Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Vedi Esposizione a sostanze tossiche e responsabilita penale dell'anno: 2012 - 2013

Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale

Alexander Bell

La sentenza con la quale il Tribunale di Torino ha chiuso il primo grado del maxi-processo a carico dei due ex-titolari della Eternit propone interessanti spunti di riflessione in tema di responsabilità penale nel caso di esposizione a sostanze tossiche, anche alla luce della scelta della pubblica accusa di non contestare delitti posti a tutela dell’incolumità individuale, bensì esclusivamente fattispecie incriminatrici poste a presidio dell’incolumità pubblica. Tra le diverse questioni toccate dai giudici torinesi nell’ambito del complesso impianto motivazionale di cui si compone la pronuncia in esame, si segnalano, per la loro delicatezza, quelle relative all’accertamento del nesso di causalità tra le patologie occorse agli ex-lavoratori Eternit e l’omessa collocazione di presidi antinfortunistici contestata agli imputati, nonché quella relativa alla verifica della sussistenza, nel caso concreto, di eventi disastrosi rilevanti ai sensi dell’art. 434, co. 2, c.p.

La ricognizione. Le novità giurisprudenziali e dottrinali in tema di esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale

L’accertamento della responsabilità penale in caso di esposizione a sostanze tossiche ha dato vita, negli anni, a una pluralità di problemi ermeneutici, che, soprattutto nell’ultimo decennio, sono stati oggetto di svariate pronunce giurisprudenziali.

Sotto questo profilo, il 2012 non ha fatto eccezione, l’anno che si sta chiudendo avendo visto il panorama giurisprudenziale arricchirsi di una nuova sentenza di merito, che, oltre alla notevole eco mediatica ricevuta, si segnala altresì per gli interessanti spunti di riflessione che propone in tema di esposizione a sostanze tossiche. Si fa riferimento, in particolare, alla sentenza con la quale il Tribunale di Torino ha chiuso il primo grado del maxi-processo a carico dei due ex-titolari della Eternit, condannando entrambi gli imputati alla pena di sedici anni di reclusione ciascuno per i delitti di cui agli artt. 437, co. 2, c.p. (omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravata dalla verificazione degli infortuni) e 434, co. 2, c.p. (disastro cd. innominato doloso, aggravato dalla verificazione dell’evento disastroso), in relazione a quasi tremila eventi lesivi per la salute e ai danni per l’ambiente derivati dalla lavorazione dell’amianto in quattro diversi stabilimenti (siti a Casale Monferrato, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera) operanti in Italia sino agli anni Ottanta1.

Prima di passare a esaminare più da vicino gli snodi principali della sentenza pronunciata dai giudici torinesi, va peraltro evidenziato da subito che uno degli aspetti più peculiari della vicenda processuale che ha coinvolto gli ex-vertici della Eternit risiede senza dubbio nella scelta della pubblica accusa, a fronte di quasi tremila persone offese (tra lavoratori e residenti nei Comuni ove sorgevano gli stabilimenti della multinazionale svizzero-belga), di non contestare delitti posti a tutela dell’incolumità individuale, bensì esclusivamente fattispecie incriminatrici poste a presidio dell’incolumità pubblica. Scelta che, come si dirà meglio nel proseguo (§ 3.1), è verosimilmente da attribuirsi alla volontà del pubblico ministero di sottrarsi all’altrimenti imprescindibile necessità di fornire la prova, per ciascuna delle parti offese, che la patologia sofferta (asbestosi, tumore polmonare o mesotelioma) fosse effettivamente attribuibile all’esposizione ad amianto sofferta nel periodo in cui gli imputati dirigevano la multinazionale svizzero-belga, anziché a fattori causali alternativi.

Alla luce degli esiti della vicenda processuale in esame, che hanno di fatto premiato l’impostazione accusatoria adottata dalla Procura di Torino – sebbene, come si vedrà meglio più avanti (§ 3.1), il Tribunale sia pervenuto alla condanna degli imputati muovendo da una qualificazione giuridica dei fatti oggetto di contestazione parzialmente difforme da quella proposta dalla pubblica accusa –, è peraltro verosimile che nel prossimo futuro anche altre Procure italiane riproporranno il medesimo schema accusatorio.

Ciò che, per un verso, comporta che il processo Eternit si candidi sin d’ora ad assurgere a vero e proprio leading case in tema di responsabilità penale per i danni derivanti dall’esposizione ad amianto, e, per altro verso, impone di riflettere con attenzione sull’effettiva percorribilità della strada imboccata dalla Procura e poi dal Tribunale di Torino.

