EUROPA

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1948)

EUROPA (XIV, p. 581; App. I, p. 566)

Roberto ALMAGIA
Federico CHABOD

La seconda Guerra mondiale ha determinato vasti e profondi rivolgimenti politici, demografici ed economici in Europa, e la nuova fisionomia del continente è ben lungi dall'essere fissata. Anche limitandosi per ora alla sola carta politica dell'Europa, si deve avvertire che essa è tutt'altro che definitiva, perché le frontiere di taluni stati non sono peranco fissate da accordi internazionali ufficialmente riconosciuti. Tre stati sono scomparsi, i cosiddetti stati Baltici - Estonia, Lettonia e Lituania - entrati a far parte della Unione Sovietica, ed è scomparsa come entità politica la Città libera di Danzica; due stati si sono nuovamente ricostituiti: l'Austria e la Cecoslovacchia; un terzo, il Territorio libero di Trieste, sembra destinato a vita effimera. Ma di tutti i rimanenti stati, soltanto otto, a prescindere dalla parte europea della Turchia, non hanno subìto e probabilmente non subiranno mutamenti territoriali, e cioè: la Norvegia, la Svezia, la Spagna, il Portogallo, l'Olanda, il Lussemburgo, l'Irlanda e la Svizzera (inoltre i cinque stati piccolissimi: Monaco, S. Marino, Liechtenstein, Andorra e la Città del Vaticano). Gli stati europei sono oggi trenta, esclusi il Territorio di Trieste, la Turchia Europea e l'Islanda, la quale ultima ormai difficilmente può considerarsi come una pertinenza dell'Europa.

Popolazione (XIV, p. 604; App. I, p. 566). - La tabella che segue ha soltanto valore provvisorio e si basa sulla situazione di fatto alla fine del 1947.

Per quanto riguarda le cifre dell'area indicata nella seconda colonna, è da avvertire che, per tutti gli stati, quelle cifre comprendono anche le acque interne; e che come parte europea dell'Unione Sovietica si è calcolata quella limitata dal Caucaso, dal fiume Ural e dalla cresta degli Urali. L'area dell'Europa risulta così all'incirca di 10.000.000 kmq. in cifra tonda.

Il calcolo della popolazione è molto approssimato, perché - a parte l'incertezza delle frontiere - pochissimi stati hanno eseguito censimenti nel 1940-41, periodo nel quale normalmente, alla fine del decennio o all'inizio del successivo, tutti o quasi gli stati europei effettuavano tale operazione, e tra i pochissimi che l'hanno eseguita (Norvegia, Spagna, Svezia, Svizzera) non vi è nessuno dei maggiori. Nel 1946-47 hanno eseguito censimenti la Bulgaria, la Francia, l'Irlanda il Portogallo. Per alcuni stati che hanno eseguito gli ultimi censimenti nel 1930 o 1931, e hanno da allora subìto mutamenti territoriali notevoli, non si possono fare che valutazioni approssimate; mancano poi spesso i dati dei prigionieri non rimpatriati, che in alcuni casi rappresentano cifre non trascurabili.

Si dovrebbe inoltre tener conto degli spostamenti, volontarî o più spesso coatti, di popolazioni, prima, durante e dopo la seconda Guerra mondiale. Non esistono praticamente più Tedeschi nei confini della Polonia e della Cecoslovacchia, come non esistono quasi più Polacchi nei territorî orientali dell'antica Polonia, passati alla Unione Sovietica; il richiamo dei Polacchi entro le frontiere attuali della Polonia, terminato al principio del 1948, fa supporre che la cifra di 24 milioni di abitanti per questo stato sia un po' troppo bassa, come è forse troppo bassa la cifra di 66 milioni di abitanti per la Germania, risultante da una rilevazione fatta alla fine dell'ottobre 1946. Ma tali spostamenti non influiscono sensibilmente sul totale della popolazione europea che, al principio del 1947, poteva calcolarsi in 530 milioni, cifra che può essere naturalmente errata, e può considerarsi piuttosto troppo bassa che troppo alta. All'inizio della seconda Guerra mondiale la popolazione europea si calcolava in 540 milioni di abitanti: si avrebbe dunque una perdita assoluta di 10 milioni d'individui. Se si tiene conto, oltre che delle perdite di guerra vere e proprie (militari e civili morti per operazioni di guerra, per bombardamenti, o per massacri, ecc.) anche dell'aumento di mortalità nella popolazione civile per cause non direttamente connesse con la guerra, non è esagerato calcolare che la perdita globale di popolazione per l'Europa non è inferiore a quella subìta in seguito al precedente conflitto (35 milioni d'individui).

A compensare tali ingenti perdite si delinea, in quasi tutti i paesi per i quali si hanno statistiche, un considerevole aumento della natalità, rivelato dalle statistiche per il 1946; la mortalità è in genere diminuita, sia pure lievemente, cosicché l'eccesso dei nati sui morti supera notevolmente di regola quello constatato per il 1938, ultimo anno normale prebellico. Nella seguente tabella si espongono, per alcuni stati più importanti i dati demografici del 1946 confrontati con quelli del 1938.

L'aumento delle eccedenze dei nati sui morti è fortissimo per la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, i Paesi Scandinavi, la Cecoslovacchia, la Spagna, ecc.; solo in qualche stato, come la Romania e l'Ungheria si ha invece, in confronto al 1938, una diminuzione. Per l'Italia il lieve aumento si deve alla riduzione della mortalità.

Secondo i calcoli dell'Hollstein (1937), la capacità di popolamento dell'Intera Europa sarebbe di 778 milioni di abitanti, con un margine di appena 250 milioni sulla popolazione attuale; ma se si toglie l'URSS (parte europea), la capacità si riduce a 420 milioni in confronto a 380 milioni di popolazione effettiva. L'Europa centro-occidentale è dunque prossima alla saturazione, anzi la saturazione è certamente già raggiunta in alcuni territorî. Questi calcoli hanno, è vero, un valore essenzialmente teorico e debbono essere accolti con le debite cautele; ma non vi è dubbio che la pressione demografica, che tende ad intensificarsi, non potrà non produrre nuove correnti migratorie verso paesi soprattutto transoceanici che hanno maggiori disponibilità di spazio e di mezzi. Tra i paesi per i quali si ripresenta la necessità di emigrazione è in prima linea l'Italia.

Condizioni economiche (XIV, p. 607). - Sulla situazione economica dell'Europa nel periodo immediatamente precedente la seconda Guerra mondiale, abbiamo una serie di dati interessanti, elaborati dall'Istituto internazionale d'agricoltura (sulla base delle medie del quinquennio 1934-38). Ma l'utilizzazione di tali dati è resa difficile dal fatto che nelle statistiche dell'Istituto l'Unione Sovietica è considerata nel complesso dei suoi territorî europei ed asiatici.

Per quanto riguarda i prodotti alimentari vegetali, l'Europa nel suo insieme dava forse un quarto del grano di tutto il mondo, ma il consumo era assai superiore alla produzione, cosicché, l'importazione netta (importazione meno esportazione), si aggirava sugli 85 milioni di quintali annui. Degli altri cereali, la segala, cereale quasi esclusivamente europeo, era ed è consumata nel continente stesso, dando luogo solo a scambî intereuropei; l'orzo, prodotto in misura inferiore a due quinti del totale mondiale, neppur esso copriva interamente il consumo globale europeo. Anche di mais (circa un quinto del prodotto mondiale), e di riso (meno di 1/100 della produzione mondiale), l'Europa era fortemente deficitaria.

Di patate l'Europa produceva forse 1.700-1.800 milioni di q. annui, cioè più del 75% del totale mondiale e il quantitativo era, nel complesso, sufficiente a coprire tutto il consumo. L'ingente produzione di legumi ed ortaggi, che concorrono ad integrare le piante alimentari, e quella delle frutta, non si può stimare sulla base di dati statistici sicuri, per l'Europa presa nel suo insieme.

