Etica

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Etica

Eugenio Lecaldano

(XIV, p. 447)

La riflessione etica degli ultimi decenni del 20° sec. si presenta estremamente variegata e soggetta ad alcune importanti svolte che rispecchiano spesso mutamenti di sensibilità intervenuti nel più generale ambito socio-culturale. Sia in relazione agli orientamenti etici generali, sia in relazione ai nodi tematici riguardanti l'agire umano che costituiscono l'oggetto precipuo dell'e., la prima svolta è quella che, dopo un periodo di oblio, ha condotto al centro dell'interesse le tradizionali questioni di e. normativa, mentre l'insorgere di tematiche collocabili nell'ambito della cosiddetta e. applicata rappresenta probabilmente una delle novità più considerevoli dell'ultimo ventennio. Si renderà quindi conto delle fasi successive della riflessione etica in conseguenza dei mutamenti accennati, indicandone gli esiti, gli aspetti problematici e gli sviluppi, con particolare riferimento alle proposte più recenti.

Dalla metaetica alle grandi proposte di etica normativa

Tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta, nell'ambito sia della cultura di lingua inglese, ancora dominata da varie versioni di filosofia analitica, che di quella di lingua tedesca, dominata dalla prospettiva ermeneutica, la riflessione filosofica ha segnato la piena riaffermazione del significato e della razionalità dell'attività con cui si dà vita a giudizi e decisioni morali, in contrasto con le prospettive prevalenti nel periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale, per le quali all'e. in quanto tale non era riconosciuta né sensatezza né razionalità. Gradualmente venivano contestate e denunciate come inadeguate le interpretazioni che, al di là delle differenze nello stile filosofico, convergevano su un punto sostanziale, ovvero nel caratterizzare l'e. come un'area della condotta umana in cui prevalgono tensioni irrazionalistiche ed esiti puramente relativistici. Queste conclusioni erano risultate prevalenti sia nelle diverse versioni dell'esistenzialismo (per es., in J.-P. Sartre, A. Camus e M. Heidegger), sia nel marxismo, che vedeva nella moralità solo un fenomeno sovrastrutturale (così, per es., sia pure in modi diversi, in G. Lukács e H. Marcuse), sia nella caratterizzazione neopositivistica del discorso morale in chiave verificazionista, inteso cioè come un insieme di espressioni meramente emotive (tipiche al proposito le analisi di A.J. Ayer e C. Stevenson). In una serie di scritti degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta pensatori dagli approcci filosofici molto diversi avevano ribaltato tali esiti negativi. Tra questi, in particolare, sono da ricordare: R.M. Hare (1963), che aveva messo a punto la presentazione, nello stile della filosofia analitica, dei giudizi morali come prescrizioni universalizzabili; K.-O. Apel (1973), che, non diversamente da J. Habermas (1968), aveva mostrato l'impegno dell'ermeneutica nel rendere conto dell'universalità del discorso etico; e infine una schiera di pensatori già impegnati nella riabilitazione della filosofia pratica - e tra questi in particolare R. Bubner (1976) -, i quali avevano chiaramente riformulato un contesto teorico che, recuperando alcuni strumenti della filosofia aristotelica, riconosceva la piena sensatezza e razionalità dell'ambito della condotta che ha a che fare con i valori etici.

Pur nella grande diversità, si trattava in fondo di un insieme di concezioni metaetiche - ovvero di teorie il cui oggetto principale è la natura della moralità - che condividevano una serie di conclusioni: il riconoscimento della piena autonomia dell'e. rispetto alle scienze naturali; la legittimità della richiesta di ragioni a sostegno delle tesi che si confrontano in un disaccordo morale; la validità della pretesa di universalità delle concezioni etiche. In questo modo nella riflessione etica si era realizzata una svolta che, o su basi linguistiche o sulla base di una più ampia considerazione della cultura umana, poneva le condizioni per una nuova fase di ricerca normativa. Le e. teoriche, esplicitamente impegnate nel proporre le priorità normative che erano state trasmesse dalla tradizione - e dunque specialmente utilitarismo, aristotelismo, kantismo, personalismo giusnaturalistico, contrattualismo, e. dei diritti -, andavano rivisitate per valutare sul piano critico sia la loro capacità di resistere alle pretese avanzate dalla maggiore consapevolezza dell'analisi metaetica, sia la loro capacità di essere sufficientemente fertili sul piano pratico da suggerire soluzioni concrete per i problemi etici effettivi della società del tempo.