La focalizzazione

La sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino si contraddistingue per un impianto motivazionale particolarmente complesso, che di seguito s’intende ripercorrere sinteticamente, focalizzando l’attenzione sui passaggi di maggiore interesse in tema di esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale.

2.1 Le statuizioni del Tribunale di Torino in ordine al delitto di cui all’art. 437 c.p.

Per ciò che concerne il capo di imputazione relativo al delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, di cui all’art. 437 c.p., il Tribunale di Torino si sofferma, anzitutto, sugli elementi costitutivi dell’ipotesi prevista dal primo comma, a tal proposito evidenziando, in prima battuta, come la dottrina e la giurisprudenza più recenti riconoscano che, sebbene la norma incriminatrice in parola non annoveri il pericolo tra gli elementi espressi di fattispecie, tuttavia una lettura costituzionalmente orientata della stessa impone comunque al giudice di accertare «l’intrinseca idoneità offensiva della condotta posta in essere dal soggetto attivo»2.

A detta dei giudici torinesi, peraltro, nel caso in esame «non è necessario approfondire tale problematica, per stabilire se sia corretto o meno il proposto metodo di accertamento del pericolo», dal momento che i danni provocati alla salute ai lavoratori dalla condotta degli imputati «sono così evidenti, da rendere superfluo affrontare la questione prospettata».

Quanto alla condotta, invece, la sentenza in esame, stante la contestazione formulata in termini omissivi da parte del pubblico ministero, dedica particolare attenzione al delicato problema esegetico di stabilire in presenza di quali presupposti scatti in capo al datore di lavoro l’obbligo giuridico di collocare le tutele antinfortunistiche.

Sul punto, il Tribunale di Torino aderisce – in antitesi con quanto statuito dal Tribunale di Venezia nel noto processo al Petrolchimico di Porto Marghera3 – a un’interpretazione fortemente estensiva del delitto in parola, affermando in particolare che, attraverso la nozione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro contenuta nell’art. 437 c.p., il legislatore non avrebbe inteso richiamare soltanto gli specifici doveri di sicurezza previsti nell’ambito della normativa antinfortunistica, bensì «l’intero complesso di disposizioni e di cognizioni derivanti da altre fonti normative ovvero dall’esperienza relativa a determinati settori produttivi, nonché – più in generale – dallo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche in materia di prevenzione infortuni e tutela della salute dei lavoratori»4. Nel caso di specie, peraltro – si legge nella sentenza –, la violazione dell’obbligo giuridico di attivarsi da parte dei due imputati risulterebbe incontroversa, dal momento che le risultanze probatorie avrebbero dimostrato che gli stessi avevano «totalmente omesso di adottare misure e sistemi di protezione efficienti ed efficaci».

Esaurita l’analisi del primo comma, ed evidenziatane la sussistenza degli estremi nel caso concreto, il Tribunale volge quindi l’attenzione all’ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 437 c.p. – che, com’è noto, trova applicazione allorché dalla rimozione ovvero dall’omissione delle cautele antinfortunistiche derivi un disastro ovvero un infortunio –, nell’alveo della quale, peraltro, la pubblica accusa aveva fatto confluire tutti gli eventi lesivi occorsi agli ex-dipendenti Eternit – e consistiti, in particolare, nell’insorgenza di patologie asbesto-correlate, quali l’asbestosi, il tumore polmonare e il mesotelioma – gli eventi di disastro ambientale riguardando, invece, il secondo capo di imputazione.

Ebbene, il primo aspetto a venire in rilievo in merito al secondo comma della norma incriminatrice in parola è la nozione di infortunio, per la ricostruzione della quale la sentenza s’inserisce nel solco tracciato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, facendo propria quella soluzione ermeneutica che tende a superare la distinzione tra infortunio e malattia, «mediante l’enucleazione di un tertium genus, rappresentato dal concetto di cd. malattia-infortunio»5, nel quale vengono fatte confluire tutte le «sindromi morbose imputabili all’azione lesiva di agenti diversi da quelli meccanico-fisici, purché insorte in occasione del lavoro»6.

In quest’ottica, la malattia-infortunio si distinguerebbe dalla malattia professionale «in quanto i due concetti non sempre coincidono, essendo l’ambito di manifestazione delle malattie professionali certamente più ampio di quello delle malattie-infortunio, perché si possono presentare sindromi morbose che, pur correlate all’attività lavorativa, non siano però dipendenti da una causa violenta determinata dall’aggressione di agente esterni, risultando prodotte invece da agenti meccanico-fisici». Alla luce di tale interpretazione, i giudici torinesi concludono nel senso che le malattie asbesto-correlate rientrano senz’altro nella nozione di malattia-infortunio così come sopra enucleata, e, conseguentemente, nell’alveo applicativo dell’art. 437 c.p.