Nel settore dei prodotti oleiferi, l'Europa forniva l'85% dell'olio di oliva ed era esportatrice, ma la quantità esportata si veniva riducendo sempre più (meno del 2% della produzione totale nella media del quinquennio su indicato); forniva circa il 50% dell'olio di lino, del quale era pure esportatrice e notevoli quantità di olio di cotone, di girasole, di ravizzone, ecc.; per tutti gli altri prodotti oleiferi era importatrice, o direttamente dell'olio, ovvero dei semi (o altre materie) utilizzabili per ricavarlo.

Per quanto riguarda lo zucchero, di quello estratto dalla barbabietola (essendo quasi nulla la produzione dello zucchero di canna), l'Europa produceva oltre i tre quarti del totale mondiale (circa 75 milioni di q.), ma il consumo, in continuo aumento, era quasi ovunque (tranne nell'Unione Sovietica, in Germania, nella Polonia e nella Cecoslovacchia) superiore alla produzione e le eccedenze dei paesi ultimamente nominati non bastavano a pareggiare il bilancio, cosicché l'Europa nel suo insieme era in deficit, tendente a crescere.

Alla produzione mondiale del vino l'Europa contribuiva per più di quattro quinti, circa 150 milioni di ettolitri tuttavia insufficienti al consumo. Senonché in Europa affluiva la maggior parte del vino di altri paesi mediterranei, in prima linea dell'Africa settentrionale.

Tra le piante comunemente dette industriali, non c'è luogo a considerare, per l'Europa, che quelle tessili. La canapa è, come è noto, un prodotto essenzialmente europeo, perché di paesi extraeuropei non ve n'è che uno solo, la Cina, che abbia importanza mondiale, e la cospicua produzione dell'Unione Sovietica viene pure in massima parte dai territorî europei. Nel complesso l'Europa forniva certo almeno due terzi del totale mondiale (che si aggirava su 5,5-5,6 milioni di q.) ed aveva un margine per esportazione verso altri continenti. Europea era in massima parte (forse l'80-90%) la produzione del lino, perché l'Unione Sovietica, la maggior produttrice, aveva ed ha la più gran parte delle sue colture in area europea. Per il cotone invece, la produzione europea, per quanto in incremento, non raggiungeva più del 2-3% del totale mondiale. Nell'URSS si fanno ora esperimenti su larga scala per l'introduzione di piante surrogatrici di prodotti di climi tropicali.

Non è agevole calcolare il patrimonio zootecnico europeo, sempre a causa del fatto che per l'Unione Sovietica si posseggono solo dati globali. I bovini erano forse 150 milioni di capi (un po' meno di un quarto del totale mondiale), gli ovini 160 milioni circa (22% del totale mondiale), i caprini 30-32 milioni (14%), i suini oltre 100 milioni (34%), i cavalli 30 milioni (30%), gli asini meno di 3,5 milioni (10%); per i muli non si possono dare cifre attendibili. Rispetto al 1930-35 risulterebbe un aumento di bovini e suini, una riduzione di ovini.

Per quanto riguarda la produzione mineraria europea, si può accennare che, secondo calcoli pur sempre molto approssimati, l'Europa dava, negli ultimi anni prebellici ad economia normale (1937-38), un po' più della metà del totale mondiale dei combustibili fossili veri e proprî (antracite e litantrace) e quasi tutta la lignite, un po' meno della metà dei minerali di ferro (ma un po' più della metà dell'acciaio), il 60% dell'alluminio, circa un quarto del piombo e un po' meno di un quarto dello zinco, ma meno di un decimo del rame, e circa il 20% del petrolio (computando però come europea tutta la produzione del Caucaso), inoltre notevoli quantità di mercurio e di manganese, l'85% dei sali potassici, ecc. Lo sviluppo delle industrie metallurgiche rendeva peraltro necessario d'integrare la produzione europea con importazioni extraeuropee (tranne che per l'alluminio); ingenti erano soprattutto le importazioni di rame piombo, stagno e, ingentissima, con ritmo crescente, l'importazione di petrolio e derivati.

È prematuro tracciare, sia pure nelle linee generali, un quadro dell'economia postbellica, da porre accanto a quello degli ultimi anni normali prebellici; manca infatti, se non altro, ogni elemento sicuro per l'Unione Sovietica. Per il resto d'Europa, i dati per gli anni 1946 e 1947 rivelavano un'impressionante diminuzione della produzione cerealicola (almeno 40% in meno di grano e altrettanto di segala, 60% in meno di mais, 30% in meno di riso, ecc.), e di quella delle patate (almeno un terzo di meno). La situazione è però già migliorata: per es. il raccolto di grano del 1948 è inferiore soltanto del 14% a quello della media 1935-39. Molto diminuita era anche nel 1946 e '47 la produzione dello zucchero di bietola (almeno del 45%), dell'olio e del vino, ma per questi prodotti, le prospettive di un sollecito ritorno alle condizioni prebelliche sono ancora migliori. Per le fibre tessili, a giudicare dagli incompleti dati disponibili, sembrerebbe che si sia già prossimi alla produzione normale prebellica.

Per il patrimonio zootecnico si hanno computi relativi al 1946-47 che non denunziano, tranne che per i suini e il pollame, falcidie notevoli; anche nei paesi più danneggiati da operazioni belliche la ricostituzione avviene rapidamente.

Per quanto riguarda i prodotti minerarî sopra menzionati (prescindendo sempre dalla parte europea dell'Unione Sovietica), la produzione di carbone, assai ridotta nel dopoguerra, era ancora nel 1947 inferiore di 1/7 a quella del 1938; quella del petrolio è rimasta inferiore ai due terzi, quella del ferro ha pure avuto una forte contrazione.

Nei riguardi dell'attività industriale, il fatto più caratteristico dell'ultimo ventennio, specialmente dal punto di vista geografico, è il rapido sviluppo di nuovi grandiosi centri della grande industria moderna nell'URSS, di fronte a quelli più vecchi dell'Europa centrale e occidentale. Sono soprattutto i centri della regione di Mosca (con Tula, Orel, ecc.), quelli dell'Ucraina, dal basso Dnepr al basso Volga, quelli degli Urali centrali e meridionali. E poiché i distretti dell'Europa centrale ed occidentale non hanno cessato di svilupparsi, sembra che ormai si delineino nell'Europa due grandi blocchi industriali, entrambi più o meno attivi in ogni ramo d'industrie. L'ultimo grande conflitto europeo ha sconvolto tutta la situazione economica del continente, ma non sembra che abbia interrotto questo processo; anzi ha certamente accentuato la divisione tra i due blocchi; quello sovietico si sviluppa secondo piani prestabiliti di quinquennio in quinquennio, quello centro-occidentale viene ricostruito secondo un piano (Piano Marshall o ERP), le cui conseguenze è impossibile oggi prevedere.

Altri fenomeni caratteristici degli ultimi decennî e già segnalati (XIV, pp. 611-12) sono la progressiva scomparsa di molte piccole industrie, la cui attrezzatura non può mantenersi di fronte a quella della grande industria, e il flusso, tuttavia incessante, dei lavoratori dalle campagne verso i maggiori centri urbani. Questi non cessano perciò di accrescersi. L'Europa ha oggi 17-18 città con più di un milione di ab. (cioè circa il 40% di tutte le "città milionarie" mondiali) e una cinquantina di città con più di mezzo milione di ab. (sul totale di circa 125).

Commercio e comunicazioni (XIV, p. 612; App. I, p. 567). - Nel campo delle comunicazioni è da segnalare un incremento della rete ferroviaria europea, in seguito a nuove costruzioni eseguite negli anni immediatamente precedenti la seconda Guerra mondiale e durante il conflitto stesso.

Le operazioni belliche hanno per vero prodotto in alcuni paesi (Italia, Germania, ecc.) gravissime distruzioni; ma, quando queste siano riparate (e la riparazione procede, in Italia e anche altrove, in modo assai rapido), al ristabilirsi delle condizioni normali, si avranno nuovi collegamenti d'interesse generale, come la nuova arteria ferroviaria meridiana polacca (dal Baltico alla Slesia), parecchie nuove linee dell'Ucraina e della Russia orientale. Anche i collegamenti con l'Asia sono molto migliorati in seguito alle nuove linee ferroviarie della Siberia, della Turchia e dell'Iran. Nelle grandi linee internazionali il traffico è già riattivato all'incirca nelle condizioni prebelliche.