Numerose sono state in questo quadro le riformulazioni delle concezioni normative messe a punto nel corso degli anni Settanta. Anche qui è possibile indicare una colorazione comune che supera le differenze nell'approccio filosofico privilegiato, tenuto conto che la dicotomia filosofia analitica-filosofia ermeneutica si mostra sempre più capace di ricomprendere tutto l'insieme del lavoro filosofico originale compiuto nel periodo qui considerato. Il nucleo comune di questa fase normativa sta nel concepire l'e. principalmente come una teoria che deve rispondere a questioni pubbliche, legate alla tematica della giustizia o alla valutazione di fondo dell'accettabilità delle istituzioni politiche da un punto di vista morale. Nel corso degli anni Settanta vengono così elaborate alcune concezioni normative che affrontano in modo sistematico le questioni etiche della giustizia distributiva e delle istituzioni politiche migliori, dal punto di vista morale, per risolvere i conflitti nell'attribuzione di diritti giuridici e di cittadinanza. Queste diverse teorie normative sistematiche condividono non solo la prevalente attenzione per i temi della giustizia, ma anche taluni obiettivi polemici e un punto di vista costruttivo. Sul piano polemico, le critiche vengono rivolte in modo convergente nei confronti dell'e. utilitaristica che, a ragione della sua tendenza a preoccuparsi esclusivamente del conseguimento dei risultati migliori (la cosiddetta regola aurea della ricerca della maggiore felicità per il maggior numero), viene accusata di non prendere sul serio la distinzione tra le persone e le loro esigenze di integrità. Ma un'analoga convergenza critica si verifica anche nei confronti di quelle concezioni che pretendevano - specialmente in campo marxista - di risolvere le questioni di giustizia con un rigido criterio egualitarista, senza conferire alcuna rilevanza morale né ai diritti acquisiti di proprietà né ad altri diritti individuali di libertà. Risulta così chiaro che le differenti teorie etiche impegnate a risolvere in particolare le questioni di giustizia si muovono in un contesto che dà per validi - e questo è ciò che le unisce sul piano costruttivo - i presupposti politici e costituzionali delle società rette da istituzioni liberali e democratiche.

L'opera che inaugura in modo del tutto originale questa fase di elaborazione delle grandi teorie etiche della giustizia è indubbiamente A theory of justice (1971) di J. Rawls; la particolare forma di neocontrattualismo presentata in quest'opera ha largamente egemonizzato la discussione teorica per un lungo periodo che attraversa non solo gli anni Settanta e Ottanta, ma anche, con l'altra grande opera di Rawls, Political liberalism (1993), l'ultimo decennio del secolo. Rawls in definitiva ha proposto l'agenda di problemi al centro della riflessione di tutti coloro che si sono rivolti all'e. considerandola una ricerca volta a identificare le istituzioni politiche e giuridiche migliori. Il contributo fornito da autori come R. Nozick, D. Gauthier, R. Walzer, Ch. Taylor, A.C. MacIntyre e molti altri può essere meglio compreso solo vedendolo come una reazione alle tesi di Rawls. I contributi di Rawls hanno avuto larga eco non solo sulla filosofia di lingua inglese: anche la filosofia di lingua tedesca, sia con Apel e Habermas sia con E. Tugendhat, reagisce negli anni Ottanta principalmente alle concezioni neocontrattualistiche di Rawls oltre che all'utilitarismo di Hare e di J.C. Harsányi; e nella cultura di lingua francese molti autori, tra cui P. Ricoeur, si sono confrontati con la teoria della giustizia di Rawls.

La teoria di Rawls presenta dunque una serie di proposte centrali che verranno messe alla prova dal pensiero etico degli anni Settanta e Ottanta. In primo luogo, la svolta teorica di Rawls consiste nel mettere sullo sfondo tutto l'insieme di questioni che avevano invece monopolizzato l'attenzione nella fase metaetica, e dunque poco o nulla si trova nelle pagine di Rawls relativamente alla natura della morale e alle forme di ragionamento che le sono proprie. Ciò non toglie che la sua teoria si sorregga su una ben precisa concezione sia dell'e. sia della razionalità pratica. La vita morale in quanto tale va caratterizzata per Rawls secondo una prospettiva deontologica, nel senso che essa ha a che fare non con un calcolo delle conseguenze delle varie condotte alternative che possiamo intraprendere, ma piuttosto con l'esposizione in forma sistematica di alcuni principi di ordine generale, in grado di suggerire una soluzione adeguata alle principali questioni di giustizia che si devono affrontare nella sfera pubblica. I principi da porre al centro della teoria della giustizia non possono essere derivati da principi superiori, ma emergono come i più adeguati dopo che siano state messe alla prova le comuni intuizioni morali che accompagnano il senso corrente della giustizia con un particolare tipo di esame che Rawls caratterizza con l'espressione "equilibrio riflessivo". I due principi al centro della teoria della giustizia - il principio di salvaguardia della libertà e quello di "differenza" o equità - non sono semplicemente la trasposizione in norme e regole delle intuizioni morali di partenza, ma sono piuttosto il frutto di un'elaborazione coerente e rigorosa delle implicazioni di tali intuizioni. Questa elaborazione porta, da una parte, ad accantonare tutte le soluzioni controintuitive e, dall'altra, a mettere ordine in esse rendendole armoniche e non contrastanti. Procedendo su questa strada, Rawls ha delineato un'articolata forma di ragionamento pratico, finalizzata a dimostrare come i principi posti al centro della sua teoria salvaguardino l'esigenza di imparzialità contenuta nel comune senso di giustizia. Rawls sostiene quindi che la scelta dei principi a cui ispirare le istituzioni pubbliche possa essere portata a termine in modo adeguato solo se con l'immaginazione ci collochiamo in una sorta di "posizione originaria", in cui la scelta delle regole di giustizia, da far valere negli assetti concreti che presiedono alla distribuzione di beni limitati, esige che i soggetti interessati si trovino sotto un "velo d'ignoranza", cioè all'oscuro della condizione sociale che ciascuno di essi andrà a occupare. Passando attraverso questo vaglio Rawls arriva così a fissare i due principi fondamentali che devono ispirare le decisioni su questioni di giustizia: da una parte, il rispetto della libertà e dell'autonomia di ciascun individuo, dall'altra il cosiddetto principio di differenza, secondo il quale oneri, premi e limitazioni possono essere accettati sul piano sociale solo se rivolti a migliorare le condizioni dei più svantaggiati, e dunque a rendere più eque le istituzioni che governano la vita associata. Secondo Rawls beni principali come diritti, libertà, poteri, opportunità, ricchezza ecc. andranno distribuiti in modo eguale, tranne in quei casi in cui una qualche diseguaglianza consenta di migliorare le condizioni di chi è più svantaggiato.