Chiarito ciò, il Tribunale affronta allora la questione relativa alla sussistenza di un nesso eziologico tra le malattie insorte in capo agli ex-lavoratori Eternit e l’esposizione ad amianto sofferta nel corso dell’attività professionale e, più nel dettaglio, nel periodo in cui gli imputati dirigevano la multinazionale svizzero-belga.

Questione che i giudici torinesi risolvono in senso positivo, sulla base sostanzialmente di due elementi emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale: il primo, consistente nei risultati degli studi epidemiologici condotti dai consulenti tecnici del pubblico ministero, dai quali si ricava un aumento dell’incidenza delle patologie asbesto-correlate nella popolazione degli esposti all’amianto dell’Eternit, rispetto alla popolazione dei non esposti; il secondo, consistente invece nell’asserita natura dose-dipendente delle patologie lamentate dagli ex-lavoratori Eternit (asbestosi, tumore polmonare e mesotelioma), con ciò intendendosi che si tratta di patologie in relazione alle quali tutte le successive esposizioni all’amianto assumono rilevanza causale, in quanto contribuiscono ad accorciarne la latenza o comunque ad aggravarne gli effetti. Quest’ultimo dato, in particolare, viene ad assumere rilevanza decisiva ai fini dell’accertamento del nesso eziologico tra gli eventi lesivi ricondotti nell’alveo dell’art. 437, co. 2, c.p. e le condotte dei singoli imputati, ai quali si addebitava la responsabilità in ordine a soltanto una quota delle esposizioni sofferte dalle numerosissime parti danneggiate (nello specifico, quella riconducibile al periodo in cui gli imputati avevano diretto la multinazionale svizzero-belga). La natura dose-dipendente delle patologie in esame consente così al Tribunale di concludere che, quand’anche le esposizioni verificatesi nel periodo in cui i due imputati dirigevano la Eternit non avessero esse stesse provocato l’insorgere della patologia nel singolo lavoratore, avevano comunque influito sul successivo sviluppo della malattia già contratta.

Quanto, infine, alla qualificazione giuridica dell’ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 437 c.p. – questione che, come si dirà meglio più avanti, rileva anzitutto in tema di prescrizione –, i giudici torinesi escludono, anzitutto, che l’ipotesi in parola configuri un reato aggravato dall’evento, con addebito a titolo di responsabilità oggettiva – la ricostruzione in parola, che pure riflette l’intenzione originaria del legislatore storico, ponendosi, infatti, in insanabile contrasto con il principio costituzionale di colpevolezza –; del pari, criticano anche l’opinione di chi, invece, la considera alla stregua di una condizione obiettiva di punibilità, in ragione del fatto che «la condizione richiesta si trova in stretto rapporto causale con la condotta e, dunque, si finirebbe ancora una volta col configurare un caso di responsabilità oggettiva, dal momento che l’autore del reato sarebbe chiamato a rispondere di un effetto della condotta, indipendentemente dalla sua prevedibilità».

Non rimangono, allora, «che le due alternative sulle quali hanno puntato le parti del processo: il secondo comma dell’art. 437 c.p. contempla una circostanza aggravante ad effetto speciale del reato descritto nel primo comma dello stesso articolo» – come sostenuto dalle difese degli imputati –, «ovvero introduce un’ipotesi autonoma di reato, collegata a quella prevista dal comma precedente unicamente dall’identità della condotta» – come affermato dalla pubblica accusa.

Tra queste due soluzioni esegetiche, il Tribunale accoglie la seconda, sul punto argomentando, in primo luogo, che non sarebbe corretto sostenere – come invece fanno, a detta dei giudici torinesi, coloro che individuano nell’ipotesi in parola una mera circostanza aggravante – che la prospettazione di un dolo rispetto all’evento del secondo comma dell’art. 437 c.p. comporterebbe necessariamente il mutamento del titolo del reato in lesioni personali volontarie, dal momento che «il concetto di infortunio e quello di lesioni personali non coincidono e non possono essere confusi»7.

In secondo luogo, il Tribunale evidenzia altresì che «la verificazione dell’evento previsto nel secondo comma, sia sotto l’aspetto oggettivo, sia sotto l’aspetto soggettivo, costituisce», a ben vedere, «un’eventualità già descritta nel primo comma, sia pure solo a titolo di astratto pericolo, per cui o si ritorna all’ipotesi dell’addebito oggettivo dell’evento, soluzione però inaccettabile perché contrasterebbe con il principio costituzionale contenuto nell’art. 27 della Costituzione, oppure si ritiene preferibile escludere che possa essere assegnata alla fattispecie descritta nel secondo comma dell’art. 437 c.p. una natura diversa dall’ipotesi di figura autonoma di reato, in quanto – in caso contrario – l’evento verrebbe ad assumere un ruolo fondamentale già nella fattispecie descritta nel primo comma dell’art. 437 c.p., alterando, di fatto, la natura di reato di pericolo presunto di tale figura criminosa ed assumendo le caratteristiche di elemento essenziale del reato»8.