Anche la rete delle strade automobilistiche di grande comunicazione si è molto estesa; numerose autostrade sono state costruite soprattutto in Germania; ma le condizioni politiche non ancora stabilizzate ostacolano la ripresa del traffico automobilistico internazionale. Lo stesso si può ripetere per i maggiori fiumi: tra questi il Danubio manterrà sicuramente, come per il passato, la sua funzione di fiume internazionale. Le grandi opere per la costruzione di nuove arterie di navigazione interna, specialmente nell'URSS ed in Germania, non possono avere, almeno per ora, ripercussioni sul traffico generale europeo.

Per quanto riguarda il traffico marittimo, la consistenza della marina mercantile europea nel 1939, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, confrontata con quella stimata con larga approssimazione al 1° luglio 1947, è indicata nella seguente tabella (in migliaia di t. di stazza lorda, cifre arrotondate).

Le perdite maggiori riguardano naturalmente gli stati più colpiti dalla guerra; la restaurazione è ostacolata da difficoltà soprattutto d'indole economica. La gerarchia dei porti europei è stata pure molto alterata dalla guerra mondiale, soprattutto per le gravissime distruzioni subite da alcuni dei maggiori porti (Rotterdam, Anversa, Amburgo, Brema, Genova, ecc.): ora, anche in seguito ai nuovi contrasti politici ed economici che si vengono maturando. Le più importanti direttrici del movimento marittimo sono ora, ancor più che per il passato, quelle transatlantiche, in prima linea verso l'America del Nord, poi verso l'America del Sud, e sono determinate dalle necessità di forniture di derrate alimentari e materie prime: ma anche il traffico mediterraneo con l'Africa e quello oltre Suez vanno rapidamente riprendendo: nel 1946 passarono per il Canale 4189 navi per una stazza netta di oltre 24,2 milioni di t.; nel 1947 si raggiunsero i 26 milioni.

Ma, in materia di comunicazioni, uno dei fatti geograficamente più importanti e significativi è l'enorme intensificazione del traffico aereo. Le linee aeree stabiliscono collegamenti rapidi e diretti fra tutte le più importanti città europee; ma, ciò che più interessa, sono già di nuovo in piena, anzi accresciuta efficienza, tutti i collegamenti con le altre parti del mondo: col Nord America attraverso l'Atlantico, col Sud America, con l'intera Africa, con l'Asia meridionale e orientale, con l'Australia.

L'Unione Sovietica ha attuato, dal canto suo una rete che traversa l'intera Asia e raggiunge in più punti le coste del Mare Artico. Sono aumentati anche efficienza e velocità dei mezzi aerei: il volo transoceanico dall'Europa all'America del Nord non richiede ormai più di 12 ore. Il ravvicinamento dell'Europa all'America, come pure all'Africa, assume un'importanza che oggi è difficile valutare nelle sue conseguenze nel campo politico, economico ed anche in quello culturale.

Bibl.: Accad. d'Italia, Convegno Volta di scienze morali e storiche, 1932: L'Europa, 2 voll., Roma 1933; J. F. Bogardus, Europe. A geographical Survey, New York-Londra 1934; T. Griffith Taylor, Environment and Nation: Geographical Factors in the cultural and political History of Europe, Toronto 1936; S. von Valkenburg e E. Huntington, Europe, New York 1935; J. Ancel, Manuel géographique de politique européenne, I. L'Europe Centrale, Parigi 1936, II. L'Europe germanique et ses bornes, 2 voll., Parigi 1940-45; R. Blanchard, Géographie de l'Europe, Parigi 1936; A. Reithinger, Le visage économique de l'Europe, trad. dal ted. Parigi 1937; M. Rachmann, Europe, New York 1944; F. Friedensburg, Die Rohstoffe und Energiequellen im neuen Europa, Oldenburg 1943.

Storia (XIV, p. 625).

"Il continente non era più che un carcere enorme, privo d'ogni contatto con quella nobile Inghilterra, che sola era rimasta asilo generoso del pensiero e rifugio illustre della dignità del genere umano. A un tratto, dalle due estremità della terra, due grandi popoli risposero l'uno all'altro: le fiamme di Mosca furono l'aurora della libertà nel mondo". Con tali parole Benjamin Constant dava alle stampe, il 31 dicembre 1813, le sue pagine su Conquista e usurpazione, risoluta e profonda critica della dittatura napoleonica. E, per vero, Alessandro I di Russia apparve allora ai popoli anelanti a scuotere il giogo napoleonico il novello Messia, più ancora che non l'inglese Castlereagh o l'austriaco Metternich; e così la Russia fece il suo definitivo ingresso nel "sistema politico europeo", non più quale pedina nel giuoco altrui, secondo era parso ancora a mezzo il sec. XVIII, bensì quale protagonista, e protagonista di primissima grandezza. Tanto grande, da determinare subito dopo, e per tutto il secolo, inquietudini e allarmi: cessato il pericolo napoleonico, si cominciò a temere la "massa slava" avanzante verso il sud, minacciante i Balcani, Costantinopoli, il Mediterraneo e quindi lo stesso equilibrio europeo. Semi europea e semi asiatica, semi barbara, quale appariva, la Russia costituiva di già un'incognita, che si piazzava in un sistema di rapporti fino allora imperniato esclusivamente sui vecchi e ben conosciuti attori dell'Europa centro-occidentale, della Europa classica: Francia e Inghilterra, Prussia e Austria, Spagna e Stati italiani. Ma se non puramente Europa, la Russia era anche Europa; e a questa Russia europea pensava il Constant, per il quale le due estremità della terra erano Inghilterra e Russia, e la terra si riassumeva, dunque, ancora nell'Europa, guida e maestra anche agli altri continenti.

Un secolo più tardi, risuonarono nuovamente consimili appelli alla libertà, si alternarono consimili timori e speranze: solo che, questa volta, i popoli guardarono non più alle vecchie o nuove potenze europee, bensì oltre Oceano; e novello Messia apparve per un momento, tra 1918 e 1919, il presidente Wilson; e l'aurora della libertà sembrò contenuta nei Quattordici punti da lui enunciati nel messaggio al Congresso americano, l'8 gennaio 1918, nei Quattro principî e nei Cinque punti da lui formulati, successivamente, nel discorso di Mount Vernon, sulla tomba di Washington, e nel discorso del 27 settembre 1918. Pubblicità dei trattati di pace e diplomazia pubblica; libertà dei mari; soppressione delle barriere economiche ed eguaglianza di trattamento commerciale; riduzione al minimo degli armamenti; abolizione e riduzione all'impotenza di qualsiasi potere arbitrario capace di turbare la pace del mondo; autodecisione dei popoli; pari diritti di tutti i popoli; creazione di una associazione delle nazioni, allo scopo di procurare a tutti gli stati, grandi e piccoli indistintamente, mutue garanzie di indipendenza e di integrità territoriale. "Quello che noi auspichiamo, disse Wilson a Mount Vernon, è il regno del diritto, basato sul consenso dei governi e sostenuto dall'opinione concorde dell'umanità".

In tal modo, gli Stati Uniti d'America assumevano, per un momento, anche la guida ideologica degli stati coalizzati contro la Germania e l'Austria; e la statua della libertà, nel porto di New York, parve simboleggiare la fede dell'umanità in un avvenire migliore. Fu, questa, la sanzione morale e politica della potenza economica e militare degli Stati Uniti, dal cui intervento in guerra a fianco dell'Intesa s'eran viste dipendere le sorti del conflitto, che aveva scagliato l'una contro l'altra, con una acrità e violenza mai prima viste, le due parti che avevan dato vita alla vecchia Europa, politicamente, economicamente, culturalmente, e cioè l'Europa centrale contro l'Europa occidentale (la scomparsa dalla scena bellica della Russia, nel 1917, diede alla guerra questo preciso significato).

