ESTETICA AMBIENTALE

XXI Secolo (2010)

Estetica ambientale

Paolo D’Angelo

Una svolta nell’estetica

Per lo meno a partire dagli inizi dell’Ottocento, l’estetica si è autocompresa come filosofia dell’arte. Ancora nella Kritik der Urteilskraft (1790) per Immanuel Kant era del tutto ovvio presentare come esempi di bellezza esseri e spettacoli naturali, come un fiore o un uccello, una montagna o una cascata, accanto a esempi tratti dalle arti. Con Friedrich Schelling e con Georg Wilhelm Friedrich Hegel il mutamento è già compiuto, perché per entrambi la vera bellezza è quella prodotta dall’attività umana, e quella naturale è solo un riflesso o nella migliore delle ipotesi un precorrimento e un annuncio di quella artistica. Ancora più chiaramente questo verrà ribadito da un filosofo meno conosciuto, ma appartenente alla stessa stagione romantica e idealistica, Karl W.F. Solger, quando affermerà che la bellezza è prodotta dall’arte, a partire dalla quale noi poi la proiettiamo sulla natura, ragione per cui discorrere di ‘bellezza naturale’ è altrettanto metaforico del parlare di un ‘diritto naturale’: come i diritti sono sempre frutto di rapporti sociali ed economici, così la bellezza è una proiezione compiuta dall’uomo sul mondo. Sono gli artisti a insegnarci a vedere la bellezza nella natura, non scoprendola in essa, ma creandola autonomamente.

Questo modo di intendere l’esperienza estetica, che cancella la bellezza naturale e la confina in un ruolo del tutto subalterno, ha tenuto il campo per circa due secoli. Non si forza affatto la realtà affermando che tutte le grandi estetiche dell’Ottocento e del Novecento sono state pensate a partire dal fenomeno artistico e non hanno lasciato spazio alla considerazione della natura. Per Benedetto Croce, la cui Estetica (1902) inaugura il Novecento, la negazione del bello naturale ha rappresentato per la filosofia la liberazione da un errore tanto grave quanto pervicace; per György Lukács, cioè per l’esponente più noto dell’estetica marxista, è sbagliato anche solo supporre, come faceva Hegel, che la bellezza naturale si situi su un gradino più basso di quella artistica, perché così facendo si lascia comunque supporre che bellezza naturale e bellezza artistica siano parte di un fenomeno unitario di più ampia portata; Martin Heidegger ha intitolato il più importante contributo all’estetica Der Ursprung des Kunstwerkes (in Holzwege, 1936), mentre l’estetica analitica diffusa nei Paesi di lingua inglese ha inteso come proprio compito quello di analizzare i linguaggi della critica d’arte e le categorie del giudizio da questa messe in campo.

Rispetto a tale vicenda di quasi bisecolare oblio o rimozione della bellezza naturale, l’interesse manifestato dalla filosofia degli ultimissimi anni per l’esperienza estetica che compiamo nella natura e con la natura rappresenta senza dubbio un fatto nuovo, e un processo carico di importanti conseguenze sul nostro modo di pensare l’esperienza estetica in genere. Ne sono segni, da un lato, il moltiplicarsi di opere e saggi che hanno per tema la percezione estetica della natura, la frequenza di titoli che nominano la natura, l’ambiente o il paesaggio, e quindi il fiorire di estetiche della natura, estetiche del paesaggio, estetiche ambientali; dall’altro, anche al di fuori della riflessione specialistica, l’importanza sempre maggiore che assume la natura come fonte di esperienza estetica per l’uomo di oggi, importanza testimoniata dalla sempre più diffusa sensibilità per i valori ambientali e paesaggistici, dalla diffusione e dal radicamento di associazioni private che hanno come proprio fine istituzionale la difesa del paesaggio e, come ormai non ci si vergogna più di dire, la bellezza della natura.

Si tratta di fenomeni di ampia portata e anche, tutto lascia pensare, niente affatto effimeri. Proprio per questo è impossibile pensare che essi non abbiano avuto una preparazione nei decenni precedenti. Come è ovvio, proprio gli ultimi trent’anni del Novecento hanno costituito il terreno di incubazione e insieme la necessaria preparazione per il rigoglio attuale di questi temi. In effetti, a partire dagli anni Settanta del Novecento, la cancellazione dell’esperienza estetica nella natura compiuta nelle filosofie postromantiche ha cominciato a essere un problema. Se ancora nella Ästhetische Theorie di Theodor W. Adorno, pubblicata postuma nel 1970, non si andava sostanzialmente oltre la denuncia della rimozione del bello naturale, rimozione che veniva vista come emblematica delle chiusure degli orientamenti filosofici tradizionali, già verso la fine di quel decennio la questione dell’esperienza estetica nella natura cominciava a venir sollevata da una prospettiva nuova. La sua riproposizione però non era frutto tanto di una maturazione interna alla filosofia, quanto la conseguenza dell’irruzione di temi elaborati altrove: era la nuova coscienza ecologica e la diffusione dei movimenti per la salvaguardia dell’ambiente a sottoporre all’agenda filosofica, nuovamente, il problema della bellezza naturale. Il fatto che molti contributi utilizzassero il termine estetica ecologica o citassero l’ecologia è rivelatore di una tendenza: in tutti questi scritti si partiva dalla necessità di proteggere la natura e si notava come la soddisfazione estetica che proviamo di fronte alla natura potesse costituire un’ulteriore motivazione a favore della sua salvaguardia. Parallelamente, e in modo altrettanto rivelatore, il termine paesaggio veniva guardato con qualche diffidenza, e si preferiva utilizzare al suo posto la parola ambiente, come se i due termini fossero assolutamente intercambiabili o, meglio, come se solo il secondo fosse quello corretto. Il presupposto implicito era che il termine paesaggio connotasse un fenomeno puramente soggettivo, sentimentale ed estetizzante, laddove l’ambiente garantiva che il discorso si muovesse su basi scientifiche e si richiamasse a elementi oggettivi, controllabili. La scomparsa della parola paesaggio dalla denominazione delle soprintendenze, gli uffici demandati a proteggerlo (chiamate per un certo lasso di tempo soltanto «per i beni artistici e architettonici»), o la volontà di intitolare un’associazione che si batte essenzialmente per la bellezza naturale Fondo ambiente italiano (FAI) rappresentano piccole, ma significative spie linguistiche di questo atteggiamento.