Rawls ha aggiunto ulteriori specificazioni al nucleo della sua teoria della giustizia anche con i lavori raccolti nel volume del 1993. Le più rilevanti sono: l'indicazione di un ordine "lessicale" tra i principi di giustizia, ossia un ordine che mette al primo posto il principio di libertà rispetto a quello di differenza; l'indicazione della regola del maximin come criterio con cui in situazioni di incertezza bisognerà sempre privilegiare l'esito meno negativo per coloro che si trovano nelle condizioni peggiori; infine, la tesi della completa neutralità delle istituzioni politiche e delle regole che le ispirano rispetto alle diverse concezioni della vita buona: ciò equivale a sostenere che l'ordine costituzionale generale che governa la società giusta non deve avere niente a che fare con le convinzioni religiose e morali dei cittadini. Il particolare liberalismo con cui Rawls coniuga moralità e politica non è una difesa etica della superiorità dei sistemi politici che salvaguardano le esigenze di libertà e di pluralismo proprie della tradizione liberale, ma piuttosto l'affermazione della completa indipendenza degli assetti liberali rispetto a qualunque concezione morale ritenuta vincolante.

Numerosi sono stati dagli anni Settanta i tentativi di elaborare concezioni alternative a quella di Rawls e dunque, proprio guardando ai diversi modi in cui tali concezioni si confrontano con il neocontrattualismo rawlsiano, è possibile rendere conto in modo ordinato dei principali sistemi normativi elaborati negli anni successivi. In contrasto con il criterio del maximin e con l'ampio spazio accordato da Rawls al principio di differenza, Nozick (1974) ha proposto una teoria etica delle istituzioni pubbliche che, richiamandosi a J. Locke, ritiene necessario evitare qualsiasi ingerenza in nome del bene pubblico nella sfera dell'autonomia individuale. Sul piano delle questioni di giustizia Nozick ritiene dunque accettabile una distribuzione anche non equa, purché capace di rispettare i titoli validi di proprietà acquisiti attraverso la lotteria naturale. Le forme di cooperazione e le stesse istituzioni pubbliche sono giustificate solo in quanto strategie minime e limitate a garantire la vita e la sicurezza dei cittadini. Una forma di neocontrattualismo per alcuni versi vicina a quella di Rawls è stata presentata da Gauthier (1986), per il quale tuttavia le questioni morali fondamentali dovrebbero essere affrontate su basi hobbesiane piuttosto che kantiane. Diversi rispetto a quelli di Rawls sono quindi gli esiti cui perviene Gauthier, le cui tesi appaiono rivolte a giustificare la moralità non in base alla sua capacità di garantire un trattamento equo e imparziale dei diversi interessi in gioco, ma in quanto strategia sociale che permette a ciascun individuo di soddisfare al meglio le proprie esigenze egoistiche razionali.

Una serie di pensatori contesta poi le premesse individualistiche e per così dire liberali della teoria morale di Rawls. Questa contestazione si spinge più o meno in profondità, finendo per dare luogo a delle prospettive alternative, come nel caso, per es., della cosiddetta e. comunitaria. Se c'è chi, come M.J. Sandel (1982), si limita a denunciare le componenti di astrattezza della nozione di agente morale presupposta dalla teoria di Rawls, influenti esponenti del comunitarismo, quali A.C. MacIntyre (1981) e Ch. Taylor (1989), contrappongono al costruttivismo razionalistico di Rawls una prospettiva che mette al centro dell'e. non tanto la giustizia quanto piuttosto l'idea di bene. Secondo MacIntyre, per es., la vita morale dovrebbe essere centrata intorno a virtù o eccellenze che si possono identificare recuperando l'approccio teleologico di Aristotele, con l'avvertenza che, in luogo delle conclusioni assolutistiche di Aristotele sulla vita buona, bisognerà accontentarsi di quei criteri di eccellenza realizzabili nelle diverse attività che ci è dato svolgere all'interno della comunità di cui facciamo parte. Sul collegamento della vita buona con la comunità insiste anche Taylor, che indica nell'impegno del soggetto a recuperare una propria integrità di vita l'obiettivo della moralità.

Non meno numerosi sono stati i pensatori che si sono impegnati in una riformulazione dell'e. utilitaristica. Particolarmente significativi sono stati i risultati realizzati lungo quattro distinti piani di ricerca. Così, Harsányi (1977) ha conciliato utilitarismo e teoria della scelta razionale, mettendo al centro del calcolo non più stati d'animo come il piacere o il dolore ma le preferenze personali. Harsányi ha anche messo a punto un criterio di valutazione utilitaristica volto a esaminare le conseguenze non di singole azioni, ma piuttosto di regole e norme. J.J.C. Smart (1973) si è impegnato d'altra parte a riproporre un utilitarismo edonistico e dell'atto, rivisitandone comunque criticamente i fondamenti: abbandonata infatti la pretesa di dare vita a un'e. scientifica, Smart accompagna alla riaffermazione della regola aurea il riconoscimento della natura non conoscitiva delle conclusioni morali. Ancor più marcato è lo sforzo con cui Hare (1981) si è impegnato a rielaborare l'utilitarismo in modo da farne la forma di moralità maggiormente in grado di soddisfare il requisito di autonomia dell'e. e la sua natura logica in quanto insieme di prescrizioni universalizzabili. Hare sottolinea inoltre la piena conciliabilità di un'e. rivolta alla soddisfazione in massimo grado delle preferenze di tutti gli agenti con le esigenze fatte valere da Kant. Infine, R.B. Brandt (1979, 1996) ha sviluppato la dottrina utilitaristica in una prospettiva volta a caratterizzare la moralità come qualcosa che verrebbe accettato da uno spettatore ideale pienamente informato. Così, Brandt suggerisce che l'utilitarismo è l'unico criterio etico in grado di individuare quell'insieme di norme che accetteremmo di porre a base di una sorta di società ideale.