Così, per la prima volta nella sua storia, l'Europa classica era costretta ad appoggiarsi, ad invocare anzi qualcosa che non era più Europa; lo scettro passava dall'una all'altra sponda dell'Oceano, quasi a dar valore di profezia alle parole con cui Gaetano Filangieri, sulla fine del sec. XVIII, aveva espresso i suoi timori per il futuro sopravanzar dell'America. Noi Americani saremo gli arbitri del destino dell'America e della sorte dell'Europa (Scienza della Legislazione, l. I, c. XIII): e questo si stava avverando.

In effetti, che la supremazia politica dell'Europa sul mondo fosse finita, comprovavano, non solo il prestigio eccezionale e la funzione di arbitro supremo di cui, per un momento, il Wilson godette presso gli Europei, bensì tutta una serie di fatti, sia al momento della conferenza della pace a Parigi, sia negli anni immediatamente successivi: significativo, fra tutti, il risultato della conferenza navale di Washington (novembre 1921-febbraio 1922), che stabiliva all'incirca i seguenti rapporti tra le forze navali delle grandi potenze: Inghilterra e Stati Uniti, 5; Giappone, 3; Francia e Italia, 1,75. Con ciò, crollava il principio sempre tenuto fermo dalla politica britannica del two powers standard; l'Inghilterra doveva dividere con le sue antiche colonie la supremazia sui mari, e dietro a loro veniva un'altra potenza non europea, il Giappone. Nessun sintomo più evidente del tramonto dell'egemonia europea.

Che se dal campo politico si trascorreva a quello economico, che poi condizionava il primo in così larga misura, anche qui le condizioni apparivano radicalmente diverse da quelle di un cinquantennio innanzi.

Nel 1865 Stanley Jevons aveva potuto celebrare l'assoluto predominio britannico nel mondo economico: "cinque parti del mondo sono nostre tributarie volontarie. Le pianure dell'America del Nord, la Russia, ecco i nostri campi di grano. Il Canada, i paesi baltici, le nostre foreste. L'Australasia alberga i nostri allevamenti di montoni, l'America le nostre mandrie di buoi; il Perù c'invia il suo argento, la California, l'Australia il loro oro. I Cinesi coltivano il tè per noi e, dalle Indie orientali, affluiscono verso le nostre coste il caffè, lo zucchero, le spezie. La Francia e la Spagna sono i nostri vigneti, il Mediterraneo è il nostro frutteto; il nostro cotone noi lo ricaviamo dagli Stati Uniti, come da molte altre parti del mondo". E nel 1890, in pieno dispiegarsi delle dottrine dell'imperialismo, Charles Dilke tornava ad esaltare la grandezza, potenza, varietà dell'Impero britannico autosufficente alla sua vita, ricco di ogni bene.

Dopo il 1919, nessun inglese avrebbe più potuto intonare un tale inno di trionfo; e, a ragion maggiore, nessun altro europeo. L'Europa usciva da cinque anni di guerra impoverita di uomini e di mezzi. Circa 10.000.000 di morti, fra tutte le potenze europee: la Francia aveva perduto il 14% delle classi maschili produttrici, la Germania oltre il 12%. E poiché colpite eran state le classi giovani (anche le epidemie e malattie fra i civili avevan mietuto soprattutto fra le classi infantili), la popolazione risultava invecchiata. Questo, tuttavia, dato il ritmo di natalità della maggior parte dei paesi europei, sarebbe stato un fenomeno passeggero, a pronto rimedio: tanto è vero che ben presto si sarebbe nuovamente avvertito il problema della sovrapopolazione dell'Europa, rispetto alla sua capacità produttiva. Più gravi di conseguenze, invece, gli spostamenti e le modificazioni nella struttura economica. La conferenza economica di Bruxelles, nel 1920, valutava l'impoverimento dell'Europa a 200-225 miliardi di dollari dell'epoca.

Danni ingenti al patrimonio zootecnico e, in genere, all'agricoltura; menomata la produzione industriale, non tanto - allora - per le distruzioni, per nulla paragonabili alle distruzioni che dovevano poi avvenire nel 1940-45, anche se gravi nella Francia settentrionale e orientale, quanto per il mancato rinnovo degl'impianti: la stessa industria inglese, non colpita, aveva, nel 1919, una capacità produttiva inferiore a quella del 1914, e soprattutto era invecchiata, nei metodi e nei macchinarî, come si sarebbe visto ben presto nella crisi dell'industria carbonifera, che da allora non riuscì più a riprendere le posizioni tradizionali, specialmente di fronte allo sviluppo della consimile industria negli Stati Uniti.

Qui, infatti, era il lato più critico. La capacità produttiva dell'Europa e la sua ricchezza eran diminuite, mentre fuori Europa, ed essenzialmente nell'America del Nord, eran considerevolmente aumentate. Fonte di depressione per l'Europa, la guerra era stata fonte di prosperità per gli Stati Uniti, la cui attrezzatura industriale e la cui agricoltura s'erano enormemente sviluppate, ammodernate; ma anche per altri paesi extraeuropei, Canada, Australia, Sud Africa, e fin per il Giappone, il quale in effetti soltanto nel periodo postbellico poteva iniziare una sua politica di esportazione di manufatti, minacciando pericolosamente il fino allora indiscusso predominio dell'industria europea su mercati come quello cinese e quello indiano.

S'aggiunga che, per sopperire alle spese di guerra, i grandi stati europei avevano dovuto liquidare, o comunque perdere (insolvenza della Russia, danni a proprietà) una parte considerevole dei proprî investimenti all'estero, i cui interessi eran serviti precisamente a pareggiare il passivo della bilancia commerciale (eccedenza nomiale delle importazioni dai paesi extra-europei sulle esportazioni europee verso di essi): la Gran Bretagna aveva consumato circa un quarto del proprio portafoglio estero, la Francia circa i due terzi, la Germania circa i cinque sesti. Inversamente, gli Stati Uniti avevano riscattato grandi quantità di titoli proprî posseduti da stranieri, e piazzato nel proprio mercato interno prestiti stranieri, cominciando cioè a far concorrenza al mercato di Londra come centro finanziario mondiale. Si aggiunga l'indebitamento degli alleati europei verso gli Stati Uniti, per cause di guerra: la Gran Bretagna era debitrice di 4.277 milioni di dollari, la Francia di 3.405, l'Italia di 1.648.

Il risultato complessivo degli sconvolgimenti apportati dalla guerra era dunque un balzo in avanti produttivo dei paesi extraeuropei in genere ed in ispecie degli Stati Uniti, una diminuzione dei crediti europei sull'estero: cioè, l'inizio del tramonto di quella posizione di egemonia economico-finanziaria per cui, nei secoli XVI-XVIII e ancora nel XIX gli altri continenti erano apparsi come le "fattorie" degli Europei, destinate ad alimentare la vita opulenta del vecchio continente.

Ora, è ben vero che negli anni successivi alla fine della guerra, e soprattutto dopo il 1921, l'industria e l'agricoltura europee ripresero quota, i danni di guerra vennero rapidamente eliminati e il movimento dei capitali internazionali tornò ad irradiarsi, oltre che dagli Stati Uniti, anche dai vecchi stati europei, e l'Inghilterra mantenne in esso il primo posto (nel 1925 incassava più di un miliardo di dollari, a saldo interessi e dividendi, di cui la grandissima parte per investimenti fuori Europa, in Asia, Africa, Oceania; nello stesso anno gli Stati Uniti incassavano, allo stesso titolo, più di mezzo miliardo di dollari, di cui gran parte per investimenti in Europa). Ma, ciò nonostante, la posizione economica dell'Europa appariva ormai seriamente minacciata: l'America latina cominciava a sfuggire al suo controllo finanziario, per passare sotto controllo del capitale nord-americano; la concorrenza della formidabile attrezzatura industriale statunitense si faceva sempre più serrata, e in talune parti del mondo (Asia), per alcuni prodotti almeno, anche la concorrenza giapponese diveniva sensibile.

