FERRAI, Eugenio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 46 (1996)

FERRAI, Eugenio

Piero Treves

Nacque ad Arezzo il 22 febbr. 1832 da Pompeo e da Giulia Rosellini.

In questa famiglia di modesti possidenti la madre portò l'abito e la luce del suo domestico "umanesimo": era la figlia di Massimina Fantastici (di cui nel 1859 il nipote dettò un "classicistic " elogio ftmebre stampato a Firenze) e aveva per ava la celebre poetessa e improvvisatrice Fortunata Sulgher Fantastici. Famiglia moderata, forse lorenese, certo cattolica ma non bigotta, a giudicare dal neoguelfismo e risorgimentismo del F., dal suo severo equilibrio dinnanzi a problemi culturalmente e religiosamente gravissimi, ad esempio il valore degli studi "classici" o "pagani" e il giudizio sul Rinascimento.

È naturale e normale che il F. apprendesse i primi elementi scolastici nel collegio ecclesiastico di Montepulciano dal 1841 in avanti. Brillantissima carriera ginnasiale, intenso studio della lingua italiana e dei classici: dond'ebbe aperta la via all'università di Pisa e al posto (1850) di alunno convittore presso la Scuola normale. Vi strinse amicizie, massime con G. Rigutini, ma ne conservò triste memoria. In un discorso del 1881 rievocò i compagni, primi Rigutini e il più giovane G. Carducci, ma non esitò ad asserire della scuola: "Non aveva lasciato nell'animo mio che tristi o burlevoli ricordi". Si considerava probabilmente, e in verità con ragione, un autodidatta, fattosi quasi da solo negli anni fiorentini.

Dottore il 9 luglio 1853, ebbe tosto l'incarico d'insegnamento del latino e del greco nel liceo di Firenze (che la rivoluzione del '59 dedicò al nome di Dante). Anni oscuri, che retrospettivamente hanno del miracoloso. Gli anni degli "Amici pedanti", ai quali il F. non si accodò né accordò, siccome quelli peccavano di esterofobia reazionaria, e propugnavano un primato della Toscanina classicistica alla Niccolini, quando guardavano all'Europa anche i migliori fra i giovani (come F. Martini e A. D'Ancona, successivamente G. Nencioni). Ebbe qualche rapporto occasionale con N. Tommaseo e con G. B. Niccolini, che nel 1856 lo presentò a R. Bonghi. Ma invano si ricerca il suo nome negli epistolari del Tommaseo, appunto, e del Niccolini e del Capponi. Visse, dunque, solitario ed ignoto, lavorando sodo sui greci (fu, invero, totus Graecus come il migliore dei suoi allievi patavini, Giuseppe Fraccaroli) in età di panlatinismo imperante; e, cosa ancor più significativa e più rara, conquistò una conoscenza eccellente del tedesco e del francese (in minore misura, ma adeguatamente, anche poi dell'inglese).

Avuta bambino la rivelazione della grecità nel Voyage du jeune Anacharsis dell'abbé J.-J. Barthélemy, si diede tutto alla critica lettura della grammatica greca di J.-L. Burnouf (tradotta e stampata a Firenze sin dal 1845) e passò quindi alla Grammatica elementare e pratica della lingua greca del tedesco (francesizzatosi per la diuturna collaborazione alla Didotiana) F. Duebner, che tradusse e pubblicò a Firenze nel 1857 per i tipi del Paggi, cui l'anno di poi fece seguire, lavorato sulle grammatiche, appunto, del Burnouf e dei Duebner, un volume di Temi greci. Mentre si faceva la mano con i lavori scolastici, mirava più alto e preparava di meglio.