Rispetto alla situazione degli ultimi tre decenni del Novecento, quelli nei quali la questione della bellezza naturale è tornata a proporsi, dapprima timidamente, poi con sempre maggior risonanza, è possibile allora rimarcare una (certo sempre relativa) peculiarità degli orientamenti affermatisi nei primi anni del nuovo secolo, quelli dei quali ci occuperemo. Tale diversità si presenta, ancora una volta, su entrambi i piani del discorso, ovvero, da un lato, sul piano della riflessione filosofica, dall’altro su quello dell’atteggiamento diffuso nei confronti della natura. Per quanto riguarda il primo, se precedentemente il discorso sull’esperienza estetica della natura era quasi sempre orientato verso altri valori (ecologici, scientifici, etici) e provava una certa difficoltà a presentare l’esperienza estetica della natura come un valore autonomo, degno di interesse e salvaguardia in sé, e non solo perché indirettamente può contribuire al mantenimento degli altri valori citati, ora diventa sempre più frequente che si tematizzi direttamente l’esperienza estetica della natura: ne è testimonianza il fatto che si tornano a proporre estetiche generali nelle quali l’esperienza estetica della natura assume un ruolo non solo pari, ma addirittura più importante dell’esperienza dell’arte (cosa che, come si è visto, non accadeva più dalla fine del Settecento). Sul piano del sentire comune nei confronti della natura, il dato forse più rilevante da registrare negli ultimi anni è la centralità nuovamente acquisita dalla nozione di paesaggio, che torna al cuore del dibattito pubblico e che vede importanti interventi legislativi riabilitarne integralmente l’impiego. Ci occuperemo innanzi tutto degli aspetti teorici del problema, distinguendo e illustrando quelli che a noi sembrano i cinque modelli prevalenti, oggi, nel pensare l’esperienza estetica a contatto con la natura, riservando uno spazio in chiusura al tema del ritorno della nozione di paesaggio.

Il modello cognitivista

All’interno dell’estetica analitica angloamericana l’orientamento prevalente, pur non esclusivo, accentua enormemente il ruolo che le categorie scientifiche, attraverso le quali conosciamo la natura, rivestono anche per la nostra esperienza estetica della natura stessa. Apprezzare esteticamente la natura è impossibile, per i sostenitori di questa teoria, se non la si inquadra nei termini appropriati, e tali sono quei termini forniti dalle scienze naturali. Ecco perché possiamo indicare questo modello come modello cognitivista (scientific cognitivism è anche la denominazione usuale con la quale se ne discorre in ambito analitico), ed ecco perché è opportuno iniziare il nostro percorso proprio da questa tendenza. Legando in maniera così stretta l’esperienza estetica con la conoscenza dell’ambiente naturale, essa si dimostra ancora molto prossima alle motivazioni ecologiche della riscoperta della bellezza della natura, dominanti negli anni Settanta e Ottanta; del resto questo orientamento, il cui principale esponente è lo studioso canadese Allen Carl-son, sebbene sia illustrato in modo sistematico e compiuto soltanto nel volume Aesthetics and the environment (1999, 20022), ha cominciato a essere elaborato proprio alla fine degli anni Settanta del Novecento, evidentemente sulla scorta dell’ampia diffusione dell’ambientalismo nei Paesi occidentali.

Carlson prende le mosse dalla distinzione fra tre paradigmi di apprezzamento estetico dell’ambiente. Il primo è il paradigma esemplificato dall’apprezzamento di un singolo oggetto naturale: possiamo considerare un tale oggetto come se si trattasse di una scultura non figurativa, isolandolo da ciò che lo circonda. Il secondo paradigma è denominato paradigma paesaggistico e consiste nell’apprezzare la natura come se si trattasse di uno scenario, ossia come se si avesse di fronte una pittura di paesaggio, dando quindi rilievo a qualità visive, come il colore o il disegno. Entrambi i paradigmi sono considerati da Carlson completamente inadeguati a dar conto dell’effettiva esperienza estetica che compiamo in natura. Essi non considerano l’ambiente come qualcosa in cui siamo immersi, qualcosa che ci circonda e con la quale entriamo in contatto attraverso tutti i nostri sensi; in altre parole, non lo considerano veramente come ambiente. Nel paradigma oggettuale questa perdita è evidente, perché l’oggetto viene isolato da tutto quel che gli sta intorno; in quello paesaggistico, d’altro canto, noi non facciamo esperienza della natura come natura, ma come se ci trovassimo di fronte a una sua raffigurazione pittorica, dunque bidimensionale.

È necessario quindi, secondo Carlson, rivolgersi a un terzo paradigma, che egli denomina paradigma ambientale, salvaguardando il fatto che la natura sia esperita come ambiente e come ambiente naturale. Carlson lascia intendere che l’inadeguatezza dei due primi paradigmi deriva dal fatto che essi pensano l’esperienza estetica nella natura sulla base dell’esperienza estetica di fronte all’opera d’arte. Non che il terzo paradigma non segua anch’esso la struttura che è caratteristica del nostro apprezzamento dell’opera d’arte: esso però focalizza una differenza essenziale tra l’esperienza che compiamo di fronte all’arte e quella che compiamo di fronte alla natura. Nel primo caso infatti, noi sappiamo che cosa fare oggetto di apprezzamento e come farlo, perché siamo guidati dalla conoscenza che ci viene fornita dalla storia dell’arte e dal fatto che siamo noi a creare le opere d’arte. Si tratta allora di trovare, per la natura, una conoscenza che possa rivestire e svolgere un’analoga funzione, e non può trattarsi secondo Carlson che della scienza naturale: «questa conoscenza, essenzialmente conoscenza di senso comune o conoscenza scientifica costituisce l’unico candidato valido a ricoprire, nel caso del nostro apprezzamento della natura, quel ruolo che la nostra conoscenza dei diversi tipi di arte, delle tradizioni artistiche, ecc. ricopre in relazione all’apprezzamento dell’arte» (Carlson 20022, p. 49).