Le conseguenze pratiche della qualificazione giuridica fatta propria dalla sentenza si apprezzano prevalentemente sotto il profilo prescrizionale, dalla natura del capoverso dell’art. 437 c.p. quale ipotesi autonoma di reato il Tribunale facendone discendere, infatti, che, ai fini del calcolo della prescrizione, «sarà valutato il tempo necessario a estinguere i vari reati, considerati autonomamente, appunto, in relazione alle singole persone offese, calcolando l’inizio del termine di prescrizione dalla verificazione di ciascun evento che, nel nostro caso, è costituito, per ogni reato, dall’insorgenza della rispettiva malattia»; ciò che, in ultima istanza, conduce i giudici torinesi a ritenere prescritti i reati relativi alle patologie insorte prima del 13 agosto 1999 (ovverosia dodici anni e sei mesi – dieci anni di pena massima ex art. 437, co. 2, c.p., cui si somma l’aumento di un quarto – prima della data in cui viene pronunciata la sentenza di condanna).

2.2 Le statuizioni del Tribunale di Torino in ordine al delitto di cui all’art. 434 c.p.

Volgendo lo sguardo al secondo capo di imputazione – con il quale si contestava agli imputati il delitto di cui all’art. 434, co. 2, c.p. –, si osserva anzitutto che il Tribunale, al fine di ricostruire la nozione di disastro cd. innominato, rinvia pressoché integralmente a quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 2.8.2008, n. 327, che, com’è noto, ha scolpito il concetto di disastro nel senso che, sul piano dimensionale, «si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi e gravi, complessi ed estesi»; e, sul piano della proiezione offensiva, invece, «l’evento deve provocare – in accordo con l’oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la «pubblica incolumità») – un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti»9.

Sembra di comprendere che il Tribunale identifichi l’evento di disastro nella pesante contaminazione da amianto che ha interessato tutti e quattro i siti industriali della Eternit oggetto di processo e che, secondo quanto emerso in sede dibattimentale, sarebbe avvenuta mediante «il trasporto di materiali di amianto senza alcuna protezione e senza alcuna copertura, il rammendo dei sacchi rotti …, la veicolazione verso l’ambiente esterno della polvere degli stabilimenti attraverso impianti di ventilazione inadeguati e pericolosi», nonché – in particolare a Cavagnolo e Casale Monferrato – mediante il «disinvolto abbandono di materiali di scarto in discariche di fortuna a cielo aperto», lo «scarico di reflui liquidi contenenti amianto nel fiume Po» e la «cessione di feltri … e, soprattutto, del polverino». A tal proposito, infatti, nella sentenza si afferma che «non vi è dubbio che la contaminazione dei predetti siti industriali e zone ad essi limitrofe abbia assunto caratteristiche di potenza espansiva del danno e di attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità tali da poter essere considerata come disastro». Alla luce di ciò, il Tribunale ritiene che nel caso concreto risultino integrati gli estremi dell’ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 434 c.p.

Quanto al pericolo per l’incolumità pubblica, poi, i giudici torinesi ritengono che le evidenze epidemiologiche portate nel processo dai consulenti tecnici del pubblico ministero – dalle quali emerge un aumento di incidenza delle patologie asbesto-correlate (e, in particolare, dei mesoteliomi), oltre che tra gli ex-dipendenti Eternit, anche nella popolazione dei residenti nei comuni adiacenti ai siti industriali della multinazionale svizzero-belga – dimostrino inequivocabilmente che «nel caso in esame, non si è verificato soltanto il grave ed immane pericolo per l’incolumità e la salute di un numero indeterminato di persone, di per sé già sufficiente a qualificare come disastro l’avvenuta contaminazione ambientale», bensì che «nel nostro caso, il disastro ambientale ha prodotto una serie veramente impressionante di danni alle persone in tutti e quattro i siti di cui si tratta».

Alla luce di ciò, il Tribunale ritiene che nel caso concreto risultino integrati tutti gli estremi oggettivi dell’ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 434 c.p.

