Espropriazione. La nuova disciplina dell'acquisizione sanante

Libro dell'anno del Diritto 2012

Espropriazione. La nuova disciplina dell'acquisizione sanante

Salvatore Bellomia

Espropriazione
La nuova disciplina dell’acquisizione sanante

Il d.l. n. 98/2011, convertito nella l. n. 111/2011, inserendo l’art. 42 bis nel t.u. espropriazioni (d.P.R. n. 327/2001) ha reintrodotto l’istituto dell’acquisizione sanante, in precedenza disciplinato dall’art. 43 del medesimo t.u. dichiarato costituzionalmente illegittimo nel 2010. La neo-introdotta disciplina, pur contenendo alcune novità rispetto alla previgente, non sembra idonea a superare i dubbi di compatibilità sostanziale dell’istituto dell’acquisizione con il principio di legalità. Nel corso del 2011, inoltre, in una fase antecedente all’intervento del legislatore delegato, la giurisprudenza e la dottrina hanno affrontato la questione della disciplina applicabile alle occupazioni sine titulo, fornendo al riguardo diverse ricostruzioni, alcune delle quali conservano attualità nell’ipotesi in cui la p.a. non addivenga all’adozione del provvedimento di acquisizione.

La ricognizione. L’art. 42 bis t.u. espropriazioni e le premesse all’introduzione dell’acquisizione sanante