Questo processo d'iniziata decadenza dell'Europa si esprimeva, nel modo più palese, nella Gran Bretagna, che della potenza dell'Europa era stata, nel sec. XIX, la vessillifera.

Non solo, infatti, il suo saldo attivo generale andava riducendosi, perché al saldo attivo della marina, dei servizî finanziarî e degl'interessi e dividendi esteri si contrapponeva un sempre crescente sbilancio commerciale; ma, fatto ancor più importante, la madre patria doveva ora far i conti con quelle che eran state le sue "colonie e oggi eran divenuti i dominions, che lo Statuto di Westminster (dicembre 1931) sanzionava definitivamente come membri a parità di diritto del Commonwealth.

Ora, in parecchi di questi dominî s'era precisamente sviluppata una forte industria, che non voleva più essere soffocata da quella inglese; i Dominî detenevano la quasi totalità delle ricchezze minerarie dell'impero, onde se questo, preso nel suo insieme, era ancora l'organismo politico più ricco di materie prime che fosse al mondo, la Gran Bretagna, cioè la parte europea dell'impero, appariva dipendere per la quasi totalità dei suoi bisogni dalle parti extraeuropee.

Il crescer d'importanza della parte non europea portò come conseguenza, oltre le ripercussioni politiche di tal fatto, la creazione del complesso economico del Commonwealth, che ebbe la sua consacrazione definitiva nella conferenza di Ottawa nel Canada (21 luglio-20 agosto 1932): essa volle dire l'abbandono definitivo da parte inglese del principio basilare della sua politica economica per circa un secolo, quello del libero scambio, e la diminuzione del commercio con gli altri paesi non membri del Commonwealth, e quindi anzitutto con i paesi europei (prima di Ottawa, i prodotti esteri ammessi in Inghilterra senza dazio erano l'83%; dopo, scesero al 25-30%).

Ma un simile rinchiudersi della Gran Bretagna, europea, nel Commonwealth, non europeo, se era, esso stesso, conseguenza della diminuita potenza mondiale, economica e politica della Gran Bretagna, generava, a sua volta, gravi effetti sul vecchio complesso europeo. Diminuita possibilità di scambî tra Inghilterra e continente; maggiori difficoltà, quindi, per la produzione continentale, sia nei rapporti con la Gran Bretagna, sia in quelli con i Dominî. Nel complesso economico mondiale si creavano complessi particolari, aree chiuse o semichiuse che spezzavano il ritmo continuo della vita economica internazionale, a danno dei vecchi paesi industriali, e cioè europei.

Già l'isolamento dell'URSS aveva creato, sin dal 1919, un'immensa area a sé; le tariffe preferenziali imperiali ne creavano una seconda. E quasi nello stesso torno di tempo degli accordi di Ottawa un terzo fatto si verificava, anch'esso destinato ad incidere pericolosamente sui rapporti economici internazionali. La crisi nord-americana del 1929-30, il tracollo dei valori a Wall Street e dei prezzi di ogni genere, la conseguente diminuzione della produzione (sino anche al 50%), inducevano il congresso degli Stati Uniti, nel giugno 1930, ad approvare la nuova tariffa doganale Hawley-Smoot; accrescendo i dazî, questo "monumento di ostruzione al commercio", come fu definito, colpiva gravemente gli scambî internazionali, chiudeva gli Stati Uniti in sé stessi, rendendo fra l'altro sempre più arduo ai debitori europei (debiti di guerra) il pagamento, dal momento che alla produzione europea era reso sempre più difficile lo smercio sul mercato americano.

Con la tariffa Hawley-Smoot gli Stati Uniti recavano, dunque, un colpo fatale alle nazioni produttrici europee, dopo di avere, già negli anni innanzi, recato un colpo non meno fatale a quell'altra forma di produzione europea, ch'era l'emigrazione. Forma tipica dei paesi in condizioni economiche meno sviluppate, delle aree cosiddette depresse, che però appunto attraverso le rimesse degli emigranti eran riuscite, per l'innanzi, a saldare la passività della bilancia commerciale.

Ora, sin dal 1921 gli Stati Uniti avevano adottato leggi restrittive sulla immigrazione, entrate in vigore nel 1923, che stabilivano quote fisse per ciascun paese, con limiti di gran lunga inferiori a quelli toccati dall'immigrazione libera del periodo prebellico: la conseguenza fu che l'immigrazione dall'Europa si ridusse, nel 1925, di oltre l'80% in confronto a quella del periodo precedente al 1914; in particolare, quella dell'Italia scese, nel 1925, al 3% in confronto a quella del periodo 1910-14.

E poiché anche altri stati dei continenti extraeuropei adottavano misure analoghe, l'Europa veniva colpita anche in questa sua possibilità di espansione economica, d'importanza vitale per i paesi poveri e, ad un tempo, sovrapopolati. La libertà di migrazione scompariva, come scompariva la libertà di commercio: il mondo nel sec. XIX, in periodo di supremazia europea, aveva posto a base del suo essere economico l'uno e l'altro principio; il mondo nel sec. XX, in periodo di declino degli stati europei, ripudiava l'uno e l'altro, chiudendosi in settori particolari, ciascuno preoccupato di difendere sé stesso, senza accorgersi che questa sua difesa si trasformava in grave perturbamento dell'insieme e ricadeva quindi, in ultima analisi, a danno anche di chi lo provocava.

Che ormai anche la supremazia economica e finanziaria dell'Europa fosse al tramonto, dimostrava un fatto clamoroso, nel 1931: il 21 settembre, per la prima volta, la sterlina venne staccata dalla parità aurea. Questa "catastrofe di primaria grandezza" determinava il crollo di altre monete e la divisione del mondo in due blocchi, l'uno aureo, l'altro a valuta oscillante; ma determinò anche il controllo sui cambî in numerosi stati, vale a dire un'ulteriore restrizione alla libertà degli scambî internazionali, e un ulteriore contrarsi di essi. La caduta della sterlina precedette di quasi un anno la conferenza di Ottawa, cioè l'adozione del sistema economico imperiale, cioè, ancora, l'adozione di una politica protezionistica e l'abbandono della politica liberistica che aveva accompagnato, nel sec. XIX, i maggiori trionfi dell'espansione economica britannica. L'uno e l'altro fatto, strettamente collegati insieme, possono essere assunti a indice di tutto uno spostamento di forze e di tradizioni. La sterlina, moneta base, era stata in un certo senso il simbolo della supremazia europea nel mondo; ora, il simbolo crollava perché era mutata tutta la situazione generale, e moneta base diventava il dollaro.

La libertà degli scambî internazionali, ecco il dogma britannico e del liberalismo europeo dell'800: il dogma che, da Benjamin Constant a Cobden a Minghetti, stava a fondamento della trionfante "età del commercio", la quale avrebbe dovuto por termine all'"età delle guerre". Concorrenza commerciale, con libertà per tutti; non più conflitti armati. Ora, la libertà illimitata degli scambî diventava un ricordo: e dunque, si ritornava all'età delle guerre?

La risposta decisiva a tale interrogativo poteva esser data solo sul terreno politico. Ma il frantumarsi dell'unità economica mondiale in complessi economici più ristretti, ciascuno vigile alla sua propria difesa, e il conseguente aggravarsi di una situazione che disilludeva coloro i quali avevano sperato, dopo il 1918, un rapido ritorno alla vita di prima il 1914: celerità continuità complessità di scambî, benessere materiale e morale; tutto ciò non costituiva che il momento economico, facilmente e materialmente percepibile, di un più generale processo di disintegrazione dei vecchi valori e di spostamento sostanziale nei rapporti di potenza, che culminava proprio nel campo politico.

Anche qui, come s'è già notato, tramonto della supremazia europea; le acclamazioni al Wilson Messia prima, la conferenza navale di Washington poi, lo provano chiaramente. Alla potenza economica degli Stati Uniti corrispondeva, logicamente, il loro divenir primi attori anche sulla scena politica.

