondale roccioso.

La stessa assoluta mancanza, almeno finora, di resti del fasciame ligneo, potrebbe essere dipesa dalla natura poco «ospitale» del fondo. In alternativa, potrebbe pensarsi che non di un naufragio si sia trattato, bensì della perdita, o dell'abbandono volontario, di almeno una parte del carico di una nave colta da una tempesta in prossimità del porto di destinazione.

(G. Andreassi)

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