Nel 2011, nel contesto di una complessa manovra economica (di cui al d.l. 6.7.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella l. 15.7.2011, n. 111), il legislatore ha introdotto nel t.u. espropriazioni (d.P.R. 8.6.2001, n. 327) l’art. 42 bis, rubricato Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico: la disposizione, disciplinante la cd. acquisizione sanante, ricalca, con alcune modifiche, la disciplina in precedenza recata dall’art. 43 del medesimo t.u., dichiarato costituzionalmente illegittimo nel 2010. I profili di differenziazione tra la precedente e l’attuale disciplina, seppure di rilievo, non paiono idonei a superare i dubbi di compatibilità dell’istituto con il principio di legalità, come inteso dalla Corte di Strasburgo e dal nostro Giudice delle leggi, che già l’art. 43 aveva sollevato. L’acquisizione di un bene utilizzato senza titolo per scopi di interesse pubblico persegue la finalità di regolarizzare le conseguenze di procedure ablatorie illegittime o di comportamenti illeciti della p.a. in ambito espropriativo. L’istituto venne introdotto dal legislatore nel t.u. del 2001 allo scopo di «adeguare l’ordinamento italiano alla CEDU»1, a seguito della condanna dello Stato italiano da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per l’ineffettiva tutela di coloro che fossero stati privati illegittimamente o sine titulo di un proprio bene acquisito dalla p.a. a seguito della trasformazione dello stesso, contenuta nelle pronunce Belvedere Alberghiera e Carbonara e Ventura del 20002, con riguardo a fattispecie rispettivamente qualificate come occupazione usurpativa ed acquisitiva. Al riguardo, tra le varie figure patologiche (originarie o sopravvenute), di origine pretoria, cui l’occupazione di un’area può dare luogo si possono distinguere3 (ma con l’espressa avvertenza che il linguaggio diviene spesso confuso, sicché è arduo qualsiasi tentativo di semplificazione) l’occupazione acquisitiva (o accessione invertita) e l’occupazione usurpativa. La prima si verifica allorché l’occupazione dell’area sia legittimamente disposta e le opere siano state effettivamente realizzate, ma il decreto di esproprio non sia stato emanato entro il termine di efficacia dell’occupazione4; la seconda origina da un comportamento di fatto della p.a., connotato dalla mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, carente ab initio (occupazione usurpativa pura) o successivamente a seguito dell’annullamento dell’atto in cui essa era contenuta (occupazione usurpativa spuria)5. In base alla giurisprudenza della Cassazione, nel primo caso l’occupazione del bene, unitamente alla sua trasformazione irreversibile, costituiva un illecito istantaneo, con effetti permanenti, determinante l’acquisto della proprietà in capo alla p.a. e il diritto del privato al risarcimento del danno per la relativa perdita, da richiedere nel termine prescrizionale. Nel secondo caso, invece, l’occupazione sine titulo era qualificata come illecito permanente, legittimante il privato alle azioni reintegrative, potendo derivare l’acquisto della proprietà in capo all’occupante solo da una scelta del soggetto leso (manifestata con la proposizione dell’azione risarcitoria in luogo di quella restitutoria). Tale non edificante quadro, come anticipato, è stato giudicato in contrasto con la CEDU (art. 1 prot. n. 1) in quanto lesivo del principio di legalità, il quale impone che l’ingerenza nel pacifico godimento di un bene sia attuata dalla p.a. per soddisfare un pubblico interesse e nel rispetto delle forme e delle condizioni previste dalla legge ed implica che la medesima p.a. possa acquisire un bene di proprietà privata soltanto attraverso un formale e valido procedimento ablatorio, con la categorica esclusione di qualsiasi forma di «espropriazione indiretta»6. In tale contesto, il legislatore italiano, nel predisporre il citato t.u. espropriazione, si è espressamente occupato all’art. 43 della Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico, e cioè di quella che è comunemente nota come «acquisizione sanante», con lo specifico intento di ovviare alla mancanza di una base legale dell’acquisizione di un bene alla proprietà pubblica come effetto di occupazione illegittima. Il co. 1 dell’ art. 43 prevedeva infatti che: «Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni» (la disposizione accumunava le ipotesi in precedenza ascritte all’occupazione acquisitiva ed usurpativa, consentendo di prescindere dalla dichiarazione di pubblica utilità, quale indefettibile punto di partenza del fenomeno ablatorio in senso lato, in grado di qualificare l’opera come pubblica in quanto diretta a soddisfare un interesse pubblico valutato ed esplicitato). Disponeva, inoltre, al co. 3, che laddove fosse stato impugnato uno degli atti della procedura di esproprio ovvero fosse stata esercitata un’azione diretta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, «l’amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo». L’art. 43 era dal giudice amministrativo ritenuto applicabile anche alle occupazioni sine titulo realizzatesi anteriormente all’entrata in vigore del t.u.7, mentre, in senso contrario, la Cassazione8 riteneva non applicabile l’acquisizione sanante alle fattispecie di occupazione iniziate anteriormente a detta data, argomentando l’assunto dall’art. 57 dello stesso t.u., ai sensi del quale le disposizioni del d.P.R. n. 327/2001 non trovano applicazione «ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza». Il diverso orientamento era strettamente collegato alla questione della persistente vitalità, o meno, nel nostro ordinamento dell’istituto dell’occupazione acquisitiva. Al riguardo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato9 rilevava come l’emanazione di un (legittimo) provvedimento di acquisizione sanante, ai sensi del t.u., rappresentasse ormai «l’unico rimedio riconosciuto dall’ordinamento» per evitare la restituzione dell’area al soggetto interessato, in quanto l’art. 43 avrebbe presupposto, pur verificatasi l’occupazione e la trasformazione del bene da parte della p.a. in assenza di valido titolo, la persistenza del diritto di proprietà privata ed avrebbe implicato, in ogni caso, un illecito di natura permanente. Diversamente, la Cassazione, a partire da una pronuncia delle Sezioni Unite del 200310, collocava l’istituto dell’occupazione appropriativa in un contesto di regole ormai sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, che lo avrebbero reso compatibile con la normativa CEDU (diversamente dalle fattispecie assai risalenti nel tempo su cui la Corte di Strasburgo ebbe a pronunciarsi nel 2000): la necessità di una valida dichiarazione di pubblica utilità e la previsione di un risarcimento ragionevole (rapportato all’integrale valore venale del bene a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 349/2007) realizzerebbero un giusto equilibrio tra garanzia della proprietà ed interessi generali11; parimenti, con riguardo all’occupazione usurpativa, sarebbe consentito al privato ottenere piena tutela, fino alla restitutio in integrum o, qualora non ritenga di avere a ciò interesse, fino al risarcimento integrale del danno12.