Grazie all'amicizia e collaborazione del moravo Giuseppe Müller, quindi professore di greco all'università di Torino e primo fondatore-direttore (1872) della Rivistadi filologia, intraprese dall'originale tedesco (di sulla seconda edizione postuma di Breslavia 1857), e non, come il vercellese Domenico Capellina, di sulla versione inglese, il volgarizzamento (Firenze 1858-59) della Storia della letteratura greca di K. O. Müller, cui prepose un ampio, informatissimo ed ammirabile proemio: la storia della filologia classica dalle sue origini nella Firenze tre-quattrocentesca fino al quasi coevo romanticismo tedesco, ch'ebbe nel Müller, prediletto allievo di A, Böckh, il suo rappresentante più completo (a giudizio di U. Wilamowitz Moellendorff, la Letteratura greca di K. O. Müller è l'unico libro del genere che meriti nome di storia). Come il suo autore, il F. si professava fedele alla cosiddetta "scuola storica" della filologia, in antitesi alla scuola "formale" di G. Hermann e di K. Lachmann; e asseriva la necessità per l'Italia non pure d'un ritorno ai classici, ma, per la mediazione dei classici e dello studio "storico" dell'antico, d'un suo ritorno all'Europa, d'una riconquista (quale poco di poi avrebbe propugnato la celebre prolusione napoletana di Bertrando Spaventa) d'un patrimonio culturale e ideale ch'era, od era stato, suo, ed era andato smarrito o perduto con la perdita della libertà.

Rimasero senza domani (benché G. Müller provvedesse altresì al volgarizzamento della Storia greca di E. Curtius) l'esempio di versioni d'opere filologico-storiografiche forestiere (anche J. G. Droysen e G. Grote furono letti in francese) e la pratica della storia della filologia (nel convincimento che filologia classica e storia della filologia classica siano un tutt'uno, nella misura in cui il filologo abbia mente storica e rifletta, pertanto, od interpreti il sentire, il metodo e la problematica del tempo suo). Al F. l'arduo lavoro fruttò, almeno, una cattedra universitaria: straordinario nel 1859 per merito del governo provvisorio toscano e ordinario dal 1860, per nomina regia, presso l'università di Siena. Donde, alla liberazione del Veneto, fu trasferito alla cattedra di lettere greche nell'università di Padova, e qui lesse il 12 marzo 1867 la memorabile prolusione Degl'intendimenti e del metodo della filologia classica (Padova 1867).

Gli anni di Siena furono, per l'orientamento e il lavoro del F., decisivi. Mentre collaborava efficacemente alle polizianesche dell'amico e collega I. Del Lungo (e ne serba vivo e grato ricordo l'Epistolario Carducci e I. Del Lungo..., a cura di A. Del Lungo, Firenze 1939, pp. 197 ss.), combinò con l'Alberghetti di Prato una "Raccolta. d'autori greci con commenti italiani per uso delle scuole"; se ne assunse la direzione e, mentre si avvaleva della collaborazione di L. Fornaciari per un Demostene (Prato 1866) e di Achille Coen per le Nubi di Aristofane, provvide in proprio al Filottete (1864), unica tragedia del divisato intero corpus sofocleo, e, in due volumi (Prato 1865-69), ai Memorabili di Senofonte.

Quest'edizione, che nacque come premessa e parergon al volgarizzamento platonico, rivela già il F. pienamente maturo e al suo meglio. Preoccupato, cioè, d'intendere, e di far intendere, storicamente il magisterio, e il processo, di Socrate, la "giustizia" della condanna, in quanto Socrate minacciava o frantumava l'indistinzione di Chiesa e Stato in cui consiste la polis (solo dalla generazione "bismarckiana" interpretata, magari in termini mommseniani o postmommseniani, quale mera statalità). Un commento, dunque, costruito sugli apporti, individualmente ripensati, della storiografia romantica tedesca, e, se mai, solo carente in qualche parte dell'esegesi filologica (per esempio, l'identificazione di Anito accusatore e del Kategoros cui Senofonte risponde sul principio del trattatello, ed è, invece, Policrate).

Apprestato per le stampe il primo volume del commentario, il F. visse nel 1866 il suo annus mirabilis. Perché, segretario del ministro di Pubblica Istruzione Domenico Berti nel 1865, n'ebbe l'incarico d'una missione per lo studio comparativo dell'organizzazione e delle istituzioni scolastiche in Germania, Inghilterra e Olanda. Ebbe l'agio così di farsi discepolo di F. W. Ritschl a Lipsia e di frequentare a Londra il Grote, già passato dalla storia greca ai volumi su Platone e su Aristotele. All'opera e alla memoria del Ritschl fu devotissimo sempre, quanto più infieriva contro di lui, sospitator Plauti, la canea dei nazionalisti acritici, capeggiata da T. Vallauri; mentre al Grote l'avvicinava il proposito d'uno studio "storico" di Platone, che frangesse lo schema delle tetralogie di Transillo, immaginata ricostruzione cronologicamente fedele dello sviluppo dei pensiero platonico, e questo ricostruisse appunto nel suo storico divenire, sottraendolo alla schematicità del "sistema".