In ordine all’elemento soggettivo delle fattispecie incriminatrici previste dai due commi dell’art. 434 c.p., i giudici torinesi escludono – in ciò discostandosi dalla prevalente giurisprudenza di legittimità10 – la necessità del dolo intenzionale, o anche solo diretto. A proposito del primo comma, in particolare, nella sentenza si afferma che se «si richiedesse nel soggetto attivo la specifica volontà di perseguire il risultato di cagionare il disastro, essendo tale accadimento estraneo alla fattispecie del primo comma dell’art. 434 c.p. e non necessario alla relativa sussistenza, si correrebbe il rischio di trasformare l’elemento soggettivo utile all’integrazione del reato in un dolo specifico», effetto che la giurisprudenza di legittimità espressamente esclude; «per questa ragione», prosegue la sentenza, «sembra forse preferibile ritenere che all’espressione fatto diretto a cagionare un disastro debba essere assegnata una valenza oggettiva, più che soggettiva, considerando che l’attitudine causale a provocare il disastro debba connotare solo la condotta posta in essere e non l’elemento soggettivo dell’autore del reato».

Quanto, invece, all’ipotesi prevista dal secondo comma – quella che, come detto, viene ritenuta sussistente nel caso di specie –, i giudici torinesi sottolineano come, qualora l’elemento soggettivo venisse declinato in termini di dolo intenzionale, rimarrebbero privi di ogni rilevanza penale tanto il disastro commesso con dolo eventuale, quanto il disastro commesso con dolo diretto, ciò che determinerebbe un vuoto di tutela del tutto irragionevole, alla luce del fatto che nel nostro ordinamento il delitto di disastro viene punito anche se cagionato colposamente, per effetto della previsione dell’art. 449 c.p.

Le suddette considerazioni ermeneutiche consentono pertanto al Tribunale di concludere che l’ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 434 c.p. ben possa ritenersi integrata anche in presenza di un mero dolo diretto (e finanche eventuale); ciò che per l’appunto è avvenuto nel caso degli imputati Eternit, i quali, infatti, sebbene non si fossero «posti come scopo primario della rispettiva condotta di cagionare il disastro che si è invece verificato» – il loro intento essendo stato, piuttosto, quello di «conseguire utili sul mercato attraverso la produzione del cemento-amianto» –, tuttavia «per raggiungere i loro scopi industriali e commerciali, hanno agito nella piena e perfetta consapevolezza degli enormi danni che sarebbero stati arrecati all’ambiente ed alla salute delle persone in conseguenza dei propri comportamenti criminosi».

Per quanto attiene, poi, alla qualificazione giuridica dell’ipotesi ex art. 434, co. 2, c.p., il Tribunale ritiene, sulla base delle medesime considerazioni svolte a proposito del secondo comma dell’art. 437 c.p., che anche in questo caso ci si trovi in presenza di un’autonoma figura di reato, e non di una mera fattispecie aggravata.

Da ultimo, la sentenza affronta il tema della prescrizione. A questo proposito, si osserva anzitutto che il Tribunale non aderisce all’impostazione accusatoria, secondo la quale la condotta degli imputati si sarebbe concretizzata, in un primo momento, in una serie di attività di carattere commissivo – che si sarebbero protratte sino alla chiusura degli stabilimenti e dalle quali sarebbe derivata la verificazione del disastro – e, in un secondo momento, nell’omessa realizzazione di attività volte a impedire l’ulteriore aggravarsi delle conseguenze di detto disastro – condotta che risulterebbe tuttora permanente. A detta dei giudici torinesi, infatti, nel caso di specie, oltre a non risultare «facilmente individuabile la fonte dell’obbligo, sia essa legislativa o di normazione secondaria, in violazione del quale gli imputati avrebbero omesso di impedire il disastro», risulta altresì arduo «ricostruire, sul piano della causalità, quale avrebbe dovuto essere per gli imputati l’azione doverosa omessa, compiuta la quale il risultato di impedire l’evento avrebbe potuto apparire processualmente certo».

Una volta esclusa la praticabilità della soluzione prospettata dal pubblico ministero, la sentenza rileva come, ai fini prescrizionali, «il vero problema è quello di stabilire quando il disastro si sia verificato affinché, a verificazione dell’evento avvenuta, si possa ritenere il reato consumato e, dunque, a norma di quanto disposto dall’art. 158 c.p., si possa ricavare il dies a quo per il calcolo del termine della prescrizione». È dunque a questo punto che il Tribunale s’interroga sul se e quando si sarebbero verificati, nei quattro poli industriali oggetto del procedimento, dei veri e propri eventi disastrosi, integranti i requisiti dettati dalla giurisprudenza costituzionale precedentemente citata.