Le concezioni utilitaristiche sono state però ampiamente criticate. In primo luogo dai sostenitori delle varie forme di contrattualismo, i quali insistono sulla natura per così dire autoritaria e paternalistica dell'e. utilitaristica. Un'e. che ritiene di imporre soluzioni per tutti è il frutto di un calcolo condotto, come rileva B. Williams, da una sorta di 'agente governativo' che non riesce a rispettare pienamente l'autonomia e la differenza delle persone (Williams 1985). In secondo luogo, critiche sono venute da chi, come per es. R.M. Dworkin (1977), ha denunciato l'incapacità dell'utilitarismo di rendere conto del tratto etico più caratteristico della nostra epoca, ovvero la piena salvaguardia del diritto di ciascun individuo a non essere discriminato o limitato nella propria autonomia.

Le critiche all'utilitarismo in nome dei diritti documentano già il mutamento di prospettiva che si sviluppa negli anni Ottanta nell'asse centrale di riferimento per il dibattito dell'e. teorica. Questo mutamento è dovuto al continuo far appello all'urgenza di una serie di problemi morali concreti per evidenziare, attraverso la sterilità pratica dei grandi sistemi normativi, la necessità di cambiare livello di analisi, muovendo verso la dimensione della cosiddetta e. applicata. Tale mutamento va di pari passo con il passaggio dalle questioni della giustizia distributiva a un insieme di temi che coinvolgono più da vicino il riconoscimento di diritti individuali di libertà e la sfera privata delle vite degli agenti morali. Molto opportunamente, N. Bobbio avrebbe usato l'espressione L'età dei diritti (1990) in riferimento agli anni Ottanta (v. diritti, in questa Appendice).

Certamente, l'impegno alla salvaguardia dei diritti sul piano etico ridà spazio al tentativo di rinnovare una serie di concezioni etiche che non soddisfacevano i requisiti epistemologici dell'empirismo e del metodo analitico, su cui convergevano invece le teorie etiche di cui si è fin qui reso conto. In questo senso va ricordato lo sforzo con cui J. Finnis (1980) ha riformulato la nozione tradizionale di legge naturale, per consentirle di operare da fondamento per il riconoscimento di un'ampia gamma di nuovi diritti morali. Ma l'esigenza di sviluppare una teoria etica in grado di fondare i diritti morali individuali viene soddisfatta nelle più diverse maniere anche nelle culture filosofiche dell'Europa continentale. Così, la filosofia di lingua tedesca, in particolare attraverso gli strumenti dell'ermeneutica, ha cercato di realizzare una fondazione universalistica dei diritti e più radicalmente delle regole e delle norme morali. Nel corso degli anni Ottanta, Apel si è particolarmente impegnato a connettere la sua analisi pragmatica del discorso alla nozione morale di responsabilità (Apel 1997). L'e. di Apel si basa sulla tesi che tanto la comunità universale della comunicazione quanto le condizioni intersoggettive dell'argomentazione razionale presuppongono l'osservanza di una ben precisa norma morale. Tale norma morale non va vista quindi, come in Kant, soltanto come un principio a priori trascendentale di natura esclusivamente formale, ma proprio come una realtà vincolante sul piano linguistico-pragmatico, come un dovere specifico che esige il riconoscimento degli stessi diritti a tutti i membri della comunicazione. Sulla stessa linea procede Habermas, che conferisce però alla sua e. del discorso, specialmente in alcuni lavori (1983, 1992), una portata più decisamente critica nei confronti della razionalità intesa in senso meramente strumentale, considerata propria della modernità. Habermas insiste dunque sulla natura ideale propria della norma, che per essere moralmente adeguata deve risultare universalizzabile, ovvero tale che su di essa si possa realizzare un accordo di tutti. Tale accordo sarà effettivo solo se quanti sono coinvolti attraverso una comunicazione non distorta percepiscono il contenuto affermato nella norma come il loro interesse comune.

Anche nella cultura filosofica francese recente larga parte della riflessione morale ruota intorno al problema di una fondazione universalistica dell'etica. Molte risposte in senso positivo sono state elaborate riprendendo la tradizione esistenzialistica dell'individuazione di situazioni tipiche della vita morale, come mostra, per es., J. Russ (1994). Queste esigenze sono poi conciliate con impostazioni presenti nella filosofia francese contemporanea. Così, M. Foucault (1984), all'interno della sua prospettiva strutturalista, si è impegnato anche a fare emergere una nuova concezione della soggettività morale attraverso l'esame delle situazioni di potere e delle loro trasformazioni nella storia della sessualità. Più concentrata su una fenomenologia della vita morale è l'opera di E. Levinas (1982), il quale rileva come al centro dell'e. vi sia in definitiva una relazione asimmetrica che fa sì che il soggetto morale si assuma la responsabilità per gli altri in termini del tutto disinteressati. Sul piano dei contenuti normativi Levinas sviluppa un'e. che, attraverso quella che egli presenta come 'una fenomenologia del volto' dell'altro, impone il rifiuto di qualsiasi violenza. Nella cultura filosofica francese non è infine mancato chi ha enunciato esiti nichilistici per la moralità (per es., G. Bataille e G. Deleuze).