Non fu, peraltro, il F. né un patito né un succube, né tanto meno un epigono, del "metodo" tedesco, e la Germania ch'egli riverì era, e fu sempre, la Germania preimperiale, prebismarckiana, prefilologica, la quale prevalse dopo il 1870, la Germania dei giovani baldi e biondi vincitori a Sadowa e a Sedan, capaci, com'egli disse nella prelezione padovana, di "condurre ... in sette giorni una guerra e ... liberare un popolo oppresso con una vittoria". Perciò appunto la prelezione concludeva con l'austero ammonimento: "L'Italia è libera dalle Alpi al mare; ma del suo risorgimento le addimandano giustificazione l'Europa e la civiltà".

Gli anni di Padova (dove rimase operoso, pur frammezzo a sofferenze fisiche gravi e a lancinanti dolori domestici, sino alla morte) non furono, percio, esenti da delusioni amarissime. Al Veneto "bianco" poco garbava un toscano cruschevole, che si compiaceva di parlare e di scrivere con arcaica eleganza e di tradurre Platone con grande copia di riboboli cinquecenteschi, mentre ai colleghi, e in genere agli eruditi, dovette spiacere ch'era poco "filologo" e mostrava scarso apprezzamento della Germania, filologica e non, ch'essi sola conoscevano. In ambiente positivistico, o prepositivistico (ma il F., cordialmente amico di Fr. Bonatelli, tace di R. Ardigò) poco anche poteva attrarre un lavoro così duro e così ostico quale il volgarizzamento platonico, divisato in otto volumi, quattro dei quali soltanto videro la luce in Padova fra il 1873 e il 1883 (mentre nessuno si dié cura di riesumare e di sceverare il molto d'inedito e di non finito che il F. lasciò alla sua morte).

Il suo proposito non fu, propriamente, né filosofico né classicistico-pubblicistico, siccome fu, rispettivamente, di Fr. Acri e del Bonghi (al quale il F. non risparmiò, con rammarico, "parole dure", ma essenzialmente parole di ritorsione, rimproverandogli, soprattutto, la farragine del lavoro e lo stile troppo basso, talvolta perfino volgare: Per l'inaugurazione della sala di magistero..., Padova 1881, p. 15). Fu, invero, un proposito fra etico-patriottico e storico. "Quando (scrisse, con verità e pietas e onesto sentire di sé, a suggello del preambolo al primo volume)..., per lo scarso numero de' cultori della filologia classica in Italia, ebbi la gran ventura d'esser chiamato all'insegnamento superiore, parvemi mi facesse comandamento la Patria, la quale m'offeriva questo tranquillo vivere negli studi, di dar opera all'alta impresa vagheggiata già negli anni giovanili ... Deliberai, fosse pel pubblico italiano la mia lunga fatica, non senza nutrire nel fondo del cuore una secreta speranza, che, come già due volte il pensiero platonico instaurò l'italica civiltà, così non sia oggi per rimanere infecondo d'effetti all'Italia ne' suoi nuovi destini".

Qui, disgraziatamente, s'ingannava. Troppo meno stilista dell'Acri e troppo meno pubblicista, noto ed autorevole di Ruggiero Bonghi, troppo "storico", d'altronde, per gradire a filosofi e filologi, vide l'opera sua stroncata da un ex allievo di Padova, "Gaetano Oliva, mio successore nel Liceo di Firenze, alla cui dottrina, ch'è soda, condono, se, forse a gratificarsi un potente che certo ne lo rimeritò, prese a demolire la lunga fatica d'uomo a cui aveva dato mano d'amico" (ibid., p. 13), soprattutto perché era un'opera contro corrente. E forse mal concepita quale volgarizzamento, laddove sarebbe stato meno arduo al F. e ben più vantaggioso agli studi se alla traduzione, pur copiosamente annotata e proemiata, il F. avesse sostituito un commento, quali venivano apprestando dotti di Gran Bretagna, massime Lewis Campbell (né delle sue ricerche stilistico-stilometriche par essersi avveduto il F.), limitandosi, invece, in questo campo ad una serie di agili commenti per la Loescher (che gli furono poi riveduti e ripubblicati dal Fraccaroli).