1.1 La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 43 t.u. espropriazioni

In tale contesto nel 2010 è intervenuta la decisione della Corte costituzionale n. 293 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4313. Il giudice a quo14 aveva evocato un triplice livello di parametri di costituzionalità, facendovi corrispondere altrettante, specifiche censure:

a) il contrasto con gli artt. 3 (principio di uguaglianza e di ragionevolezza), 24 (principio della pienezza della tutela giurisdizionale), 42 (tutela costituzionale della proprietà privata), 97 (buon andamento e imparzialità della p.a.) e 113 (garanzia della tutela giurisdizionale contro gli atti della p.a.) Cost., in quanto, anche alla luce del «diritto vivente» (e cioè dell’interpretazione giurisprudenziale invalsa presso le Corti italiane), l’art. 43 avrebbe configurato uno strumento di regolarizzazione permanente ed ordinario delle occupazioni senza titolo, idoneo a sanare la situazione di fatto creatasi e a far venire meno l’illecito aquiliano, anche in violazione dello stesso giudicato amministrativo che avesse annullato gli atti ablatori o, addirittura, ordinato la restituzione del bene;

b) il contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost., per il mancato rispetto, da parte del legislatore italiano, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali15, e ciò alla luce della già ricordata condanna da parte della Corte di Strasburgo di qualsiasi forma di espropriazione indiretta;

c) l’eccesso di delega e, dunque, il contrasto con l’art. 76 Cost., non risultando l’art. 43 conforme ai «principi e criteri direttivi» cui il riordino della normativa mediante redazione di t.u. deve attenersi ai sensi della l. 8.3.1999, n. 50 e che impongono di realizzare un mero coordinamento formale delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa. La Corte costituzionale ha privilegiato, ai fini dell’accoglimento, quest’ultima censura, stante la relativa pregiudizialità logico-giuridica. Ricostruito preliminarmente l’ambito del sindacato di costituzionalità dell’eccesso di delega, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 43 perché sostanzialmente innovativo – e dunque esorbitante rispetto ai compiti di riordino e riassetto della materia assegnati al legislatore delegato – tanto rispetto alla disciplina espropriativa contenuta nelle leggi previgenti (non contenente alcuna norma «che potesse giustificare un intervento della pubblica amministrazione, in via di sanatoria, sulle procedure ablatorie previste»), quanto rispetto agli istituti pretori dell’occupazione acquisitiva ed usurpativa (assimilati nell’art. 43). Pur fondandosi la declaratoria di incostituzionalità sull’eccesso di delega, la sentenza contiene alcune importanti affermazioni di principio, non rese nella forma dell’obiter dictum, ma chiaramente poste quali punti qualificanti del decisum, che possono così sintetizzarsi:

i) l’art. 43 prevede, in realtà, un «generalizzato potere di sanatoria », a favore della p.a. che ha operato l’illecito e, addirittura, «a dispetto di un giudicato» che disponga il ristoro in forma specifica;

ii) la disciplina del t.u. è, sul punto, in contrasto con i rilievi mossi dalla Corte di Strasburgo nei confronti della espropriazione indiretta, configurando una situazione di vantaggio che la p.a. trae da un comportamento illecito ad essa imputabile, in evidente violazione del principio di legalità;

iii)l’estensione dell’effetto sanante anche alle servitù appare particolarmente incoerente, facendo in tale caso radicale difetto «la non emendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale dell’opera pubblica». Le affermazioni si traducono in altrettanti «paletti» che avrebbero dovuto delimitare (ben oltre l’emendabilità del vizio formale dell’eccesso di delega) lo spazio a disposizione del legislatore per il pure indispensabile intervento di adeguamento. È evidente, in particolare, che non sarebbe stato consentito al legislatore di limitarsi alla mera novazione della fonte, trasferendo cioè in un’apposita norma di legge ordinaria lo stesso contenuto precettivo del decreto delegato16. A tale proposito, la Consulta ha rilevato, infatti, che il legislatore avrebbe potuto tenere conto delle indicazioni della Corte di Strasburgo, disciplinando in modi diversi la materia, «ed anche espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei»; quest’ultima, del resto, sembrerebbe essere la soluzione verso cui propende la stessa Corte europea, «la quale, infatti, sia pure incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da ‘azioni illegali’, e ciò sia allorché essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorché derivi da una legge – con espresso riferimento all’articolo 43 del t.u. qui censurato –, in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo ‘buona e debita forma’»; pertanto, «non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità».

