EUGENIO da Palermo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 43 (1993)

EUGENIO da Palermo

Vera Falkenhausen

Nacque intorno al 1130 a Palermo da una famiglia di alti funzionari greci al servizio dei re normanni.

Il capostipite, l'omonimo nonno di E., originario di Troina nella Sicilia nordorientale, era stato notaio di Ruggero I (1092) e fu poi elevato al rango di emiro. Con il titolo di emiro o ammiraglio (ἀμηρᾱς admiratus) furono designati i supremi funzionari dell'amministrazione centrale normanna a Palermo, senza che ad esso corrispondessero funzioni ben definite. Il padre di E., l'emiro e grande eteriarca (ἑταιρειάρχης) Giovanni, che servì Ruggero II come funzionario civile e fu comandante delle truppe regie in Campania nella guerra contro Roberto di Capua, è attestato tra gli anni 1117 e 1145. Anche Filippo e Nicola, fratelli di Giovanni, erano al servizio di Ruggero II in qualità rispettivamente di logoteta e di emiro. Infine, E. è chiamato anche nipote dell'emiro Basilio, attestato nel 1140.

I beni della famiglia si trovavano presso Troina, ove il feudo detto "Ammiraglia" è attestato ancora nel tardo Medioevo, e al centro di Palermo (case e giardini intorno alla chiesa di S. Salvatore de Admirato Eugenio), ove la famiglia si era affermata professionalmente nella prima metà del XII secolo. Nel 1194, quando aveva raggiunto l'apice della sua carriera, E. prese in affitto anche una grande casa a Termini Imerese per il censo notevole di una oncia d'oro all'anno.

Nulla si sa dell'educazione e degli inizi della carriera professionale di Eugenio. Lo troviamo per la prima volta nel settembre del 1174 a Salerno in qualità di "magister duane baronum", una funzione nella quale è attestato fino all'ottobre 1189. Con "duana baronum" s'intendeva allora quel reparto dell'amministrazione finanziaria centrale che, con sede a Salerno, si occupava delle terre demaniali e feudali del regno normanno, ad esclusione della Sicilia e della Calabria, e che in genere veniva amministrato collegialmente da due magistri. In una sentenza che emise nel giugno del 1178 in un processo tra Ravello ed Amalfi E. è chiamato "magister regie Dohane baronum et de secretis", ma si tratta di un caso isolato. In ogni caso, non si deve confondere E. con il suo omonimo contemporaneo Eugenio τοῦ Καλοῦ, "magister duane de secretis" sotto Guglielmo II, anch'egli di Palermo.

Alla morte di Guglielmo II (1189) E. si schierò con la fazione che favoriva la candidatura al trono di Sicilia di Tancredi, conte di Lecce, il quale venne incoronato nel gennaio del iigo. Infatti, prima dell'agosto dello stesso anno, E. già ricevette il titolo di emiro o ammiraglio, riservato ai più importanti familiari del re, con il quale è attestato fino a maggio del 1194. Dopo la presa del potere in Sicilia da parte dell'imperatore germanico Enrico VI e la scoperta di una presunta congiura antisveva a Palermo negli ultimi giorni del 1194, E. fu spedito prigioniero alla fortezza di Trifels in Germania insieme con i membri superstiti della famiglia reale normanna e con alcuni baroni e funzionari fedeli a Tancredi e ai suoi eredi. A quel periodo risale probabilmente la poesia Dal carcere, nella quale E. medita sulla ruota della fortuna che continuamente capovolge le posizioni degli uomini. Tuttavia, contrariamente a quanto avvenne a molti suoi compagni di sfortuna, destinati a morire nella prigione nordica, E. fu ben presto liberato. Ovviamente, il governo svevo aveva bisogno dell'esperienza e della competenza dei vecchi quadri dell'amministrazione normanna e perciò era disposto a riassumere almeno alcuni di loro. Infatti, già nel luglio del 1196, E. "f. Johannis ammiratì" - senza indicazione di una funzione o carica ben definita - si trova in Puglia in qualità di familiaris e consigliere di Corrado, vescovo di Hildesheim, cancelliere di Enrico VI per l'Italia e la Sicilia. Residente a Bari, tra l'agosto del 1196 e il maggio 1197 decise due cause relative a proprietà terriere a Gioia del Colle ed a Bari. In seguito lo troviamo come "magister camerarius Apuliae et Terre Laboris" attivo in Campania (tra il 17 maggio e il luglio del 1198 per un'attribuzione di terreni presso Aversa al monastero di Fossanova) e in Puglia (nell'agosto del 1201per l'attribuzione di un forno a Barletta al monastero di S. Leonardo di Siponto). Nell'aprile del 1201 Giovanni "filius Eugenii ammirati", sicuramente il figlio di E., vendette un orto a Palermo per 600 tari. Nell'aprile del 1202 papa Innocenzo III, in quanto tutore di Federico II, trasformò l'ufficio del "magister camerarius Apuliae et Terrae Laboris" da individuale in collegiale, associando all'esperto E. due altri "magistri camerarii". Dopo il settembre del 1202 E. non appare più nelle fonti.