Il paradigma ambientale viene messo a fuoco con maggior chiarezza mediante un richiamo al ruolo che le categorie artistiche rivestono nell’apprezzamento estetico dell’opera d’arte. Di solito si ritiene che vi siano categorie più o meno appropriate per il giudizio sulle opere d’arte e che dunque il giudizio estetico possa nel caso dell’arte raggiungere una qualche condivisibilità, mentre invece molti ritengono che nel caso della natura questo non sia affatto possibile e quindi il giudizio sulla natura rimanga un giudizio puramente soggettivo o relativo. Carlson condivide la tesi che noi apprezziamo le opere d’arte non solo in virtù delle proprietà sensibili che esse hanno, ma anche organizzando tali proprietà sulla base di categorie appropriate; è convinto anche che le categorie utilizzate nei giudizi sulle opere d’arte non risultino utili per giudicare esteticamente la natura. Nega però che non sia possibile dimostrare che ci sono categorie corrette e non corrette nel nostro apprezzamento estetico della natura. Nel giudicare esteticamente la natura, noi non ci limitiamo a prendere in considerazione le sue proprietà sensibili, ma organizziamo tali aspetti sensibili sulla base di categorie, proprio come avviene per l’opera d’arte. Solo che in questo caso le categorie non sono categorie storico-stilistiche, ma categorie scientifiche. Volendo fare un esempio, possiamo considerare (correttamente) una balena come un mammifero oppure (non correttamente) come un pesce, un anemone di mare (correttamente) come un animale oppure (non correttamente) come una pianta e così via. Il fondamento della correttezza delle categorie di riferimento nel caso dell’arte è rappresentato dall’attività degli artisti e dei critici d’arte, mentre nel caso della natura è rappresentato dall’attività degli scienziati e dei naturalisti: ne consegue che sono la storia naturale e la scienza naturale a costituire il retroterra appropriato per l’apprezzamento estetico della natura (Carlson 20022, pp. 54-71).

Un’altra opposizione che Carlson utilizza per illustrare la nostra percezione estetica della natura è quella tra una design appreciation e una order appreciation. La design appreciation è caratteristica delle opere d’arte tradizionali e la order appreciation è caratteristica degli oggetti naturali, oltre che di alcune opere d’arte d’avanguardia. Si parla di design appreciation per indicare quel tipo di relazione con l’opera d’arte che è guidata dall’idea che l’opera d’arte sia una creazione dell’artista: le sue qualità sono il risultato della decisione del designer. Tale forma di apprezzamento è richiesta da pressoché tutta l’arte che precede il Novecento, ma se la applichiamo alla natura, come accade quando consideriamo la natura una creazione divina, ci mettiamo sulla strada sbagliata. D’altro canto, ci sono opere d’arte recenti (quelle dell’action painting o i ready-made di Marcel Duchamp) che consistono di oggetti i quali non sono frutto di una progettazione, ma sono esperimenti in cui un individuo seleziona degli oggetti di apprezzamento dal mondo che lo circonda e lo fa sul fondamento di riferimenti non estetici. La fruizione estetica della natura si sviluppa, secondo Carlson, sul modello dell’order appreciation. Ma a fornire i criteri dell’order appreciation applicata alla natura sono, di nuovo, le scienze naturali. Conoscere la teoria evoluzionistica, per es., è importante per comprendere l’ordine che è possibile ritrovare nella flora e nella fauna naturali: se si è privi di una tale conoscenza, la biosfera può apparire semplicemente caotica (Carlson 20022, pp. 102-25).

Il modello formalista

La preminenza, o addirittura il ruolo esclusivo attribuito da Carlson alle categorie scientifiche nel nostro apprezzamento estetico della natura presta il fianco a parecchie critiche (D’Angelo 2006). Una difficoltà spesso messa in evidenza è il modo vago e indeterminato con il quale il cognitivismo individua la conoscenza scientifica necessaria per una fruizione estetica della natura. Carlson parla talvolta di conoscenza in generale, scientifica e non scientifica, ma molto più spesso indica come essenziale la scienza naturale in senso stretto, e del resto i suoi esempi sono sempre tratti da biologia, zoologia, botanica, ecologia, geologia, o persino da astronomia, chimica e genetica. Tuttavia, se si assume che per ammirare esteticamente la natura sia necessario conoscerla anche sulla base delle categorie scientifiche fornite da queste ultime scienze, si apre un’ulteriore difficoltà dato che i risultati della chimica o della genetica difficilmente soddisfano quello che sembra un requisito minimo affinché le conoscenze possano essere considerate rilevanti esteticamente, ossia che esse possano permeare e modificare la nostra percezione degli oggetti naturali: le componenti chimiche di una roccia o i legami genetici di un animale non si vedono. Ma anche se si esclude questo tipo di conoscenze, i problemi non sono finiti. È indicativo che Carlson, quando deve fare esempi di conoscenza scientifica rilevante, prenda sempre in considerazione singoli elementi naturali o singoli esseri viventi (il caso della balena considerata correttamente come un mammifero o non correttamente come un pesce) e non interi ambienti naturali, come pure la sua teoria dovrebbe indurlo a fare. Ciò accade, evidentemente, perché se dovesse esplicitare la competenza scientifica necessaria per conoscere un intero ambiente naturale, Carlson dovrebbe ammettere che ogni ambiente richiede conoscenze così complesse e multiformi (botaniche, zoologiche, agronomiche, climatologiche, geologiche ecc.) che difficilmente o mai possono essere presenti nella stessa persona. Ne conseguirebbe il paradossale risultato che neppure gli esperti potrebbero apprezzare esteticamente un am-biente naturale e, a maggior ragione, non potrebbero evidentemente farlo le persone comuni. A questo tipo di obiezioni Carlson ha tentato di rispondere sottolineando la continuità che esisterebbe tra conoscenze scientifiche della natura e conoscenza di senso comune di essa. Ma l’idea che la scienza sia solo una conoscen-za ordinaria resa più sistematica e più approfondita, vera forse per la scienza naturale di qualche secolo fa, appare oggi decisamente insostenibile. Inoltre proprio le caratteristiche che Carlson ritiene essere rilevanti per quella che chiama order appreciation della natura (equilibrio, coerenza evolutiva, sistematicità) non sono né qualità percepibili, né aspetti della natura che la conoscenza di senso comune possa condividere con quella scientifica.