Sennonché, investiti di tanta responsabilità, divenuti la massima potenza mondiale e assunto il ruolo che una volta era stato della Gran Bretagna, gli Stati Uniti fallirono al compito.

Il presidente Wilson aveva vagheggiato un ordinamento internazionale per assicurare la pace del mondo, che ripudiasse l'antico sistema europeo delle alleanze e dell'equilibrio politico, basato sul "concerto" delle sei grandi potenze, per garantire la "sicurezza collettiva" mediante il "consenso" di tutte le nazioni, unite in una Società delle nazioni: un ordinamento, dunque, giuridico, fondato sul principio dell'eguaglianza giuridica di tutti gli stati, al posto dell'antico sistema "politico", fondato sulla constatazione della maggiore o minor potenza effettiva dei singoli stati e quindi sulle alleanze; un ordinamento stabile, in luogo di un equilibrio instabile. Risorgeva, così, il vecchio sogno, già nutrito nel'700, ripreso nell'800, che aveva animato pubblicisti e filosofi contro il "principio dell'equilibrio", causa di guerre e del tutto precario, e a favore di un organismo supernazionale.

Ma, a prescindere anche dalle manchevolezze del progetto e dalle ingenuità personali del Wilson, il quale "voleva fare una frittata ma respingeva l'idea di cuocere le uova" (W. Lippmann), tutto il sogno svanì subito, quando il senato americano rifiutò di ratificare il trattato di Versailles e con ciò lo statuto della Società delle Nazioni, messo in testa al trattato (novembre 1919 e marzo 1920). E poiché le elezioni presidenziali del novembre 1920 diedero la vittoria al candidato repubblicano Harding, che rappresentava appunto la tendenza contraria alla Società delle Nazioni e, in genere, a qualsiasi compromissione con l'estero, sotto forma di accordi o alleanze, così gli Stati Uniti, ai quali risaliva il concepimento della nuova forma di organizzazione internazionale, ne rimasero fuori prima ancora ch'essa potesse praticamente funzionare.

L'isolazionismo politico precedette, nell'America del Nord, l'isolazionismo economico. E si può spiegare con l'impreparazione politica degli statunitensi la mancanza di una loro politica estera, il non sapere quel che si dovesse volere (Lippmann), il non rendersi conto che, ormai, nuovi compiti eran sorti per loro, dallo sviluppo stesso della loro vita interna, dell'economia, della ricchezza, della potenza nazionale. Ma quel che conta è il risultato. E il risultato fu che, impegnati o mai con i loro interessi in tanta parte del globo, avvinti fondamentalmente alla situazione europea il cui nuovo modificarsi avrebbe inciso immediatamente sui loro diretti interessi, economici e politici, gli Stati Uniti si tirarono indietro, politicamente, cercando di lasciare ad altri la cura di sbrigare le proprie faccende, chiudendosi essi nella loro parte di terra - come se poi le faccende altrui non si sarebbero, tosto o tardi, ripercosse anche su quelle americane.

Ne derivò la paradossale situazione che, laddove gli Stati Uniti erano, ormai, la potenza più forte del mondo, la direzione politica della Società delle Nazioni, e cioè dell'organismo che avrebbe dovuto assicurare la pace del mondo, rimaneva affidata soprattutto a due potenze europee, Inghilterra e Francia. E poiché l'altra potenza destinata in seguito ad assumere posizione di preminenza di fronte agli Stati Uniti, l'URSS, era allora assente anch'essa dalla Società, in cui entrò solo nel settembre 1934 e per di più era in fase di ricostruzione e assestamento interno; e un'altra grande potenza extraeuropea, il Giappone, era sì nella Società, ma in posizione evidente di secondo piano, niente affatto proporzionata al suo effettivo peso internazionale, ne derivò che al centro delle discussioni e preoccupazioni della Società delle Nazioni continuarono a rimanere le questioni propriamente europee, le vecchie questioni non risolte o mal risolte dai trattati di pace. L'Europa non aveva più forze sufficienti per dominare il mondo; facilitata dall'isolazionismo statunitense e, per un certo periodo, anche russo, ne aveva ancora abbastanza per continuare a proiettare sul mondo, come problemi essenziali di tutta l'umanità, i suoi specifici problemi, soprattutto le sue "questioni di frontiera", che risalivano alla vecchia tradizione dei contrasti europei del sec. XIX, ormai non più rispondente alla realtà delle forze mondiali.

Al centro del mondo rimase, sempre, come fondamentale, il vecchio problema del Reno, cioè dei rapporti Francia-Germania, attorno a cui tutto gravitava, dalle alleanze europee alla politica, appunto, della apparentemente mondiale Società delle Nazioni. Ora, a questo problema il trattato di pace non diede una soluzione.

La pace fu, si è detto giustamente dal Salvatorelli, una pace "anfibia": non schiacciò, cioè, la Germania, non ne disfece l'unità come sarebbe stato nei voti degli sciovinisti francesi, sempre sognanti il ritorno "aux Allemagnes", sulle rovine della "Allemagne"; ma non fu nemmeno una pace "giusta" che, previo ritorno dell'Alsazia-Lorena alla Francia, sanate le ferite del 1870, non lasciasse sussistere l'odio fra i due popoli e permettesse, anzi, il ripristino di quella collaborazione franco-germanica, in cui tutti i grandi spiriti della Francia della prima metà dell'Ottocento, sino proprio al '70, da Saint-Simon a Michelet a Renan, avevano visto, giustamente, la condizione essenziale per una pacifica e fiorente civiltà europea. Il '70 aveva spezzato quel sogno, facendo crescere - aveva osservato Flaubert - l'odio fra i due popoli e incatenando la politica europea con la pesante catena della "rivincita" e dell'Alsazia-Lorena.

Ora il 1919 non fu capace né di sciogliere la catena, restituendo l'Europa ad una maggior libertà di movimento, senza ferite aperte a priori: né di renderla talmente pesante, da inchiodare per sempre la Germania al letto del vinto. Quest'ultima era, evidentemente, una soluzione assurda; tanto che, alla conferenza di Versailles, lo stesso presidente del consiglio francese, Clemenceau, non certo tenero per i Tedeschi, dovette abbandonare la tesi del maresciallo Foch, il massimo esponente delle preoccupazioni militari francesi, che avrebbe voluto la separazione della Renania dall'impero germanico e l'occupazione permanente della linea del Reno. Ma nemmeno l'altra via fu seguita. Tutto il trattato di pace fu invece dominato dalla preoccupazione di creare una posizione di "sicurezza antigermanica", raggiungendo per vie traverse quel che non si poteva raggiungere per via diretta: di qui la costituzione di una Polonia che, aggregandosi parte del ricco bacino industriale dell'Alta Slesia e il famoso corridoio, nasceva, fatalmente, con spiccato carattere antitedesco (oltre che antirusso); e la costituzione di una Cecoslovacchia, anch'essa in funzione di stato-barriera sul fianco sud-est della Germania, e anch'essa incorporante nutrita e compatta schiera di popolazione tedesca (nei Sudeti).