La crisi dell'etica teorica e l'irruzione dell'etica applicata

Nel corso degli anni Ottanta si assiste a una radicale inversione di rotta del lavoro teorico nello sviluppo della riflessione etica. Come si è già accennato, vengono messi da parte e denunciati come sterili astrazioni i grandi sistemi teorici della giustizia pubblica degli anni Settanta e ci si muove, in nome di una richiesta di effettiva rilevanza delle proposte normative, verso un'ampia gamma di elaborazioni nell'ambito dell'e. applicata. In particolare, si esige che la riflessione etica sia in grado di dare suggerimenti utili per risolvere i nuovi problemi morali suscitati dalle grandi trasformazioni che gli sviluppi della ricerca scientifica e della tecnologia hanno prodotto nelle società occidentali. In conseguenza di tali trasformazioni, per la prima volta si pongono alla condotta umana alcune drammatiche alternative morali riguardanti la cura delle malattie, i modi di nascere e di morire, i rapporti con la natura e con gli animali. Le nuove alternative morali hanno a che fare con la vita privata delle persone ed esigono dunque, oltre che un approccio più concreto, anche un'elaborazione filosofica che tenda a lasciare sullo sfondo, se non a mettere da parte, le questioni etico-politiche della giustizia pubblica. All'interno del nuovo orientamento di e. pratica o applicata vanno così emergendo e poi consolidandosi - fino a raggiungere una vera e propria istituzionalizzazione disciplinare - vari specifici settori di analisi. Per rendersi conto dell'enorme sviluppo dell'e. applicata negli ultimi quindici anni, basta confrontare la prima sintesi proposta a metà degli anni Ottanta da J.P. De Marco e R.M. Fox (New directions in ethic, 1986) con il gran numero di riviste specialistiche e opere enciclopediche pubblicate alla fine del secolo.

Certamente, i temi più discussi nell'ambito dell'e. applicata sono quelli relativi alle questioni morali sollevate dalle innovazioni nei modi di curarsi, nascere e morire, conseguenze della ricerca medica e biologica e oggetto specifico della bioetica (v. in questa Appendice). Ma accanto alla bioetica si vanno consolidando anche altri ambiti di ricerca su aspetti specifici delle nuove questioni etiche in cui si trovano coinvolti gli esseri umani, sicché appare sempre più evidente quella tendenza alla specializzazione che ha spinto alcuni a parlare - per es., A.R. Jonsen e S. Toulmin (1988) - di un "abuso della casistica" come caratteristica della nostra epoca; in questa 'nuova casistica' tuttavia, diversamente da ciò che accadeva in quella tradizionale, la riflessione non sembra più procedere nel senso di una semplice deduzione di soluzioni per casi specifici da principi morali universali considerati assolutamente validi, ma piuttosto nella ricerca di soluzioni muovendo proprio dal caso concreto e mettendo in luce la difficoltà di risalire a principi etici tradizionali, intesi come gli unici validi per la condotta umana in generale. Sono gli esiti della ricerca scientifica e della diffusione di nuove tecnologie a far nascere, come si diceva, nuove aree applicative dell'e., anche se non mancano settori del recente sviluppo dell'e. pratica che rivisitano problematiche lungamente dibattute in ambito morale. Le conseguenze più o meno negative dello sviluppo tecnologico sulle relazioni tra le persone e l'ambiente naturale, così come le previsioni fondate sulle trasformazioni che ci si attende in tempi brevi in queste relazioni, hanno dato corso a un'estesissima letteratura concentrata sulle questioni della cosiddetta etica ambientale o sulle questioni della 'responsabilità morale nei confronti delle generazioni future'. Sul piano dell'e. ambientale sono riconoscibili diverse posizioni, tutte peraltro impegnate a sviluppare la critica avviata da J.A. Passmore (1974) contro chi concepisce il rapporto dell'uomo con la natura in termini di un dominio senza limiti.

Le diverse concezioni sviluppatesi nell'e. ambientale possono poi essere distinte a seconda che giungano a individuare le regole che devono presiedere al rispetto della natura, sulla base di una considerazione prevalentemente antropocentrica della moralità, o si spingano invece a radicare tale rispetto in una forma più o meno profonda di ecologismo, che considera la natura di per se stessa fornita di diritti e dotata dunque di un intrinseco valore morale. Notevoli contributi all'e. ambientale sono stati forniti negli Stati Uniti; tra essi ricordiamo quelli di R. Attfield (1983), H.J. McCloskey (1983), P.W. Taylor (1986), A. Brennan (1988), E.C. Hargrove (1989), W. Fox (1990), L.E. Johnson (1992). Non meno ampia è stata l'elaborazione di teorie volte a porre un limite a una condotta irresponsabile nei confronti dell'uso delle risorse limitate di cui l'umanità dispone sulla Terra, facendo appello a un'e. che sappia delineare le responsabilità che le generazioni attuali hanno nei confronti di quelle future. Anche lungo questa strada profondamente diverse sono state le proposte presentate come risolutive. In questo ambito, vanno ricordate per originalità e profondità di sviluppo le ricerche con cui D. Parfit (1984) ha messo criticamente alla prova la capacità di fondare la responsabilità morale nei confronti delle generazioni future da parte di un'e. preoccupata esclusivamente di calcolare i danni che, come conseguenze prevedibili delle scelte attuali, deriveranno alla qualità della loro vita; e ancora le elaborate riflessioni di H. Jonas (1979) per individuare le nuove condizioni di una scelta prudenziale intergenerazionale, che tenga conto delle potenzialità catastrofiche connesse a un uso senza freni delle nuove scoperte tecnologiche.