Ma la difficoltà più radicale del modello cognitivista è forse un’altra ed è rappresentata dal fatto che esso non chiarisce veramente il rapporto che intercorre tra categorie scientifiche ed esperienza estetica. In particolare, quello che non è chiaro nel modello di Carlson è se la percezione della natura attraverso le corrette categorie scientifiche sia una condizione solo necessaria per l’apprezzamento estetico della natura o se sia anche una condizione sufficiente. Conoscere un oggetto naturale attraverso le giuste categorie scientifiche è già anche apprezzarlo esteticamente o è solo un presupposto indispensabile perché intervenga un’ulteriore esperienza estetica? Nessuna delle due ipotesi sembra in realtà percorribile. Se si accetta la prima (come Carlson sembrerebbe per lo più incline a fare) non si capisce più che cosa differenzi l’atteggiamento scientifico di fronte alla natura dall’apprezzamento estetico di essa; se si abbraccia la seconda, allora bisognerebbe anche spiegare che cosa si aggiunga alla considerazione scientifica quando compiamo un’esperienza estetica nella natura. Come è stato notato più volte, è la stessa analogia di funzionamento tra categorie storico-stilistiche nel caso dell’arte e categorie scientifiche nel caso della natura, che sta alla base del ragionamento di Carlson, a non reggere. Sostenere che la categoria ‘pittura cubista’ svolge nei confronti di un dipinto di Picasso la stessa funzione svolta dalla categoria botanica ‘latifoglia’ nel nostro apprezzamento estetico di un albero – è uno degli esempi di Carlson – occulta il fatto che nel primo caso abbiamo a che fare con una categoria già frutto di un’interpretazione estetica, e tale da mostrare una comprensione estetica dell’oggetto che considera, laddove nell’altro caso non abbiamo nulla di tutto questo.

Il restringimento di orizzonte che il modello cognitivista rappresenta ha suscitato parecchie reazioni anche nell’ambito dell’estetica analitica. Molti autori hanno sostenuto che l’approccio scientista alla bellezza naturale lascia fuori troppe cose. Noël Carroll, per es., ha osservato che esso sembra del tutto ignorare una risposta molto comune, da parte di tutti noi, agli spettacoli naturali, ovvero la nostra reazione emotiva, dato che molti nostri modi di apprezzare la natura sono preteoretici, cioè si basano non su quel che sappiamo di essa, ma sui sentimenti che ci suscitano la sua forza, la sua grandezza, la sua energia: per ammirare la maestosità di una cascata non ho bisogno di conoscere la sua portata o la velocità di caduta dell’acqua (On being moved by nature, in The aesthetics of natural environment, 2007, pp. 89-107). Cheryl Foster ha notato che nell’apprezzare un ambiente naturale noi ci lasciamo guidare anche da ciò che sta prima, dietro e oltre quello che vediamo, per esempio, legando la natura che osserviamo a dati storici, letterari o mi-tologici (The narrative and the ambient in environmental aesthetics, in The aesthetics of natural environment, 2007, pp. 197-213). E Stan Godlovitch ha replicato che il modello cognitivista è un modello antropocentrico, che sacrifica totalmente l’aspetto di mistero e di alterità che è il fascino più grande che la natura ci comunica (Icebreakers. Environmentalism and natural aesthetics, in The aesthetics of natural environment, 2007, pp. 108-26). Ma forse l’opposizione più frontale alle tesi proposte da Carlson e da altri fautori del cognitivismo (per es., Matthews 2002) è rappresentata dal modello che possiamo denominare formalista di approccio alla bellezza naturale.

Gli orientamenti formalistici sono stati spesso presenti nell’estetica del passato, e sono ben attestati anche nella tradizione angloamericana, per es., con le teorie dell’arte figurativa di Clive Bell o di Roger Fry, molto influenti nella prima metà del Novecento. In generale, questi orientamenti deprimono o negano del tutto il ruolo esercitato nella nostra esperienza estetica dai contenuti e dai significati di un’opera d’arte così come dalle sue relazioni con ciò che è a lei esterno, e insistono sul fatto che a generare valore estetico possono essere soltanto i rapporti tra elementi dell’opera, le proporzioni, i colori, l’equilibrio compositivo. Proprio perché la tradizione formalista è stata a lungo molto radicata nella critica d’arte anglofona, Carlson ha molto insistito sul carattere antiformalistico della sua impostazione, appunto perché era convinto di marcare così in modo netto il discrimine tra esperienza estetica di fronte all’arte ed esperienza estetica di fronte alla natura (Carlson 20022, pp. 18-23). L’argomento di Carlson verte sul fatto che la percezione di rapporti formali (unità, bilanciamento, contrapposto ecc.) si può dare solo se l’oggetto che consideriamo è delimitato, posto in un frame, una cornice, mentre la nostra esperienza della natura ci mette di fronte a un continuum in cui le delimitazioni possono essere soltanto artificiali, arbitrarie; d’altra parte le qualità formali presuppongono un osservatore distaccato, mentre l’esperienza reale è sempre l’esperienza di un coinvolgimento nella natura. Questi argomenti antiformalisti sono stati contestati da Malcom Budd (2002, pp. 112-14), ma soprattutto da Nick Zangwill, che ha difeso le ragioni del formalismo anche in relazione alla nostra esperienza estetica della natura.

Nell’articolo Formal natural beauty (2001) e in altri saggi a questo collegati (2005), Zangwill distingue vari tipi o gradi di formalismo, che vengono identificati mediante la distinzione kantiana tra una bellezza libera e una bellezza aderente. Per Kant sono libere quelle bellezze che io apprezzo indipendentemente dal concetto di ciò che la cosa deve essere (quando, per es., guardo il disegno di un tappeto, un arabesco o una grottesca); aderenti sono invece quelle bellezze che dipendono dal concetto che io posseggo dell’oggetto (un cavallo non è bello in astratto, ma in relazione alla sua funzione e alla sua razza). Il formalismo estremo, sempre secondo lo studioso inglese, è quello che ritiene che tutte le bellezze siano di tipo libero, mentre l’antiformalismo (e il modello cognitivista rientra perfettamente in questa categoria) ritiene che non vi sia bellezza se non aderente. Zangwill è convinto che vi siano buone ragioni a favore di quello che chiama formalismo moderato, ossia la prospettiva secondo la quale nella natura sono presenti entrambi i generi di bellezza. Più tecnicamente, Zangwill osserva che non è giustificato pensare che gli oggetti naturali, per es. una pianta o un animale, abbiano sempre proprietà estetiche solo «in quanto appartenenti alle specie naturali di cui sono esemplari» (2001, p. 210). Molti giudizi sulla bellezza naturale non dipendono da categorie, siano esse quelle della scienza naturale, come pensa Carlson, o siano quelle della conoscenza comune, come pensa Budd. Quando trovo bello un orso polare o una foca che nuotano, ciò accade non in quanto riferisco questi due animali alle specie naturali alle quali appartengono o ancor meno perché io li comparo a un tipo ideale di orso o di foca, che non possiedo affatto, ma piuttosto perché, per es., entrambi mi appaiono straordinariamente flessuosi, eleganti, dinamici in contrasto con la mole o con la goffaggine che sembrano manifestare quando si muovono sul ghiaccio. Molta bellezza naturale, per Zangwill, nasce proprio da sorprese del genere: è incongruente e categorialmente anarchica. Se vogliamo ammirare esteticamente la natura non è tanto utile che ci disponiamo a guardarla con l’occhio dello scienziato, quanto che ci disponiamo di fronte a lei con la disposizione infantile a lasciarcene meravigliare.