In merito al quando, invece, il Tribunale ritiene che gli elementi emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale impongano di distinguere nettamente tra la situazione dei siti di Napoli-Bagnoli e Rubiera, da un lato, e la situazione degli stabilimenti di Cavagnolo e Casale Monferrato, dall’altro lato. A proposito dei primi, in particolare, nella sentenza si afferma che l’attività di bonifica delle zone inquinate avviata a seguito dell’emanazione della l. 27.3.1992, n. 257 ha consentito, sin dall’inizio degli anni Novanta – e, dunque, da circa quindici anni –, di far cessare «quella situazione di forte e grave pericolo per l’incolumità e la salute delle persone che caratterizza il disastro, pur rimanendo enormi i danni ancora da bonificare ed il pericolo che, in conseguenza di risalenti esposizioni alle fibre di amianto, qualcuno possa ancora scoprirsi affetto da letali malattie tumorali».

Viceversa, dicono ancora i giudici torinesi, le attività di «disinvolto abbandono di materiale di scarto in discariche di fortuna a cielo aperto, quella di scarico di reflui liquidi contenenti amianto nel fiume Po e quella di cessione di feltri … e, soprattutto, del polverino», che per decenni sono state realizzate presso i poli di Cavagnolo e Casale Monferrato, hanno provocato un inquinamento di dimensioni tali da doversi ritenere a tutt’oggi persistente il pericolo di rimanere esposti alle fibre di amianto, ciò che induce il Tribunale ad affermare che, in entrambi questi siti, «l’evento di disastro è tuttora permanente».

I profili problematici

Ragioni di spazio non consentono, in questa sede, di raccogliere e sviluppare tutti i molteplici spunti di riflessione che la sentenza Eternit indubbiamente propone. Di seguito ci si limiterà, pertanto, a focalizzare l’attenzione sui due passaggi motivazionali che, a parere di chi scrive, costituiscono gli snodi più problematici dell’intero impianto decisionale della sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino.

3.1 La riqualificazione dell’imputazione ex art. 437, co. 2, c.p. e le (mancate) conseguenze sotto il profilo probatorio

In precedenza si è osservato che la scelta del pubblico ministero di non contestare agli imputati delitti contro la persona, bensì esclusivamente delitti posti a tutela dell’incolumità pubblica, è stata verosimilmente dettata dalla volontà della pubblica accusa di escludere dalle questioni da trattare nel corso dell’istruttoria dibattimentale quella relativa al se ciascuna delle patologie insorte nelle quasi tremila persone offese fosse effettivamente attribuibile alle esposizioni sofferte nel periodo in cui gli imputati dirigevano la multinazionale svizzero-belga, anziché a decorsi causali alternativi.

La pretermissione della cd. causalità individuale dagli oneri probatori gravanti sulla pubblica accusa risultava, peraltro, perfettamente compatibile con la strada ermeneutica seguita dal p.m. in sede di formulazione della richiesta di rinvio a giudizio, e, in particolare, nella costruzione del primo capo di imputazione, laddove si ipotizzava che gli imputati avessero commesso un unico fatto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, aggravato dal verificarsi di più casi di malattia-infortunio in danno dei lavoratori addetti presso gli stabilimenti Eternit.

Contestando un unico fatto nell’alveo del quale venivano ricondotti tutti gli eventi lesivi occorsi agli ex-lavoratori Eternit, infatti, il pubblico ministero aveva costruito un’ipotesi accusatoria per la dimostrazione della quale sarebbe stato sufficiente, in sede dibattimentale, fornire la prova che anche un solo lavoratore si era ammalato a causa dell’esposizione ad amianto sofferta nel corso dell’attività professionale, il capoverso dell’art. 437 c.p. accontentandosi, infatti, per la sua integrazione, che dal fatto derivi un disastro o anche solo un singolo infortunio. Detto altrimenti, un’accusa costruita in questi termini aveva di fatto “liberato” il p.m. dall’onere di dover dimostrare la sussistenza del nesso di causa in relazione a ciascuna delle persone offese, e gli aveva consentito di accontentarsi della prova che anche solo una quota di esse fosse eziologicamente riconducibile alla condotta degli imputati. Prova che, peraltro, nel processo in esame era stata puntualmente fornita dalla pubblica accusa, grazie alle indagini epidemiologiche condotte dai propri consulenti tecnici, dalle quali, infatti, era emerso un significativo aumento dell’incidenza delle patologie asbesto-correlate tra coloro che negli anni precedenti erano stati esposti ad amianto: dato, quest’ultimo, che, sebbene non consentisse di stabilire chi si sarebbe ammalato comunque e chi invece si era ammalato a causa dell’esposizione ad amianto, tuttavia era senz’altro sufficiente per concludere che una quota di persone non si sarebbe ammalata in assenza di quel fattore di rischio. A fronte di un percorso argomentativo lineare quale quello tracciato dal pubblico ministero sin dalla formulazione del capo di imputazione, il Tribunale decide tuttavia di discostarsene, muovendo, in particolare, da una qualificazione giuridica dei fatti oggetto di contestazione radicalmente diversa rispetto a quella proposta dalla pubblica accusa. I giudici di Torino, infatti, sebbene concordino con il p. m. in ordine alla sussistenza, nel caso di specie, degli estremi del delitto di cui all’art. 437, co. 2, c.p., ritengono, tuttavia, che le condotte contestate agli imputati non integrino un solo fatto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, aggravato dal verificarsi di più casi di malattia-infortunio, bensì tante diverse ipotesi di 437, co. 2, c.p. quanti sono gli eventi lesivi lamentati dalle diverse persone offese. Ebbene, è opinione di chi scrive che il Tribunale, se avesse davvero “fatto i conti” con questa diversa prospettiva ermeneutica, non avrebbe potuto accontentarsi degli elementi probatori emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale – e, in particolare, dei soli risultati forniti dalle indagini epidemiologiche condotte dai consulenti del p. m. – per addivenire alla condanna degli imputati in relazione al delitto contestato con il primo capo di imputazione.