La focalizzazione. Le incertezze giurisprudenziali successive alla decisione della Corte costituzionale

Alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 hanno fatto seguito nel corso del 2010 e del 2011 dibattiti dottrinari e giurisprudenziali in ordine alla disciplina applicabile alle occupazioni senza titolo ed una molteplicità di ricostruzioni, alcune al limite della stravaganza. Una questione risolta, come già ricordato, in modo divergente dal giudice ordinario e dal giudice amministrativo concerne l’eventuale persistente applicabilità degli istituti dell’occupazione usurpativa ed acquisitiva, non concordando i due plessi giudiziari sull’attuale compatibilità degli istituti in questione con il quadro normativo e giurisprudenziale della CEDU. In particolare, ancora recentemente le Sezioni Unite hanno affermato che, nel caso di occupazione illegittima di un’area da parte della p.a. e successiva sua irreversibile trasformazione, la richiesta di reintegrazione in forma specifica del pregiudizio subito ex art. 2058, co. 1, c.c. è ordinariamente destinata ad un esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica17. Il giudice amministrativo, diversamente, esclusa ogni forma di espropriazione indiretta, ha affermato l’obbligo restitutorio del bene, salva l’acquisizione per usucapione ultraventennale ed ha attribuito rilievo alla eccessiva onerosità ex art. 2058 c.c., come causa di impedimento alla restituzione, solo se, oltre alla tutela ripristinatoria (estranea alla disciplina, ai presupposti e limiti di quella risarcitoria), sia richiesto il ripristino dello status quo (inteso come risarcimento in forma specifica): in tal caso, «il risarcimento in forma specifica può essere negato quando il costo di ripristino supererebbe il valore di mercato del bene». Difficilmente, inoltre, l’obbligo restitutorio potrebbe essere escluso, a giudizio del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 2933 c.c., dal momento che «la previsione in questione ha carattere eccezionale e trova applicazione nei riguardi della demolizione delle sole opere che sono fonti di produzione e di distribuzione della ricchezza»18. Ulteriore questione che la giurisprudenza ha affrontato ha avuto riguardo all’eventuale effetto abdicativo del diritto di proprietà a favore della p.a. attribuibile alla domanda avanzata in giudizio di esclusivo risarcimento per equivalente commisurato alla definitiva perdita della disponibilità del bene; giudicata tale conclusione in contrasto con l’esigenza di tutela della proprietà – la quale esige che l’effetto traslativo consegua a una volontà inequivoca del proprietario manifestata in un accordo transattivo –, il giudice amministrativo ha al fine chiarito che, venuto meno l’art. 43, l’amministrazione avrebbe potuto legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente di due strumenti tipici, quali il contratto, e quindi con il consenso della controparte, o il procedimento di esproprio, e quindi anche in assenza di consenso19. Non sono inoltre mancati singolari percorsi interpretativi: la giurisprudenza salentina20 ha ritenuto applicabile l’istituto della specificazione ex art. 940 c.c., con acquisto della proprietà a titolo originario in capo all’ente specificatore e il diritto ad un indennizzo – pari al valore venale del bene – in capo al proprietario; altra giurisprudenza ha individuato la disciplina applicabile negli artt. 934 c.c. e 936 c.c.21

I profili problematici. Il nuovo art. 42 bis t.u. espropriazioni e i dubbi di legittimità costituzionale