Se relativamente alla natura organica Zangwill si dichiara seguace di un orientamento formalista moderato, egli non ha invece dubbi su quale sia l’atteggiamento corretto nel caso della natura inanimata. Di fronte all’inorganico, l’unico atteggiamento corretto è quello formalista puro. Qui il formalismo estremo ridiventa per Zangwill pienamente plausibile. Contano solo le proprietà ostensibili dell’oggetto, cioè la sua forma, i rapporti tra le sue parti, i suoi colori, la grana della sua superficie: «Il formalismo estremo mi pare ovvio nel caso della natura inorganica. Quando un ente naturale non ha nessuno scopo, dobbiamo considerare solo quel che possiamo immediatamente percepire, e non abbiamo bisogno di sapere nulla riguardo alle sue origini» (2001, p. 216).

Il modello atmosferico

Il paradigma formalista sembra poter dare ragione soprattutto della bellezza di singoli oggetti naturali, e tanto meglio quanto più sono semplici: le geometrie di un cristallo, le venature di una roccia, i colori sgargianti di un pesce tropicale. Ma anche il modello cognitivista, che pure dovrebbe essere orientato verso la complessità degli ambienti, sembra spesso pienamente a proprio agio soltanto quando ha di fronte singoli enti naturali. Per trovare un approccio totalmente diverso, che privilegi non le cose, ma la totalità percettiva in cui ci immergiamo quando entriamo in contatto con un ambiente, dobbiamo volgerci al modello che chiameremo atmosferico. Questo modello è legato in particolare alle teorie del filosofo tedesco Gernot Böhme, che lo ha esposto in diverse pubblicazioni a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso (Atmosphäre, 1995) e lo ha teorizzato sistematicamente nel volume Aisthetik. Vorlesungen über Ästhetik als allgemeine Wahrnehmungslehre (2001). Le teorie di Böhme appaiono di singolare interesse nel nostro discorso, non soltanto per la loro portata intrinseca, ma anche perché rappresentano un caso palmare di quel fenomeno al quale accennavamo all’inizio come alla maggiore novità emersa nell’ambito dell’estetica ambientale a partire dalla svolta del secolo: ossia il fatto che la riflessione sull’esperienza estetica che compiamo nella natura (da una posizione marginale e strettamente inquadrata nell’ottica della salvaguardia ambientale, e insomma relativamente ancillare rispetto all’ecologia) si è venuta sempre più proponendo come tema autonomo di riflessione per l’estetica. Il percorso del filosofo tedesco è una prova evidente di questo movimento. Partito inizialmente da un approccio che tematizzava il possibile apporto di una considerazione della bellezza della natura alla salvezza della natura stessa, nel volume del 1989 Für eine ökologische Naturästhetik, in cui anzi esprimeva dubbi sulla possibilità che un’esperienza estetica soddisfacente fosse di per sé anche garanzia di una natura buona, cioè sana, rispettata e vivibile, egli è arrivato a riconoscere nell’estetica della natura una delle componenti essenziali della propria estetica e ad assegnarle anzi un ruolo euristicamente preminente. I tre grandi ambiti problematici che l’estetica oggi si trova davanti sono infatti a suo parere l’arte, l’estetizzazione diffusa, ossia il fenomeno in forza del quale gli oggetti d’uso appaiono sempre più investiti di una funzione comunicativa e simbolica (che Böhme riassume sotto il nome di design) e appunto l’esperienza della natura. Ma essi non sembrano stare sullo stesso piano, dato che i riferimenti ai problemi artistici sono assai limitati in Böhme e per lo più confinati a quello che viene chiamato lavoro estetico, ossia la configurazione di spazi e oggetti, mentre l’arte autonoma resta sempre trattata come appendice e lo stesso design non riceve un’attenzione preminente. Di fatto, gran parte degli esempi che servono a chiarire quel che Böhme intende per ‘atmosfera’ e ‘atmosferico’ sono tratti proprio dalle esperienze che compiamo in natura.

Partiamo dunque proprio da uno degli esempi favoriti di Böhme. Vedere un albero è un’esperienza assai diversa da cercare rifugio dalla pioggia o dalla calura sotto la grande chioma di un albero. Nel primo caso tutta l’attenzione verte sull’oggetto, nel secondo ho a che fare con una vasta gamma di sensazioni e stati affettivi che risultano per me indisgiungibili dal puro vedere. Non vedrò soltanto, ma avvertirò la maestosità della chioma e l’elevarsi del tronco, proverò il contrasto repentino tra la vampa del sole e la fresca ombrosità, o il sollievo del passaggio dall’imperversare della pioggia a un luogo protetto; l’altezza e l’imponenza dell’albero non saranno più dei dati esterni, ma dei fatti sentiti. La nostra percezione non comincia come percezione di pure cose, ma piuttosto vi arriva per un processo di astrazione. Originariamente, la percezione è ancora un processo indifferenziato nel quale partecipano il polo soggettivo e quello oggettivo, ed è costitutivamente intessuta dei dati di più sensi (nell’esempio dell’albero, non solo la vista, ma l’udito per il vento tra le foglie, il tatto per la diversa consistenza del terreno, l’odorato per il profumo dell’erba bagnata, il senso termico per la sensazione di caldo o di freddo). La nostra percezione è sempre sinestesica, e noi percepiamo non tanto le cose, quanto le atmosfere. Tipicamente, ne fa esperienza chi fa il suo ingresso in un ambiente o in una cerchia di persone, dal momento che la prima cosa che avvertirà sarà un’impressione di freddezza o di allegria, di imbarazzo o di contentezza; oppure chi sperimenta il contrasto tra il proprio umore e l’intonazione che gli pare giungere dall’esterno (essere tristi in un mattino sereno di primavera, o allegri in una fredda e umida sera autunnale).

Né ci si può sbarazzare delle atmosfere liquidandole come mere reazioni soggettive: per Böhme esse sono piuttosto delle ‘semicose’, riguardano cioè la presenza nella percezione attuale anche se non l’esistenza al modo della cosa, e sono relativamente indipendenti dal singolo, come mostrano quelle situazioni in cui avvertiamo appunto la discrepanza tra il nostro sentire e l’atmosfera che ci viene incontro. Il fenomeno dell’atmosferico appare più chiaramente se pensiamo ai fenomeni che anche usualmente designiamo con questo termine, come l’afa di un pomeriggio di estate o il silenzio di una campagna ricoperta di neve, oppure alla tonalità dominante dei momenti della giornata, come il languore del crepuscolo, la malinconia della sera, l’energia del mattino e così via.