S'aggiungano i tentativi separatistici promossi o almeno favoriti, ancora nel 1923, dallo stato maggiore francese in Germania (Renania e Palatinato); il grosso errore psicologico di far presidiare i territorî occupati della Renania da truppe di colore, esasperando l'amor proprio dei Tedeschi, già assai prima di Hitler così sensibili alle questioni di razza e così fieri del loro "ceppo ariano" puro; l'occupazione della Ruhr, decisa nel gennaio 1923 da Poincaré, per costringere la Germania ad effettuare le consegne di carbone previste dal trattato di pace in conto riparazioni, e anch'essa fomite di una nuova e più forte vampata di odio contro la Francia. Infine, e massimo fra tutti gli errori, il sistema delle "riparazioni" chieste alla Germania, per i danni di guerra subìti dagli Alleati in base alla dichiarazione che la responsabilità della guerra era della Germania (art. 231 del trattato di Versailles). L'art. 233 del trattato stabiliva la creazione di una commissione delle riparazioni, che avrebbe dovuto fissare l'ammontare delle riparazioni stesse; in realtà le decisioni continuarono ad esser prese dal Consiglio supremo degli Alleati, che a Boulogne, nel giugno 1920, fissò un complesso di pagamenti per 269 miliardi di marchi oro, in 42 annualità. Da allora, fu un succedersi di nuove proposte alleate, controproposte tedesche, non senza atti di forza degli Alleati per costringere i Tedeschi a cedere (occupazione di località sulla riva destra del Reno, ecc.): nel maggio 1921 la Germania accettò, su ultimatum alleato, la cifra di 132 miliardi. Ma erano cifre e situazioni insostenibili; si aggiunse la svalutazione in Germania, il crollo totale del marco, onde a novembre del 1923 occorrevano 4 miliardi e 200 milioni di marchi per acquistare un dollaro, mentre ancora alla fine del 1922 ne occorrevano solo 8000. Si pervenne infine, nell'aprile 1924, al piano Dawes, che rappresentava non solo una riduzione sulle cifre precedenti, e la progressività dei pagamenti (il versamento tipo, di 2500 milioni annui, a partire solo dal 1928-29), ma soprattutto significava l'abbandono della politica di forza, cara al Poincaré, per indurre la Germania a pagare, e l'inizio di una collaborazione, almeno parziale, tra gli Alleati e la Germania. E, in effetti, al piano Dawes seguirono la politica di Briand e Stresemann, vale a dire il tentativo di accordo franco-tedesco, Locarno, Thoiry e l'ammissione della Germania nella Società delle Nazioni (1926), vale a dire il suo uscire dallo stato di minorità. Ma tutte queste vicende, in cui le controversie di carattere economico e finanziario avevano dato motivo, come s'è detto, a gesti di forza francesi, lasciarono uno strascico profondo di rancori nell'anima popolare, indebolendo quindi sin dall'inizio la posizione di uno Stresemann e le prospettive di una duratura riconciliazione tra Francia e Germania.

D'altra parte, nel popolo francese, incancellabili la diffidenza e il timore verso una possibile temuta ripresa offensiva germanica. Ad un uomo di stato straniero che lo esortava ad una politica di conciliazione verso la Germania, il maresciallo Foch rispose un giorno: "Sì, ma voi non avete vissuto due invasioni della Francia". In tale risposta, era veramente riassunto il sentimento di una gran parte del popolo francese. Il 1914, il 1870; si risaliva perfino al 1814-15 e al 1792: sempre, la Francia invasa dall'est. Il problema della "sicurezza" contro nuove aggressioni incombette, allora e poi, sugli animi; la diffusione stessa del termine, prima poco noto alla prassi politica e diplomatica, era indice di uno stato d'animo, di una mentalità le cui radici penetravano nel più profondo della coscienza nazionale. Era facile, anche, avvertirvi come la preoccupazione per la propria inferiorità: durissimamente provata dalla guerra, con perdite enormi proprio fra la popolazione giovane, e quando il fenomeno della denatalità diveniva vieppiù preoccupante, la Francia, vittoriosa, aveva tuttavia compreso, che da sola, senza alleati, contro la Germania avrebbe dovuto cedere. Di qui, dunque, la ricerca affannosa della "sicurezza francese": ma quando si sarebbe potuta avere? Niente smembramento della Germania; ma niente garanzia americana, promessa da Wilson, in cambio della rinunzia di Clemenceau alla tesi Foch sulla Renania, e poi non ottenuta per il rifiuto del senato americano di ratificare il trattato di Versailles; niente garanzia inglese, legata a quella americana e caduta con quella; anzi, sin dal 1920, primi contrasti franco-inglesi proprio sulla condotta da tenere di fronte alla Germania.

Di qui, il cauchemar francese di una Germania nuovamente in grado, in un avvenire più o meno prossimo, di ritentare l'attacco alla Francia; di qui, la ricerca continua, sistematica, di alleanze con stati continentali che potessero collaborare a tenere a freno la Germania, ricerca iniziata con l'alleanza polacca, perseguita attraverso le intime relazioni con la Piccola Intesa, portata al massimo nel 1934 dal Barthou, con il suo viaggio a Varsavia e a Praga e il progetto di una "Locarno orientale". Di qui, ancora, quella che può considerarsi la più significativa espressione dello stato d'animo francese e che caratterizza bene la politica europea dopo il 1919: la costruzione, cioè, della "linea Maginot". Ci fu una Maginot militare, e ci fu - assai più importante - una psicologia da linea Maginot, che, se anche militarmente ebbe conseguenze dannosissime per la Francia (lo dimostrarono gli eventi del giugno 1940), politicamente significò, appunto, il sospetto e il timore e l'ansia di premunirsi che determinavano la politica francese e, in gran parte, quella europea. Era una specie di muraglia della Cina, in forma moderna, che dà bene la misura di quanto fosse mutata l'atmosfera internazionale da quella del sec. XIX.

La ricerca francese di sicurezza agganciava, s'è detto, Polonia e Piccola Intesa. Con ciò, al problema fondamentale franco-tedesco si associava l'altro grosso problema derivante dai trattati di pace, e determinato dalla scomparsa dell'Impero asburgico nella valle danubiana. Il sogno mazziniano s'era avverato, contrariamente alle previsioni e ai desiderî degli stessi governi alleati, dei quali l'inglese e il francese ancora in piena guerra avevano cercato di evitare il collasso totale dell'Austria (trattative di pace separata del principe Sisto di Borbone), e l'italiano, nella politica del ministro degli Esteri Sonnino, era stato riluttante anch'esso, sino all'ultimo quasi, alla scomparsa dell'Impero austro-ungarico, temendone conseguenze dannose all'equilibrio generale dell'Europa e, anche, in particolare, dannose all'Italia, che sarebbe stata minacciata dall'espansione slava nell'Adriatico.

Mentre però nel sogno mazziniano l'Impero asburgico avrebbe dovuto crollare, ma lasciando nel cuore dell'Europa una forte, anzi più forte Germania, ora invece il dissolvimento di quel secolare complesso di popoli avveniva contemporaneamente ad una crisi grandissima della Germania, vinta, prostrata e fortemente scossa anche economicamente. Al problema del come ricostruire nel centro-Europa si affiancò, dunque, quello, già di per sé grave e difficile, del come ricostruire nella valle danubiana. L'unità asburgica aveva certamente assolto ad una sua funzione storica, non solo come baluardo della Europa cristiana contro i Turchi, fra '500 e '600, ma, dopo, anche come elemento civilizzatore e come organismo economico, che contemperava elementi varî e complessi. Sfasciatosi tale organismo unitario, come provvedere ad accordare, già solo sul terreno economico, interessi ora ben localizzati nei singoli stati nazionali sorti sulle rovine dell'impero?

Soprattutto preoccupante il problema era per l'Austria tedesca, incapace di vivere da sé economicamente, come stato indipendente, che o avrebbe trovato una via di accordi con gli altri stati successori degli Asburgo, o sarebbe stata fatalmente attratta, economicamente moralmente politicamente, verso il maggiore e vicino stato tedesco, la Germania. Nel qual caso la Germania, soccombente nel 1918, avrebbe vinto nel dopoguerra, e avrebbe, di colpo, riproposto il problema generale europeo, che, dal 1870 in poi, aveva avuto nome "egemonia della Germania" e che aveva coalizzato gli alleati del 1914-18. Ora, nemmeno in questa parte d'Europa può sostenersi che la politica postbellica riuscisse a trovar la via giusta.