Forse di mala voglia, perché consapevole del proprio valore e consapevole, soprattutto, del minore merito e valore della "gente nova", ma consolato dal successo accademico-letterario del traduttore di Pindaro, venne più e più riducendosi, o costringendosi, al silenzio, come fu di altri suoi valorosi coetanei, colleghi e maestri (I). Comparetti, per esempio, e il Coen), mentre è significativo che, nonostante brutti momenti di rancore o malumore universitario, guardasse a lui come a maestro (e a dedicatario, pertanto, nel 1872, della monografia su F. Diez), il "conlega minor" U. A. Canello (che pur non si peritò di chiamarlo "mediocre" in una lettera a P. Rajna del 27 maggio 1877), alla cui spoglia il F. diede "l'ultimo saluto durante il rito funebre nel cortile del Bo" (Limentani, p. 80).

Il F. morì a Padova il 17 luglio 1897.

Se di suo non resta un libro, se non può dirsi abbia creato una scuola, rimane, però, a suo elogio ed onore ch'egli ebbe, primo e forse solo nell'Italia di allora, l'idea "storica" della filologia e, frammezzo alle incomprensioni degli uni e al servilismo degli altri, additò alla filologia classica italiana la via che la sua storia le insegnava e che essa doveva percorrere, per emergere dall'obbedienza provinciale alla feconda e paritetica collaborazione europea.

Fonti e Bibl.: Un elenco sufficientemente completo degli scritti del F. presso G. A. Piovano, Gli studi di greco, Roma 1924, pp. 60 s. Necrologi e commemorazioni: F. Ramorino, in Atene e Roma, I (1898), p. 111; E. Teza, in Atti dell'Ist. veneto, s.7, VIII (1896-97), pp. 961 s.; G. Fraccaroli, in Rivista di filologia, XXV (1897), pp. 635 ss.; in Annuario dell'Università degli studi di Padova, 1897-98, Padova 1899, pp. 275 ss.; G. Setti, in Atti dell'Ist. veneto, s. 8, II (1899-1900), pp. 181 ss. Un affettuoso e significativo giudizio formulò L. Fornaciari, Fra il nuovo e l'antico, Milano 1909, p. 72 n. 1 ("fino dal 1858 diede opera efficace a rialzare gli studi del greco in Italia, e, sull'esempio de' Tedeschi, avviarli per una via più scientifica"). Riflette, o riccheggia, i malumori veneto-accademici G. Brognoligo, in Critica, XIX (1921), pp. 166-169, mentre un tentativo d'interpretazione "storica" del F. offre P. Treves, Lostudio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962, pp. 953 ss. (qui, pp. 964 s., ulteriore bibliografia). E si vedano le osservazioni critiche di S. Timpanaro, in Rivista di filologia, C (1972), pp. 398 s. n. 2. Singolarmente importante, sul F. e la collezione dei classici greci Alberghetti (Prato), la rec. di F. Duebner, in Rev. critique, I (1866), pp. 397 s.; mentre, sul F. e la facoltà padovana, si veda A. Limentani, in U. A. Canello e gli inizi della filologia romanza in Italia, a cura di A. Daniele - L. Renzi, Firenze 1987, pp. 79 s. (a p. 174 l'ingiusto giudizio del Canello sul F. citato più sopra). Si veda inoltre M. Gigante, E. F. Un normalista nella storia degli studi classici dell'Ottocento, in Ann. d. Scuola Normale sup. di Pisa. cl. di lettere e filos., s. 3, XXI (1992), 2, pp. 623-664.

CATEGORIE