Cominciamo allora a comprendere come le atmosfere e l’atmosferico si leghino al discorso sulla percezione estetica della natura. Il problema ambientale ci pone infatti sotto gli occhi non tanto la natura come essa è in sé stessa, quanto la natura così come essa è per noi, così come noi la avvertiamo. Dunque a essere centrale sarà il problema del legame tra le qualità ambientali e la situazione emotiva dell’uomo (Böhme 2001, p. 23), ma proprio perché il problema ambientale ha permesso di tematizzare la nostra percezione della natura come percezione di atmosfere e, con ciò, di recuperare integralmente la dimensione originaria, etimologica, della parola ‘estetica’ che designa la scienza che si occupa della nostra conoscenza sensibile. L’estetica deve tornare a essere, come fu nel Settecento con Alexander G. Baumgarten, una teoria della sensibilità, e l’estetica della natura una teoria della conoscenza sensibile della natura. Questo permette a Böhme di recuperare un aspetto che gli era caro fin dai tempi in cui teorizzava un’estetica ecologica: quello della necessità dell’esperienza estetica per la conoscenza di tutti quegli aspetti della natura che la scienza moderna ha finito per trascurare. Il dato sensibile immediato, le qualità secondarie (colori, suoni e odori) e terziarie (grazia, delicatezza, sublimità) sono state dimenticate dalla scienza matematizzata, che ha soppiantato il contatto diretto con la realtà naturale per mezzo della raccolta di risultati attraverso apparecchiature; risultati che sono bensì ancora percepiti sensibilmente, ma come segni astratti piuttosto che come esperienze vitali. Come molti esponenti del pensiero ecologico (per es., Guastini 2007), Böhme è del parere che il puro apprezzamento estetico della natura, così come si è diffuso nella modernità a partire almeno dal Settecento, non sia la vera alternativa alla conoscenza matematizzata e ‘fredda’ della natura prodotta dalla scienza, ma ne sia solo l’altra faccia, il fenomeno complementare specularmente corrispondente, ragione per cui una strada diversa può essere ritrovata soltanto guardando al passato. E mentre in Daniele Guastini (2007) questo passato è l’idea greca di natura e l’alleanza tra natura e tecnica ancora presente nel pensiero greco, per Böhme è piuttosto la scienza romantica della natura, come dimostrano i suoi richiami alla teoria dei colori di Johann W. Goethe, alla geografia fisica di Alexander von Humboldt, alla scienza della vita terrestre di Carl Gustav Carus.

Il legame di Böhme con la visione della natura propria del Romanticismo tedesco emerge in modo particolare nell’utilizzo che egli compie del concetto di fisiognomica riprendendo l’idea di una fisiognomica del paesaggio. Questa idea è bensì presente (ma anche qui non senza la mediazione della scienza romantica) nel geografo novecentesco Herbert Lehmann, ma Böhme si ricollega direttamente alle fonti di inizio Ottocento, alle osservazioni di Humboldt sulla fisiognomica delle piante o a quelle di Carus sulla fisiognomica delle montagne. Bisogna però precisare che, se usualmente la fisiognomica viene intesa come la possibilità di leggere i caratteri dell’interno (l’anima o l’indole dell’uomo) a partire dai suoi tratti esterni (per es., la conformazione del volto), Böhme propone una concezione assai diversa, e in fondo opposta, della fisiognomica, il cui tratto saliente sarebbe non l’espressione di un interno, ma la proiezione verso l’esterno, la creazione di un’atmosfera a partire da un’organizzazione e una disposizione di dati fisici. In questa cornice quindi secondo Böhme può essere inquadrato anche il giardinaggio, in quanto arte di disporre materiali naturali (rocce, acque, piante, prati) in modo da suscitare in colui che si muove nel giardino una determinata disposizione sentimentale.

Il modello geofilosofico

Il termine geofilosofia è comparso nel lessico specialistico da non più di due decenni. Gilles Deleuze e Félix Guattari, all’inizio degli anni Novanta, lo impiegarono per indicare il legame necessario che la filosofia intrattiene con lo spazio in cui si produce, proponendo quindi non una storia, ma piuttosto una geografia del pensiero, che segua i processi di territorializzazione e deterritorializzazione che lo hanno segnato (il trovar luogo della filosofia in Grecia, o in Germania nella modernità, mentre altrove, per es. in Italia, la filosofia ‘transita’ senza acclimatarsi). Tuttavia, nel giro di pochi anni, la parola è venuta a indicare soprattutto una declinazione del pensiero politico, che sostituisce o affianca alla consueta prospettiva storicista, rivolta alla successione degli avvenimenti come a ciò che dà loro senso, una considerazione spaziale, in cui le opposizioni decisive corrispondono alle grandi opposizioni topologiche tra Terra e Mare, apertura e chiusura, localizzazione e delocalizzazione. Richiamandosi a Carl Schmitt, Heidegger ed Ernst Jünger, la geofilosofia si è manifestata soprattutto come una nuova e più accettabile versione della geopolitica, attenta in primo luogo alla dialettica tra i fenomeni della globalizzazione (dominio mondiale, migrazioni, omologazione culturale) e quelli del radicamento locale (nuovi nazionalismi, fondamentalismi religiosi, tradizionalismi).

Ma proprio perché interessata a pensare la compresenza, nel nostro tempo, di fenomeni di sradicamento, perdita di spazi propri, nuovo nomadismo e fenomeni innovativi di radicamento territoriale, espressione di una volontà di rispondere allo spaesamento che è divenuta la dimensione consueta del vivere nella contemporaneità, la geofilosofia non poteva non incontrare anche il problema del rapporto immediato, ‘vissuto’ con il territorio, e confrontarsi quindi con la questione del paesaggio. Ciò è accaduto specialmente in Italia, dove ormai è presente un ben individuabile filone di riflessione geofilosofico attento in particolare al rapporto che le popolazioni creano con il loro spazio di vita quotidiano, con quello che si può indicare con la parola tedesca Heimat: non la patria intesa in senso politico o nazionalistico, ma piuttosto il ‘paese natale’, il luogo dove ci si sente ‘a casa propria’, e insomma l’esatto opposto di quegli spazi eguali dappertutto, rinvenibili a ogni latitudine e in ogni cultura, che un’espressione divenuta ormai quasi proverbiale del sociologo francese Marc Augé designa espressamente come non luoghi.