A ben vedere, infatti, l’impostazione ermeneutica fatta propria dal Tribunale finisce con il riproporre, in tema di nesso causale, quegli stessi problemi probatori che il p.m. aveva inteso superare, contestando un unico fatto di 437, co. 2, c.p., dal momento che, se si ritiene che a ciascun infortunio derivante da una condotta di omessa collocazione di presidi antinfortunistici corrisponda un’autonoma ipotesi di 437, co. 2, c.p., dovrebbe allora giocoforza pretendersi, in relazione a ogni singolo infortunio, la prova che quest’ultimo sia stata la conseguenza proprio della condotta omissiva dell’imputato, e non di fattori causali alternativi; prova che, all’evidenza, gli studi epidemiologici non sono strutturalmente in grado di fornire. Da questo punto di vista, dunque, la sentenza pronunciata dai giudici torinesi appare viziata da un palese vuoto probatorio, che, se debitamente valorizzato in sede di appello dalle difese degli imputati, rischia di pregiudicare gli enormi sforzi profusi in questi anni dalla Procura di Torino nel costruire un impianto accusatorio in grado di superare indenne tutti i gradi di giudizio.

3.2 Una problematica ricostruzione dell’evento di disastro

Un ulteriore passaggio problematico della sentenza appena esaminata concerne, senza dubbio, la ricostruzione dell’evento di disastro, rilevante ai sensi del delitto ex art. 434, co. 2, c.p. A tal proposito, si è in precedenza evidenziato come i giudici di Torino, nel caso di specie, ravvisino detto evento nella pesante contaminazione da amianto che ha colpito i siti industriali Eternit di Casale Monferrato, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera, a seguito di una decennale attività di diffusione incontrollata verso l’ambiente esterno della polvere di amianto prodotta dalla lavorazione industriale nonché dalla frantumazione degli scarti di produzione.

La sentenza in esame, dunque, si pone in linea con quell’orientamento giurisprudenziale – sempre più diffuso – che, al fine di colmare la mancanza, nel nostro ordinamento, di una espressa figura criminosa di disastro ambientale, sfrutta l’elasticità semantica del concetto di disastro innominato, estendendone la portata applicativa sino a ricomprendervi qualsiasi evento di inquinamento dal quale sia derivato un pericolo per la salute dell’uomo, quand’anche si tratti di un evento che non ha comportato alcun impatto violento sulla realtà materiale. Basti qui citare, a titolo di esempio, una pronuncia della Corte di Cassazione che ha ritenuto di ravvisare gli estremi del delitto di cui al capoverso dell’art. 434 c.p. nell’accidentale sprigionamento di una nube tossica da uno stabilimento industriale11; o, ancora, una più recente sentenza di merito, nell’ambito della quale è stato sostenuto che, in astratto, nulla vieterebbe di ritenere sussistente un disastro innominato nell’accumulo e nell’interramento di massicce quantità di rifiuti in diversi fondi agricoli12.