A prescindere dalla sua carriera amministrativa, E. era noto come studioso (ϕιλόσοϕος), traduttore e poeta, che frequentava i migliori ambienti culturali del regno normanno. Grazie alle sue insolite conoscenze linguistiche (greco, arabo, latino) egli coglieva pienamente il significato delle tre culture principali del mondo mediterraneo medioevale. L'anonimo traduttore latino dell'Almagesto (che tra il 1158 e il 1162 dalla scuola di Salerno si trasferì in Sicilia per studiare il codice greco dell'opera di Claudio Tolomeo, poco tempo prima portato da Bisanzio da Enrico Aristippo) nella persona di E., che chiama "virum tam grece quam arabice lingue peritissimum, latine quoque non ignaruni", trovò "expositorem propicium", per quanto riguarda la comprensione sia dei concetti matematici sia delle difficoltà della lingua greca. Ma, contrariamente a quanto spesso si legge, non è stato E. a tradurre l'Almagesto. Il notaio greco Ruggero d'Otranto dedicò all'ἄρχων E. una poesia in stile ampolloso, ove lo chiama "famoso discendente di Clio e lungirilucente dimora di Calliope". Anche l'ultimo protettore di E., Corrado di Hildesheim, era tra le persone più colte dell'entourage di Enrico VI. È interessante notare che, a giudicare dalla documentazione rimastaci, durante la sua lunga carriera E. aveva prestato servizio prevalentemente in Puglia e in Campania, e cioè in quelle regioni del Regno che erano di lingua latina. Tutti gli atti amministrativi e le sentenze da lui elaborati sono scritti in latino: la sua firma, invece, è sempre in greco.

E. è autore di ventiquattro poesie greche in dodecasillabi bizantini conservate in un unico codice (Laur. Gr., plut. V, 10, cc. 149-152), scritto nel XIV secolo in Terra d'Otranto, di cui il cod. 2 Qq G 40 della Biblioteca comunale di Palermo è una copia ottocentesca. Quasi metà delle poesie è di carattere parenetico e dedicata a vizi (cupidità, voracità, loquacità, invidia, malignità, calunnia, ira) e virtù (verginità, carità, pudicizia); altre riguardano temi religiosi. Indice degli interessi naturalistici di E. è la bella e precisa descrizione del fiore della Ninfea stellata osservata in qualche giardino palermitano, mentre i versi Sul regno riflettono le sue letture nel campo delle teorie politiche (Platone, Dione Crisostomo); con il Vituperio della mosca risponde all'Elogio della mosca di Luciano. Soltanto pochi carmi trattano di fatti personali: tre poesie sono indirizzate in forma epistolare al sacerdote brindisino Calo, a richiesta del quale E. aveva elaborato una redazione versificata della Passio di s. Agata, che non è conservata. Nei versi sul cimitero dei monaci della Mandra E. rivela i suoi rapporti con l'archimandritato del S. Salvatore di Messina, il monastero greco più importante della Sicilia, e con l'archimandrita Onofrio (1168-1183). Nella lunga poesia scritta dalla prigione sviluppa a lungo il tema della ruota della fortuna. I versi panegirici dedicati al re trionfatore Guglielmo (probabilmente Guglielmo I) mettono in risalto le virtù militari del re normanno, cui devono cedere i cesari di Roma e Costantinopoli. Si tratta nell'insieme di una produzione poetica dignitosa, benché non particolarmente originale, ispirata ampiamente dai carmi di Gregorio di Nazianzo, che riflette nel suo stile retorico-moralizzante forma e contenuti della contemporanea poesia bizantina. Le opere poetiche di E. sono state edite da L. Sternbach, E. von P., in Byz. Zeitschrift, XI (1902), pp. 406-451; K. Horna, Metrische und textkritische Bemerkungen zu den Gedichten des Eugenios von P., ibid., XIV (1905), pp. 468-478; Id., Neue Beiträge zu den Gedichten des Eugenios von P., ibid., XVI (1907) pp. 454-459; G. N. Sola, Ancora di E. di P., ibid., XVII (1908), pp. 430 s.; Eugenii Panormitani Versus iambici, a cura di M. Gigante, Palermo 1964 (rec. di P. Speck, in Byz. Zeitschrift, LVIII [1965], pp. 80-97); R. Cantarella, Poetibizantini, a cura di F. Conca, II, Milano 1992, pp. 886-893.