Il vuoto normativo determinato dalla Consulta ha avuto comunque breve durata. L’art. 34 d.l. 6.7.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella l. 15.7.2011, n. 111, ha introdotto nel t.u. espropriazioni il nuovo art. 42 bis, recante la medesima rubrica, Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico, del previgente art. 43. Se il fine ultimo della neo-introdotta disposizione è quello del ripristino dell’istituto dell’acquisizione attraverso una legge ordinaria, depurata dal vizio formale riscontrato dalla Consulta, peraltro il legislatore non sembra aver tenuto in adeguata considerazione le ulteriori affermazioni contenute nella sentenza n. 293/2010 denotanti perplessità della Corte sulla compatibilità sostanziale dell’istituto dell’acquisizione con il principio di legalità. I tratti salienti della disciplina di cui all’art. 42 bis sono sintetizzabili nei termini che seguono. Il co. 1 (ristabilito che valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito) sancisce l’irretroattività del provvedimento acquisitivo, che non è pertanto idoneo a sanare il periodo di occupazione illegittima. In luogo di un generico obbligo risarcitorio (l’art. 43 stabiliva che «al proprietario vadano risarciti i danni»), viene riconosciuto al proprietario un «indennizzo» (la cui natura di ristoro da atto lecito si scontra, però, con la natura di illecito permanente delle occupazioni senza titolo), per il «pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale» subìto, con l’ulteriore precisazione che il secondo va liquidato «forfetariamente» in una misura pari al «dieci per cento del valore venale del bene» (elevato al venti per cento nell’ipotesi di utilizzazione dell’area per finalità di edilizia residenziale pubblica o di interesse pubblico (co. 5); il «pregiudizio patrimoniale» è indennizzato «in misura corrispondente al valore venale del bene» (co. 3). Viene riproposta la possibilità di ricorrere allo strumento acquisitivo anche «quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio» (co. 2). Eliminata la cd. acquisizione giudiziaria (che aveva dato luogo a dubbi in ordine alla natura della giurisdizione del giudice amministrativo e alle modalità di proposizione della relativa domanda da parte della p.a.), viene però previsto che l’acquisizione possa essere adottata «anche durante la pendenza di un giudizio» per l’annullamento degli atti inerenti alla procedura espropriativa, con l’unico onere, per la p.a. di ritirare gli atti impugnati22. Condivisibile è l’aggravamento dell’obbligo di motivazione del provvedimento acquisitivo (a rafforzarne la natura eccezionale ed escluderne quella di rimedio ordinario alternativo alla procedura ordinaria): oltre a indicare le «circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e, se possibile, la data dalla quale essa ha avuto inizio» (inciso già presente nell’art. 43 t.u. ed atto di resa di una p.a. che può non essere in grado di precisare da quanto tempo abbia appreso e utilizzato il bene), il provvedimento deve ora «specificamente» indicare le «attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico » che inducono alla sanatoria ed evidenziare «l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione» (co. 4). Il «passaggio del diritto di proprietà» alla mano pubblica è sospensivamente condizionato «al pagamento delle somme dovute» (peraltro, poiché non è fissato alcun termine, non è chiaro cosa accada qualora la p.a. non ottemperi al pagamento o sorga contestazione sul dovuto). Il ricorso all’acquisizione sanante è ammesso anche nella ipotesi di imposizione di servitù, già prevista nella disciplina dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale. È previsto l’obbligo di comunicazione del provvedimento alla Corte dei conti entro trenta giorni dalla sua emanazione, all’evidente fine di consentire di valutare la sussistenza di profili di responsabilità erariale. Infine, il novellato regime di sanatoria è dichiarato applicabile anche «ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore», e ciò anche se sia stato già adottato un provvedimento acquisitivo «successivamente ritirato o annullato», previo rinnovo, in tale ipotesi, della «valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico » alla sanatoria (co. 8). Così operando e privilegiando la natura processuale delle nuove disposizioni, il legislatore ne ha reso più piena ed efficace l’operatività, senza che essa possa essere impedita nemmeno dall’intervenuto annullamento (risollevando i dubbi sulla utilizzabilità dell’istituto in presenza di un giudicato da cui consegua l’obbligo di restituire il bene al proprietario). La nuova disciplina, quindi, ricalca i contenuti del precedente art. 43, seppure con alcuni miglioramenti tecnici23. Ora, se è vero che la Corte costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per eccesso di delega e se non può negarsi che questo vizio sia stato rimosso a seguito dell’intervento legislativo del 2011 (peraltro, sempre in una sede incoerente e disarmonica, quale il pacchetto delle misure urgenti di finanza pubblica), occorre però interrogarsi su alcuni profili sostanziali che non possono sfuggire nemmeno al più disattento dei lettori. I dubbi di legittimità sostanziale dell’acquisizione sanante manifestati dalla Consulta si allontanano notevolmente dal solo profilo formale dell’eccesso di delega per entrare pesantemente nel merito dell’istituto e della sua compatibilità con la normativa e la giurisprudenza europei, oltre che della nostra Costituzione. La scelta, sostanzialmente confermativa della pregressa disciplina, operata dal legislatore statale, non ha tenuto nel debito conto tale contesto ed ha operato nella convinzione che, rimosso il profilo patologico formale, non vi fossero altri aspetti di patologia costituzionale su cui operare. Il che, però, nasconde un errore e denuncia un rischio, quello di avere, più semplicemente, dato corso ad un intervento legislativo tampone, una «legge tappo»24, che potrebbe essere nuovamente bocciata dalla nostra Consulta o censurata con giusta severità dalla Corte europea.