Anche le questioni etiche relative al trattamento degli animali sono state ampiamente affrontate con un'attenzione del tutto nuova. Il diffuso interesse per le questioni etiche riguardanti il modo di rapportarsi agli animali può essere visto come una presa d'atto delle inutili crudeltà a essi inflitte in conseguenza dell'uso di nuove tecniche, nell'ambito della produzione industriale del cibo e nella sperimentazione a fini farmaceutici o per il perfezionamento di beni di consumo. In quest'area di riflessione molto influente è stata la forma di e. utilitaristica di P. Singer (1975, 1983²) che, denunciando come un pregiudizio 'specistico' quell'impostazione morale che discrimina tra le sofferenze degli esseri umani e quelle degli animali, ha sottolineato come da un punto di vista razionale non esistano fondate ragioni per non estendere il principio di una minimizzazione delle sofferenze inutili fino a tenere conto anche di quelle degli animali. Molto più marcata è stata la difesa della tesi di una rilevanza morale delle azioni rivolte agli animali da parte di teorici che - come, per es., T. Regan (1983) - hanno basato i diritti morali degli animali (v. diritti: Diritti degli animali, in questa Appendice) sul valore intrinseco anche delle loro vite. Questa impostazione non solo suggerisce comportamenti di assoluto rispetto nei confronti della vita animale in sé, ma si è spinta talvolta fino a forme di profonda e religiosa salvaguardia di tutta la natura vivente.

Come sviluppo e specializzazione della lunga riflessione degli ultimi secoli sugli intrecci tra moralità e decisioni economiche va poi vista quell'area dell'e. applicata comunemente designata etica degli affari. Obiettivo di quest'area di riflessione è di rendere esplicita la portata delle relazioni più propriamente morali nell'ambito dell'organizzazione delle imprese impegnate nelle attività produttive. Viene così sistematicamente approfondito il ruolo dei rapporti fiduciari, della reputazione e dei riconoscimenti di autorità di tipo morale per il buon funzionamento della vita delle aziende. Al di là di questo piano prevalentemente descrittivo, non mancano all'interno dell'e. degli affari teorizzazioni esplicitamente normative - di cui costituiscono esempi i contributi di R.E. Freeman (Business ethics 1991) e C. McMahon (1994) - volte a suggerire modelli di riorganizzazione delle relazioni di affari con un'accentuazione dell'incidenza delle relazioni morali. Entro quest'ambito di riflessione sono riconoscibili concezioni differenti a seconda che si faccia ricorso, per la costruzione normativa, alla teoria dei giochi o alla teoria della scelta razionale o a qualche forma di neocontrattualismo. Va comunque sottolineato che quasi tutte le elaborazioni normative sono impegnate a giustificare, tra l'altro, questa 'moralizzazione' del sistema azienda come una via per accrescere e migliorare la produzione. Ma in realtà non c'è relazione di tipo professionale riconoscibile nelle società complesse e postindustriali che non sia stata fatta oggetto, negli ultimi vent'anni, di una sistematica indagine volta a evidenziare le componenti etiche in essa presenti e a suggerirne quindi un miglioramento alla luce di una più coerente osservanza di norme e regole morali. E molte di queste riflessioni vengono connesse all'esplicito programma di fissare un codice etico interno valido per coloro che svolgono una determinata professione. Vi è stato pertanto un fiorire di volumi - prima nella cultura angloamericana e successivamente in altre culture - sull'e., di volta in volta, della professione legale, del giornalismo, della comunicazione attraverso i mass media, dell'uso del computer e così via. Si tratta di una fioritura nella riflessione etica in cui la molteplicità dei rami applicativi collaterali ha fatto talvolta perdere di vista il nucleo centrale della problematica morale e l'esigenza di disporre di strumenti in grado di realizzare una più adeguata comprensione critica dei fenomeni coinvolti. Malgrado un certo appiattimento su una mera presa d'atto dei costumi diffusi, quest'ampia letteratura può essere vista come una documentazione dell'incidenza delle relazioni morali nella pratica quotidiana delle società sovrappopolate e complesse che caratterizza la seconda metà del 20° sec.; un'incidenza che ha spinto alcuni a sostenere che solo presupponendo la realtà delle relazioni morali tra gli individui si può riuscire a rendere conto della stabilità più o meno ordinata di tali società e a prevedere, con un minimo di certezza, che esse non si dissolveranno in una piena anarchia. Non può dunque costituire motivo di sorpresa il fatto che, parallelamente a quest'ordine di riflessioni, sia stata talvolta avvertita l'esigenza di una nuova figura professionale, quella dell'operatore sociale con una specifica competenza di 'esperto di etica' o, come talora si è detto, di 'eticista'.