Tale soluzione ermeneutica non persuade. È opinione di chi scrive, infatti, che quest’orientamento giurisprudenziale – che pure nasce dalla condivisibile volontà di riservare ai fatti di cd. disastro ambientale un trattamento sanzionatorio più adeguato rispetto a quello previsto dalle mere ipotesi contravvenzionali contenute nella legislazione speciale (si fa riferimento, in particolare, al d.lgs. 3.4.2006, n.152, cd. Testo Unico Ambiente) –, finisca, tuttavia, per plasmare un concetto di disastro che risulta eccessivamente appiattito sulla mera idoneità del fatto a minacciare la salute pubblica, e attraverso il quale vengono ricondotti nell’alveo dell’art. 434 c.p. anche fatti del tutto sprovvisti, oltre che dei profili modali che invece contraddistinguono tutti gli eventi disastrosi “nominati” previsti dalle fattispecie incriminatrici di cui Titolo VI del codice penale, anche – e soprattutto – di quell’impatto violento sulla realtà materiale che viene implicitamente evocato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 327/2008, allorché afferma che per la sussistenza di un disastro innominato «si deve essere al cospetto di un evento distruttivo».

Note

1 Trib. Torino, 13.2.2012, in www.penalecontemporaneo.it , 14.5.2012. Sulla sentenza, cfr. altresì la scheda illustrativa di Masera, L., La sentenza Eternit: una sintesi delle motivazioni, ibidem, 30.5.2012.

2 Nello stesso senso, cfr. Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale. Parte speciale, I, IV ed., 2008, 514; Corbetta, S., Delitti contro l’incolumità pubblica, I, I delitti di comune pericolo mediante violenza, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da G. Marinucci-E. Dolcini, 2003, 710; Gargani, A., Reati contro l’incolumità pubblica, I, Reati di comune pericolo mediante violenza, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da C.F. Grosso-T. Padovani-A. Pagliaro, 2008, 547; Alessandri, A., Cautele contro disastri o infortuni sul lavoro, in Dig. pen., II, 1988, 154. Contra, Zagrebelsky, V., Omissione o rimozione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, in Enc. dir., XXX, 1980, 10.

3 I giudici veneziani, a proposito dell’art. 437 c.p., avevano infatti affermato che «la previsione di cui all’art. 437 c.p. costituisce una fattispecie avente riguardo non già ad una qualunque violazione del generico dovere di sicurezza, ma soltanto alla violazione dolosa di precise disposizioni della statuizione normativa speciale, che di per sé siano sanzionate come contravvenzioni e che prescrivano specifici doveri di collocazione di impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro» (Trib. Venezia, 29.5.2002, consultabile sul sito www.petrolchimico.it).

4 In senso stanzialmente analogo, cfr. Alessandri, A., op. cit., 149; e, in sede giurisprudenziale, Corte Ass. Torino, sez. II, 14.11.2011, in Guida dir., 2011, n. 49-50, 50 ss.

5 Gargani, A., op. cit., 560.

6 Cass. pen., sez. I, 9.7.1990, in Dir. prat. lav. 1990, 43.

7 A detta dei giudici torinesi, la definizione giuridica di infortunio «è riferibile anche ad un’invalidità assoluta che comporti l’assenza dal lavoro per più di tre giorni che non necessariamente deve coincidere col concetto di malattia nel corpo o nella mente nella quale, al contrario, si estrinseca la lesione, per cui – pur essendo molto frequente – non è comunque automatico che dall’infortunio consegue la lesione, mentre per quanto riguarda la malattia infortunio e la malattia professionale se ne è già rilevata la non perfetta coincidenza».

8 Sulla natura dell’ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 437 c.p., in dottrina prevale la tesi secondo cui la disposizione in parola configurerebbe una mera circostanza aggravante: in tal senso, cfr. Battaglini, E.-Bruno, B., Incolumità pubblica (delitti contro la), in Nss.D.I., VIII, Torino, 1962, 559; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 514; Zagrebelsky, V., op. cit., 11; Alessandri, A., op. cit., 157. Propende, invece, per la medesima soluzione ermeneutica adottata dal Tribunale di Torino Corbetta, S., op. cit., 754, il quale evidenzia, tra l’altro, che se si interpretasse il capoverso come una mera circostanza aggravante, si perverrebbe a esiti sanzionatori inaccettabili, in quanto l’aumento di pena previsto per l’infortunio ovvero per il disastro potrebbe essere neutralizzato in sede di giudizio di bilanciamento.

9 C. cost., 1.8.2008, n. 327, in Giur. cost., 2008, 3529 e ss., con nota di Giunta, F., I contorni del disastro innominato e l’ombra del disastro ambientale alla luce del principio di determinatezza.

10 Cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. I, 14.12.2010, n. 1332.

11 Cass. pen., sez. I, 20.4.2006, n. 20370.

12 Trib. Castrovillari, 16.6.2008, n. 297, in www.penalecontemporaneo.it.

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