Note

1 Cons. St., A.G., 29.3.2001, n. 4, in Cons. St., 2001, I, 1891.

2 C. eur. dir. uomo, 30.5.2000, causa 31524/96, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, in Riv. giur. ed., 2000, I, 791; Id., 30.5.2000, causa 24638/94, Carbonara e Ventura c. Italia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 1101.

3 Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2009, 729.

4 Cass., S.U., 26.2.1983, n. 1464, in Riv. giur. ed., 1983, I, 218; Id., 10.6.1988, n. 3940, ivi, 1988, I, 909.

5 Cass., 18.2.2000, n. 1814, in Foro it., 2000, I, 1857.

6 Ex multis, C. eur. dir. uomo, 22.6.2006, in causa 14793/02, Ucci c. Italia, in Riv. giur. ed., 2006, I, 756.

7 Cons. St., A.P., 29.4.2005, n. 2, in Riv. giur. ed., 2005, I, 852.

8 Cass., sez. I, 28.7.2008, n. 20543, in Riv. giur. ed., 2009, I, 155.

9 Cons. St., A.P., 29.4.2005, n. 2, cit..

10 Cass., S.U., 6.5.2003, n. 6853.

11 Cass., sez. I, 28.7.2008, n. 20543, cit..

12 Cass., S.U., 24.9.2010, n. 20158.

13 C. cost., 8.10.2010, n. 293, in Riv. giur. ed., 2010, I, 1420, con commenti di Patroni Griffi, ivi, 1435 ss. e di Mari, ivi, II, 347.

14La questione era stata rimessa alla C. cost. dal TAR Campania, Napoli, sez. V, 28.10.2008, nn. 730 e 731 e Id., 18.11.2008.

15 Le ordinanze di rimessione hanno richiamato, sulla diretta rilevanza nel nostro ordinamento dei principi CEDU, C. cost., 24.10.2007, nn. 348 e 349, in Riv. giur. ed., 2007, 1199, e, sugli obblighi comunitari, l’art. 6 TUE.

16 Ollari, Espropri, la Consulta boccia la norma che permetteva di sanare procedure illegittime, in Edilizia e territorio, 2010, fasc. 40, 6.

17 Cass., S.U., 31.5.2011, n. 11963.

18 Cons. St., sez. IV, 13.6.2011, n. 3561, in Riv. giur. ed., 2011, fasc. 2.

19 Cons. St., sez. IV, 28.1.2011, n. 676, in Riv. giur. ed., 2011, 203.

20 TAR Puglia, Lecce, sez. I, 29.4.2011, n. 785, in Riv. giur. ed., 2011, 205.

21 TAR Campania, Napoli, sez. V, 11.2.2011, n. 886, in Riv. giur. ed., 2011, I, 209.

22 Cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. III, 19.8.2011, n. 2102, dove, in presenza di una domanda esclusivamente di risarcimento per equivalente avanzata dal proprietario del bene, e di comportamenti concludenti della p.a. denotanti l’intenzione di non restituire il bene, il giudice ha condannato la p.a. all’adozione del provvedimento di acquisizione, «anche nell’esercizio dei propri poteri equitativi, e valorizzando la ratio sottesa all’art. 42 bis cit. (ossia far sì che l’espropriazione della proprietà privata per scopi di pubblica utilità non si trasformi in un danno ingiusto a carico del cittadino e che l’ablazione del bene ed i connessi effetti indennitari e o risarcitori conseguano necessariamente ad un formale provvedimento della P.A.)».

23 Ollari, Il ritorno dell’occupazione acquisitiva permette di sanare vent’anni di espropri, in Edilizia e Territorio, 2011, fasc. 31-32, 6.

24 L’espressione è ripresa da Sandulli, In vista della seconda “legge-tappo”, in Riv. giur. ed., 1973, II, 21, riferita alla l. n. 1187/1968 sulla durata quinquennale dei vincoli urbanistici.

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