L'ottica di Claudio Tolomeo è stata tradotta dall'arabo in latino "ab amirato Eugenio Siculo", da identificarsi sicuramente con Eugenio da Palermo. La traduzione araba di questo trattato, che - come del resto lo stesso originale greco - non è conservata, risale probabilmente al IX secolo; ma dopo la pubblicazione degli studi sull'ottica del grande matematico e fisico Alhazen (Ibn al-Haitham, morto intorno al 1039) il testo di Tolomeo fu quasi dimenticato. Nell'introduzione E. fa presente le difficoltà che deve affrontare chi traduce dall'arabo in greco o latino, a causa della grande diversità di queste lingue nel lessico e nella sintassi. Inoltre precisa di aver elaborato la sua traduzione su due manoscritti arabi, il più recente dei quali sarebbe stato il migliore; purtroppo, ambedue i manoscritti sarebbero stati mancanti del primo libro. La traduzione di E., tramandata in dodici manoscritti, ebbe una certa diffusione in Occidente nel tardo Medioevo e fu edita da G. Govi, L'ottica di Cl. Tolomeo da Eugenio ridotta in latino sovra la traduzione araba di un testo greco imperfetto..., Torino 1885; A. Lejeune, L'optique de Claude Ptolémée dans la version latine d'après l'arabe de l'émir Eugène de Sicile, Louvain 1956.

Kalîla Wa-Dimna, una collezione di fiabe persiane intesa come specchio dei principi, fu tradotta dall'arabo in greco con il titolo Stephanites kai Ichnelates. Il testo ebbe una notevole diffusione nel Medioevo bizantino e postbizantino. Nella maggior parte dei codici la traduzione greca viene attribuita a Simeone Seth di Antiochia, che l'avrebbe elaborata per ordine dell'imperatore Alessio I Conineno (1081-1118). In alcune redazioni, invece, il testo è introdotto da un epigramma abbastanza rozzo e non privo di corruttele che attribuisce la traduzione dall'arabo in greco al "sapiente, famoso e grande emiro del re di Sicilia, Calabria e principe d'Italia" e che indica in E. il redattore di questo libro pieno di insegnamenti. Nella prefazione che segue il curatore della versione greca informa di essersi servito per la traduzione di persone con buone conoscenze della lingua araba. Anche se le varianti testuali delle diverse redazioni non sono tali da far presumere due traduttori diversi, è probabile che E. abbia aggiunto all'originaria traduzione greca di Simeone Seth tre prolegomeni. Benché elaborata in Sicilia, la redazione curata da E. non si trova soltanto in codici italo-greci, ma era diffusa anche in Oriente (venne edita da V. Puntoni, Στεϕανὶτης καὶ ᾿Ιχνηλάτης, Firenze 1889).

Nell'introduzione del cosiddetto Vaticinium Sibyllae Erithreae si dice che questi oracoli sarebbero stati estratti da un libro detto Basilographia, tradotto dalla lingua caldea in greco da Doxapatre (forse Nilo Doxapatre), e poi, una volta che il codice era stato traslato dal tesoro dell'imperatore Manuele (Manuele I Comneno, 1143-1180), E. emiro del re di Sicilia l'avrebbe tradotto in latino. Sebbene questo testo di profezie medioevali sia conservato soltanto in una redazione latina con aggiunte pseudogioachimite, elaborata probabilmente pochi anni prima della morte di Federico II, è probabile che E. abbia effettivamente tradotto qualche testo di profezie bizantine, che, infatti, spesso vengono chiamate Basilographia. Inoltre è ben nota la passione che Manuele I nutrì per il genere profetico ed astrologico. Data la normale fluidità testuale di questo genere letterario, non desta stupore se la traduzione del vaticinium della Sibilla Eritrea sia stata rielaborata e continuata in epoca sveva (essa è stata edita da: O. Holder Egger, Italienische Propheteien des 13. Jakhunderts..., in Neues Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde, XV [1890], pp. 155-173).

Infine, Evelyn Jamison ha avanzato l'ipotesi che E. fosse l'autore anche del Liber de Regno Sicilie attribuito ad Ugo Falcando e della Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie thesaurarium, ma i suoi argomenti non sono stringenti e in genere non sono stati accolti dagli studiosi.

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