Anche il modello geofilosofico, come quello atmosferico, rivaluta la filosofia romantica della natura e recupera le letture fisiognomiche del paesaggio. Il termine di confronto in negativo, anche in questo caso, è rappresentato dalla scienza moderna, che riduce la natura a pura materia inerte traducibile in cifre e manipolabile a piacimento attraverso la tecnica, la quale a sua volta desertifica la terra (in senso sia letterale, sia metaforico) sottoponendola a una sistematica spoliazione delle sue risorse (Bonesio 2002, pp. 27-42). Come accade in Böhme, la geofilosofia rifiuta di considerare lo sguardo estetico come un’integrazione e una compensazione rispetto alle trasformazioni indotte dall’atteggiamento della scienza moderna nei confronti della natura. Ma se la prospettiva in cui Böhme cerca una possibile alternativa è rappresentata da un recupero della fenomenologia di Edmund Husserl (il mondo della vita, con le sue qualità sensibili e con le sue connotazioni emotive), la geofilosofia guarda in una direzione in gran parte diversa, orientandosi soprattutto su Heidegger e Jünger. Da questi pensatori, come anche dalla polemica di Oswald Spengler contro l’atteggiamento faustiano dell’uomo occidentale, che pensa di poter asservire alla propria volontà di dominio tutto quel che lo circonda, riprende in primo luogo l’impiego del termine Terra in sostituzione di altri più consueti in questo contesto, come ambiente o natura. Non si tratta ovviamente di una mera variante terminologica, dal momento che la Terra è per Heidegger ciò che si oppone al Mondo, cioè all’esplicito, alla storia e alla cultura, e si rivolge piuttosto all’implicito, all’origine, alla chiusura in sé stessi. La Terra, nella prospettiva geofilosofica, diventa dunque grembo materno, protettrice ultima, avvio sacrale, e le trasformazioni alle quali essa è stata sottoposta dalla tecnica sono, prima ancora che devastazioni del suo volto manifesto, tracotanti atti di ribellione che non potranno non rivolgersi contro i loro autori. È il ‘bosco’ di Jünger, la selva primigenia in cui occorre fuggire (letteralmente: darsi alla macchia) per trovare rifugio dal deserto che cresce nei luoghi civilizzati.

Di contro all’anonimità del rapporto che il cittadino intrattiene con lo spazio che lo circonda, o il viaggiatore planetario con le località sempre diverse e sempre estranee che si trova ad attraversare, occorre allora recuperare, agli occhi della geofilosofia, un legame del tutto differente con la Terra, un legame che si rifaccia alla nozione heideggeriana dell’abitare come aver cura. Abita veramente un luogo solo colui il quale non lo sente come qualcosa di cui disporre, e neppure come una cornice casuale di cui potrebbe disfarsi, ma come qualcosa di essenziale alla definizione della propria stessa identità, qualcosa che va salvaguardato non come strumento di sopravvivenza, ma come parte di noi stessi: «Il paesaggio non è un optional estetico buono per lo sfruttamento turistico, ed eventualmente un vincolo o un ostacolo alla libertà di speculare e distruggere. Ciò che chiamiamo ‘paesaggio’ sono i luoghi nei quali abitiamo, viviamo, e dove prima di noi altri hanno vissuto e dove, si spera, anche dopo altri potranno vivere e abitare» (Bonesio 2002, p. 80).

I rischi di un paradigma di questo tipo sono evidenti. Con il suo insistere sul nesso tra identità e comunità, tra rapporto con la natura e radicamento locale, esso sembra favorire da un lato una chiusura in senso provinciale e campanilistico, dall’altro il fatto di rendere virtualmente impossibile un rapporto autentico con la natura e con il paesaggio a chi non sia originario del luogo, e lascia come unica vera possibilità soltanto la scelta tra una proliferazione di localismi tra loro non comunicanti e una esclusione completa dall’esperienza estetica nella natura. Sul piano delle scelte concrete di gusto, esso potrebbe poi dare un alibi a un modo ristretto di intendere la salvaguardia, che premi esclusivamente le scelte tradizionaliste fino agli estremi del vernacolarismo e del kitsch folcloristico.

Va comunque osservato che nei suoi sviluppi successivi anche il modello geofilosofico sembra aver preso coscienza di questi rischi ed è passato a proporre un paradigma più flessibile, più attento a evitare chiusure particolaristiche e meno incline a leggere unicamente come degradazione e insidia le tendenze moderne e postmoderne all’apertura. Il luogo, potremmo dire, non è più visto solo nel suo rinserrarsi in sé stesso, ma è considerato anche nella sua apertura all’altro da sé, come indica un titolo quale Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale (Bonesio 2007). Ovviamente, anche qui permane la centralità del luogo come distinto dalla spazialità anonima, cartesiana, insomma come spazio qualificato, e qualificato in prima istanza dalla intersezione tra territorio e comunità degli abitanti; ma esso viene adesso visto, in modo caratteristico, non solo come origine fissa e non aggirabile, ma come una meta. La conquista di senso che attuiamo nello spazio trasformandolo in luogo non è più il fardello o il vessillo dell’indigeno, ma appare raggiungibile anche a chi, estraneo per nascita o tradizione, tuttavia assume un atteggiamento di cura e considerazione. L’appello heideggeriano è ormai alle spalle in favore di «una sorta di progetto di appartenenza elettiva, che prescinde da ragioni anagrafiche o professionali, a un luogo di cui si riconosce il carattere singolare, valorizzandone e ricostituendone, per quanto possibile, la significatività» (Bonesio 2007, p. 201).

Il paesaggio come banco di prova

Tutti i modelli che abbiamo analizzato rivendicano l’importanza dell’esperienza estetica che compiamo nella natura, fino al punto di indicarla come fattore determinante, persino più determinante dell’esperienza dell’arte, per pensare oggi l’estetica. Eppure si sarà notato un singolare paradosso. Proprio mentre insistono sulla centralità dell’esperienza estetica di fronte alla natura, essi tendono a risolvere tale esperienza in un’esperienza di ordine diverso. Ciò è chiarissimo nel modello cognitivista, per il quale l’esperienza estetica si dissolve in sostanza nella conoscenza scientifica della natura, nell’apprensione della natura sulla base delle corrette categorie scientifiche. Ma anche il modello formalista la confina a pochi casi relativamente marginali, mentre quello geofilosofico, almeno nella sua versione iniziale e tranchante, lo assimila alla consapevolezza identitaria della comunità insediata. Infine, persino il modello atmosferico, indubbiamente quello filosoficamente più complesso, risolve l’atteggiamento estetico (del quale nega qualsiasi specificità rispetto alla percezione normale) sostanzialmente nell’ordinario percepire, e insomma ancora una volta nella conoscenza, questa volta non in quella scientifica, ma in quella quotidiana, emotivamente caratterizzata. Ma l’esperienza estetica non è l’esperienza percettiva tout-court, anche se è indisgiungibile da questa, e non è la conoscenza sensibile senza nulla più. Essa è piuttosto un’esperienza di genere proprio, che orienta e organizza il sensibile in funzione di un apprezzamento e mette capo al riconoscimento di un valore.