Verso una nuova sintesi

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta la riflessione etica inaugura una nuova fase di ricerca. Si avverte innanzitutto l'esigenza di reagire ad alcuni pericoli connessi all'eccessiva specializzazione, nonché alla dedizione totale al tipo di lavoro compiuto all'interno di uno qualsiasi dei rami dell'e. applicata. Un primo pericolo, una volta calatisi ossessivamente nella ricerca delle soluzioni giuste per casi concreti, è quello di perdere di vista le questioni critiche decisive sulla natura propria delle norme e delle regole morali, sulla loro continuità o discontinuità rispetto ai risultati delle scienze naturali, sulla loro possibile fondazione e sui modi in cui possono essere razionalmente giustificate. Contro questa tendenza ad appiattirsi su un lavoro applicativo che ha perso di vista le domande generali vi è un ritorno alla ricerca metaetica, che va di pari passo con l'esplicita indagine sul ruolo e l'incidenza effettiva del lavoro teorico in morale. D'altra parte, la fase di fioritura delle diverse e. applicate ha fatto emergere una serie di problemi relativi alle priorità tra i diversi ambiti di questioni e alla difficoltà di dare un ordine coerente alla vita pratica di un soggetto morale costretto a passare continuamente da un ambito all'altro di questioni etiche, tenuto conto che per ciascuno di questi ambiti sembra valere un principio diverso. Si ripresenta così l'esigenza di disporre di teorie normative integrate e generali, che siano in grado di orientare le decisioni moralmente adeguate in tutte le sfere della vita pratica degli uomini. La ricerca di una nuova sintesi normativa caratterizza dunque gli ultimi anni del secolo. Lo sfondo etico comune alle teorizzazioni precedenti è stato infine messo in dubbio dallo svilupparsi di quel pensiero femminile che in modo più o meno radicale ha sollevato il problema della necessità di riconoscere una connessione tra genere sessuale e valori etici, sottolineando con forza l'esigenza di una maggiore consapevolezza della natura prevalentemente maschile del punto di vista delle teorizzazioni tradizionali. Questa contestazione della riflessione filosofica morale tradizionale, d'altra parte, è riconoscibile non soltanto nel cosiddetto pensiero femminista o 'della differenza', ma anche in un nucleo di indagini ed elaborazioni che, negli ultimi decenni, ha dato vita a un vero e proprio movimento antiteorico.

La rinnovata attenzione per le questioni generali di metaetica ha visto fiorire negli ultimi anni alcune linee originali di caratterizzazione della natura dei valori morali e dell'esperienza che se ne può avere. Sono così tornate di attualità analisi volte a cercare di rendere conto delle pretese di verità che sembrano accompagnare l'e. e di quegli aspetti linguistici e concettuali per i quali un giudizio morale si presenta principalmente come un'asserzione su valori o disvalori, che vengono concepiti come realmente esistenti nel mondo. In questo quadro J.L. Mackie (1977) ha parlato di 'teoria dell'errore' a proposito delle dottrine che considerano i giudizi morali asserzioni vere o false su valori che esistono di per sé; infatti, dato che in realtà quei valori non esistono, tutti i giudizi morali sarebbero falsi. Riguardo al medesimo problema, S. Blackburn (1984) ha elaborato un'analisi 'proiezionista' e quasi realista dei giudizi morali: questi non si riferiscono a proprietà etiche esistenti di per sé nel mondo, ma piuttosto a valori che, data la loro rilevanza continuamente ritrovata nell'esperienza di ciascuna generazione, l'umanità, nel corso del suo processo di civilizzazione, ha finito con il considerare quasi reali, proiettandoli in uno stato di indipendenza rispetto alle scelte individuali. La pretesa di verità contenuta nei giudizi morali è stata inoltre sottoposta a scrutinio in teorie come quelle di D. Wiggins (1987) e J.H. McDowell (1994), che collegano l'esperienza morale al possesso, da parte degli esseri umani, di una capacità o di una particolare forma di sensibilità che li mette in condizione di percepire nel mondo valori che presentano forti analogie con le tradizionali qualità secondarie, quali i colori, i sapori ecc.

Non mancano tuttavia anche tentativi di guardare in una diversa luce il problema dello statuto dei giudizi morali, come, per es., in quelle nuove forme di realismo etico che - principalmente a opera di D.O. Brink (1989) e M.A. Smith (1995) - insistono piuttosto sull'opportunità di inserire la comprensione della natura dei valori in una prospettiva generale di tipo scientifico, in grado di farne emergere la connessione con profondi bisogni ed esigenze della natura umana. Queste forme di realismo etico ritengono dunque che al centro dell'e. si possano individuare dei contenuti del tutto naturali, che fissano regole di condotta tanto necessarie per la sopravvivenza degli esseri umani da essere fornite di una loro realtà, anche al di là del riconoscimento individuale. Le prospettive realistiche in e. sono state ripresentate anche con l'obiettivo di rendere conto in termini naturalistici di alcuni aspetti dell'obbligatorietà e del dovere etico, come, per es., il fatto che un dovere morale si presenti anche come qualcosa di esterno e di non riducibile al soggetto morale. A questa spiegazione 'esternalista' dell'obbligatorietà delle distinzioni morali si sono però anche contrapposte analisi di tipo 'internalista', come quella di A. Gibbard (1990). Questi ha sottolineato come la capacità dei giudizi morali di motivare la condotta umana vada considerata una conseguenza diretta della natura prevalentemente espressiva ed emotiva del tipo di discorso con cui gli esseri umani enunciano e criticano norme e regole etiche.

Nuovi tentativi sono stati inoltre compiuti per impostare in termini complessivi le questioni etiche principali, con l'obiettivo di superare nei limiti del possibile la frantumazione delle diverse aree dell'e. applicata. Da una parte, pensatori come I. Berlin (1994) e S.N. Hampshire (1983, 1989) hanno ravvisato nella vita morale l'esistenza di situazioni dilemmatiche che non consentono di risolvere compiutamente conflitti o disaccordi: l'esperienza etica spesso mette di fronte ad alternative che, quale che sia il modo in cui vengano risolte, non permettono comunque di salvaguardare adeguatamente tutti i principi in gioco. Dall'altra, a causa dell'ineliminabilità di queste situazioni conflittuali, si è suggerito di abbandonare la pretesa di costruire sistemi etici imperniati su un solo principio, per elaborare piuttosto teorie etiche miste o concezioni a più principi, le sole in grado di ispirare scelte per le situazioni problematiche di fronte alle quali ci troviamo. Vari esempi di e. miste sono così presenti nella riflessione teorica degli ultimi decenni: da quella proposta da W.K. Frankena (1963), che mette insieme beneficenza e giustizia in una forma di deontologismo misto; a quella di chi, come A. Sen (1984, 1987), ritiene che l'e. debba ruotare intorno alla duplice esigenza del rispetto dell'autonomia individuale e della soddisfazione di standard adeguati di qualità della vita; fino alle varie forme di 'principialismo' - sviluppato nell'area della bioetica da T.L. Beauchamp e J.E. Childress, H.T. Enghelhart, D. Gracia, R. Gillon ecc. -, per il quale l'insieme delle questioni etiche può essere risolto con una moralità che tenga conto di diversi principi (di autonomia, equità, beneficenza, di evitare il danno). L'orientamento seguito dalle e. miste presenta però la difficoltà di non riuscire a dare unità alla vita morale e sembra così finire con il suggerire una qualche forma di disintegrazione del soggetto morale. Alla loro elaborazione fa da contropartita una linea teorica, fortemente presente negli ultimi anni, rivolta a delineare la natura del soggetto chiamato in causa nella vita morale. Autori di diversa formazione mettono al centro della loro riflessione la questione dell'identità dell'agente morale: se B. Williams (1981) ha sottolineato la centralità dell'integrità morale del soggetto per riuscire a ricostruire le condizioni della vita morale, D. Parfit (1984) ritiene che al centro della vita morale bisogna porre un soggetto concepito come riducibile a una serie di eventi mentali collegati tra di loro solo in modo psicologico. Altri autori - e segnatamente Ch. Taylor (1989) -, pur riconoscendo la maggiore complessità dell'identità personale nell'età contemporanea, auspicano un processo di reintegrazione attraverso una più stretta connessione tra l'individuo e la comunità di cui fa parte.

Il dibattito teorico sull'e. è stato in vari modi arricchito negli ultimi decenni dalle proposte emerse dal cosiddetto pensiero delle donne. Le questioni discusse in quest'area vengono elaborate su di un piano più o meno alternativo, giungendo nelle correnti più radicali sino a contestare nei suoi stessi fondamenti la concezione morale tradizionale. Da una parte vi sono coloro - come alcune esponenti del 'pensiero della differenza' quale L. Irigaray (1984) - che contestano complessivamente la moralità come forma culturale che, attraverso le nozioni di obbligatorietà e dovere, cerca di assicurare l'egemonia e il dominio maschile nella società; dall'altra vi sono pensatrici - come, per es., C. Gilligan (1982) - che non rifiutano in blocco la possibilità di una moralità, ma ritengono che questa non possa non tener conto della diversità di genere sessuale (v. genere, in questa Appendice), e che dunque un'e. femminile debba distinguersi marcatamente dall'e. maschile fino al punto di non confondersi con essa: in particolare debbono essere contestati l'astrattezza dei valori maschili, il loro preteso universalismo e la loro attenzione esclusiva per le esigenze pubbliche della giustizia. Secondo altre pensatrici, come E.H. Wolgast (1987), V. Held (1993) e A.C. Baier (1994), la riflessione femminile può avere invece una funzione più universalistica, nel senso di aiutare a correggere alcune limitazioni della tavola dei valori affermata dalle e. maschili tradizionali, integrandole con valori - quali quelli della cura o della fiducia - che le donne ritrovano come più ampiamente presenti nelle loro esperienze di vita.

Le indicazioni del pensiero delle donne, come del resto le altre linee della riflessione più recente sulla moralità, hanno portato al centro dell'indagine una ricerca sulla natura stessa del lavoro teorico in etica. Si tratta di un'indagine che è stata inaugurata con notevole profondità da Williams (1985), che ha ripercorso criticamente i limiti dell'approccio filosofico all'e. dall'antichità greca fino alla contemporaneità, denunciando il fallimento delle grandi teorizzazioni sistematiche, incapaci di rendere conto pienamente del ruolo delle emozioni e delle esperienze reali nella vita morale. Ma vi sono state posizioni che hanno sviluppato in modo diverso questa riflessione critica sulla natura della stessa teoria etica: da una parte, un vero e proprio movimento antiteorico che ha denunciato la natura sostanzialmente conservatrice di tutti i tentativi di costruire sistemi normativi, tentativi che non possono che ipostatizzare i valori accettati in una certa epoca e società; dall'altra, una linea di pensiero con obiettivi più delimitati, che si è impegnata in una revisione dei problemi da porre al centro della riflessione teorica e che molto spesso si è collegata a quella spinta al rinnovamento proveniente dall'interno delle varie aree dell'e. applicata. Sembra comunque possibile riconoscere che, una volta pienamente sviluppatosi il processo di distacco della moralità dalla religione, la riflessione sull'e. si presenta come uno dei nuclei principali dell'approfondimento razionale e dell'elaborazione critica tradizionalmente di pertinenza della filosofia.

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