La consapevolezza di questo stato di cose sembra farsi strada, almeno implicitamente, nel progressivo venir meno dell’ostracismo verso il termine paesaggio, che è nozione fortemente caratterizzata dalla sua origine estetica e alla quale il discorso comune associa quasi automaticamente connotati valutativi. Infatti, mentre il modello cognitivista si formula proprio in antitesi al modello paesaggistico, e mentre quello formalista è rivolto ex professo a singolarità naturali, tanto quello geofilosofico quanto quello atmosferico recuperano non solo la parola, ma anche un tratto cospicuo della storia del concetto di paesaggio, eliminando l’equivoco nel quale ancora il paradigma cognitivista è interamente prigioniero, ovvero quello di considerare il termine paesaggio come del tutto equivalente a quello di ambiente. E invece l’ambiente è un concetto fisico-biologico, laddove il paesaggio è un concetto relazionale, ha a che fare con il modo in cui ci rappresentiamo un territorio e ci sentiamo in esso.

Certo, parlare di paesaggio come valore non riducibile ad altri, anche se da essi emergente, può prestare il fianco a equivoci, in primo luogo a quello inveterato che associa il termine solo alle punte di eccellenza e ai siti di ‘straordinaria bellezza’, come un tempo si diceva. Ma questo modo di guardare al paesaggio ha fatto il suo tempo, e oggi siamo convinti che degno di attenzione e rispetto non è solo il paesaggio con tratti di eccezionalità, ma il tessuto intero del territorio. Né del resto, a ben riflettere, parlare di qualità estetica significa affermare che il valore estetico si dà solo nello straordinario; semmai, vuol dire riconoscere che una qualità estetica (positiva o negativa, inusuale o familiare) appartiene inevitabilmente al nostro modo di rapportarci ai luoghi che viviamo e che ci accade di conoscere. Da questo punto di vista, forse si può perfino rovesciare la relazione tra qualità estetica del paesaggio e identità locale, nel senso che non è tanto la specificità dell’abitare (sempre potenzialmente sospettabile di venature localistiche o addirittura etniche) a costituire l’irriducibilità dei luoghi, quanto la diversità della loro apparenza estetica a farceli apprezzare come sempre differenti e bisognosi di salvaguardia della loro diversità. Infine, un altro equivoco che occorre dissipare è quello che vede nel valore estetico del paesaggio una mera proiezione di quel che abbiamo appreso dall’arte, e in particolare dalla pittura di paesaggio. Ma da questo modo di pensare il paesaggio, come una sorta di quadro naturale, ha preso le distanze in primo luogo l’arte del Novecento, che è stata sempre meno rappresentazione della natura.

Indicando nel paesaggio il tema centrale con il quale un’estetica della natura si deve confrontare, siamo già, a rigore, oltre i confini di un’estetica ambientale. Il paesaggio, infatti, come non è mai soltanto arte, non è mai soltanto natura. A esso concorrono sempre, inseparabilmente, la natura e la storia, fattori non creati dall’uomo e risultati delle azioni con le quali l’uomo segna e modifica l’ambiente in cui si trova a vivere. Una delle conseguenze più interessanti di una filosofia che rifletta sul filo conduttore del paesaggio è anzi proprio quella di indebolire o decostruire la rigida opposizione tra natura e arte, natura e storia, che troppo spesso ci si accontenta di considerare come un mero dato di fatto. Al paesaggio come intreccio di natura e storia si lega anche la dimensione immaginativa di esso, sulla quale ha richiamato l’attenzione Emily Brady (2003). Uno dei limiti più evidenti dei paradigmi scientifici e percettologici di pensare l’esperienza estetica nella natura è rappresentato infatti dal sacrificio che essi impongono alle componenti che la nostra immaginazione e la nostra memoria associano al paesaggio, non come elementi estranei e posticci, ma anzi come suoi aspetti essenziali. In fondo l’esperienza estetica nella natura, come l’esperienza estetica in genere, non è semplice percezione sensibile perché è anche sempre una riserva di esperienza, una dilatazione di essa, creazione di un di più che ci libera dall’assillo diretto dell’esistente.

La necessità di ripensare il paesaggio e di ripensare il nostro rapporto estetico con la natura sotto la categoria del paesaggio non vengono imposti all’agenda filosofica, del resto, solo dalle logiche interne della ricerca. Sempre più, anzi, questi temi avanzano nella coscienza civile e sempre maggiore è la sensibilità per questi aspetti. Lo provano non soltanto le molte associazioni di cittadini che si pongono come obiettivo la tutela del paesaggio, le molte battaglie che vengono ormai condotte in suo nome, ma anche importanti iniziative di legge in materia di tutela, come, per es., la Convenzione europea del paesaggio firmata a Firenze nel 2000 o il Codice dei beni culturali e del paesaggio emanato nel 2004. La prima definisce il paesaggio «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» (art. 1); la seconda tutela il paesaggio «con riferimento ai valori storici, culturali, naturali, morfologici, estetici» (art. 138). Entrambi, insomma, non solo impiegano senz’ambagi la nozione di paesaggio, ma le riconoscono essenziale la dimensione estetica. Certo, questo modo di guardare all’esperienza estetica nella natura è fortemente condizionato storicamente. Sarebbe apparso incomprensibile non solo nell’antichità greca o romana (la quale non avrebbe neanche posseduto una parola per indicare il concetto), ma persino nell’Ottocento o nella prima metà del secolo scorso. Niente di strano, del resto. L’estetica, come la filosofia in genere, elegge di volta in volta degli oggetti o degli ambiti specifici a materia di pensiero, oggetti e ambiti che diventano il suo banco di prova in un determinato periodo storico. Molto lascia pensare che il paesaggio sia, per il secolo che si è appena aperto, il banco di prova dell’estetica ambientale.

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