Anche qui, anzi qui più ancora che altrove, odî profondi fra popoli, massime fra Ungheresi, mai dimentichi del trattato del Trianon e infaticabili nella loro propaganda "revisionistica" e Romeni e Iugoslavi. Nazionalismi esasperati, come in tutti i popoli giovani: ma se negli Iugoslavi, nei Cecoslovacchi, nei Romeni c'era una baldanzosa fiducia in sé e nel proprio avvenire che mancava, ormai, ai Francesi, con la politica francese v'era invece un punto fondamentale in comune, il timore di una qualche possibile restaurazione dell'antico ordine di cose, cioè, nella fattispecie, soprattutto di una restaurazione degli Asburgo in Austria o in Ungheria. Anche sul Danubio, dunque, come sul Reno, la politica degli alleati fu di conservazione dello status quo, di diffidenza e ostilità verso Austria e Ungheria: inibizione all'Austria dell'Anschluss con la Germania, già sancita nel trattato di pace di San Germano, ribadita nel 1921 al momento di tentativi di plebiscito in singoli paesi austriaci, e ancora da Francia e Cecoslovacchia nel 1931, al momento dei progetti di unione doganale austro-tedesca; veto contro una restaurazione asburgica, sia in Austria, sia in Ungheria. Ora una simile politica di divieti sarebbe stata logica qualora ci fosse stato, parallelamente, un indirizzo costruttivo, che, almeno sul terreno economico-finanziario, desse respiro all'Austria. Questo indirizzo, invece, non vi fu: donde il progressivo precipitare della situazione austriaca, che preparò il terreno favorevole alla propaganda hitleriana e all'Anschluss del 1938.

L'analogia di situazioni "difensive" spiega le connessioni intime tra politica francese e politica della Piccola Intesa, cioè tra posizioni diciamo renane e posizioni danubiano-balcaniche. Ma poiché la Società delle Nazioni era ferma, come s'è detto, su direttive precipuamente europee; poiché, d'altro lato, la Gran Bretagna, parte preoccupata dei suoi problemi economici, parte indecisa e oscillante fra una politica veramente e continuamente europea e i suoi interessi imperiali, parte, ancora, interessata come la Francia a che non si risollevasse la questione delle ex-colonie tedesche, alternava periodi di attrito con la politica francese e di marcato favore ad una ricostruzione della Germania, e periodi di maggior remissività nei confronti delle assai più consequenziarie e continue direttive francesi, ne venne che la politica generale s'irrigidì, da parte degli ex-alleati, su posizioni conservatrici e che la stessa Società delle Nazioni costituì, essenzialmente, un gendarme per la difesa dello status quo. Così, quando fu posta di fronte ai problemi più difficili, la Società delle Nazioni fallì alla prova.

Fallì - ed era naturale, dato il modo con cui era stata costruita - nelle questioni extraeuropee: in Estremo Oriente, dove fu incapace (dal 1931 in avanti) di impedire prima, di fermare poi il conflitto cino-giapponese, sebbene in tale occasione il governo degli Stati Uniti si dichiarasse pronto a "rafforzare" l'azione della Società (13 ottobre 1931); nella questione del conflitto fra Paraguay e Bolivia per il Chaco (1933), che fu poi risolta, fra il 1935 e il 1938, dai soli stati americani, completamente al di fuori della Società.

Ma fallì pure nelle questioni che erano d'importanza capitale per l'evoluzione pacifica della stessa vita europea. L'art. 8 del patto societario aveva previsto "la riduzione degli armamenti nazionali al minimo compatibile con la sicurezza nazionale e con l'esecuzione degli obblighi internazionali imposti da un'azione comune"; del disarmo si discusse molto e il 2 febbraio 1932 si aperse a Ginevra un'apposita conferenza, con l'intervento di sessanta governi, rappresentanti 1700 milioni di uomini. Ma la conferenza, che continuò i suoi lavori fino al novembre 1934, non concluse nulla, rivelando invece ancor più pienamente l'attrito tra Francia che, appoggiata da Polonia e Cecoslovacchia (il sistema "difensivo" operante), parlava prima di "sicurezza" e poi di disarmo, e la Germania che chiedeva la parità di diritti.

L'art. 19 del patto societario prevedeva un riesame "dei trattati divenuti inapplicabili così come delle situazioni internazionali, il cui sussistere potrebbe mettere in pericolo la pace del mondo": ma ogni tentativo revisionistico dei trattati del I919-20 fu sempre respinto.

La Società delle Nazioni si rivelava così cristallizzata, da un lato, su posizioni conservative che le impedivano di funzionare per coordinare le immobili situazioni di diritto e le situazioni di fatto in continua evoluzione, e così andar oltre il puro e semplice mantenimento dello status quo; mentre poi, di fronte ad atti rivoluzionarî e sovvertitori dei principî stessi ch'essa avrebbe, invece, dovuto difendere ad ogni costo (inammissibilità del ricorso alla guerra, aggressioni, ecc.), dimostrò una completa incapacità di azione. Conservatrice nei principî, finì con chinare il capo di fronte ai fatti compiuti; del che, appunto, il primo grave esempio fu dato dal conflitto cino-giapponese per la Manciuria.

Un solo tentativo, largo e generoso, fu fatto in quegli anni per risolvere, su un piano nuovo, i problemi che si andavano sempre più aggrovigliando: ispirato dal francese Briand, che nel settembre 1929 lanciò a Ginevra l'idea di una federazione europea, riprendendola con il memorandum del 17 maggio 1930 e con il gran discorso dell'11 settembre 1930, alla Società delle Nazioni. Unione europea nel quadro generale della Società delle Nazioni, per provvedere più efficacemente alle questioni europee; basata in un primo tempo su di una "Conferenza europea" con comitato politico permanente, per tendere, anzitutto sul piano politico, ad una federazione, e poi, sul piano economico, ad un riavvicinamento delle economie europee.

Ci fu, naturalmente, una commissione di studio: ma nel settembre 1931 il progetto Briand venne seppellito, e su di esso si riversarono le facili ironie dei cosiddetti "realisti", che tacciavano di utopia piani consimili, senza avvedersi che il loro realismo stava conducendo alla rovina l'Europa tutta e i singoli paesi europei.

Ma fallì anche un progetto di poco posteriore, di diversissima intonazione, e fondato precisamente sulla constatazione, certo esatta, che la Società delle Nazioni era impotente e che a condurre il gioco eran sempre le grandi potenze, come ai tempi di Castlereagh e di Metternich: il "patto a quattro", proposto da Mussolini nel 1933, per cui le quattro potenze occidentali (Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania) s'impegnavano a realizzare fra loro un'effettiva politica di collaborazione per il mantenimento della pace, con l'impegno di non ricorrere alla forza, riconfermavano il principio della revisione dei trattati di pace, e riconoscevano alla Germania parità di diritti anche per gli armamenti. Era, insomma, una "tetrarchia", in cui riviveva lo spirito della "pentarchia" europea di dopo il 1818 e del concerto delle sei grandi potenze di dopo il 1870. Ma diffdenze e timori, soprattutto per l'affermazione del principio della revisione dei trattati (allarme in Francia e proteste della Piccola Intesa); suscettibilità nazionali ferite dal vedersi escludere dal novero delle grandi potenze (Polonia), preoccupazioni turche e russe, resero inoperante il progetto, anche se formalmente il patto venne firmato a Roma il 15 luglio 1933.

Così, dunque, la Società delle Nazioni, di fatto tutta accentrata sui problemi europei, si dimostrava incapace di andar oltre le posizioni iniziali, senza essere in grado ad un tempo, di far rispettare, occorrendo con la forza, almeno il suo conservatorismo. Era l'incentivo ad una politica di forza, alla politica dei fatti compiuti, da parte di chi non intendesse più accettare le situazioni del 1919.

Ora, lo spirito di forza era già una delle realtà dell'Europa del dopoguerra. Proseguendo un'evoluzione spirituale iniziata dal 1870 con il trionfo della Prussia e del bismarckismo, sempre più gli ideali eran quelli della potenza e del numero, e sempre meno quelli, ottocenteschi, della libertà e della pace. E lo si vide anche nel campo della politica interna, dove il periodo successivo al 1919 vide affiorare largamente aspirazioni a sistemi di governo che concedevano assai meno, e anche niente, alle vecchie libertà democratiche e alla signoria del parlamento, e più alla "sicurezza" interna, all'ordine, alla tranquillità.

Come la "sicurezza" era il motivo fondamentale delle preoccupazioni conservatrici in fatto di politica internazionale, così lo diveniva, in più d'un paese, anche in politica interna: dove il pericolo si chiamava, ora, pericolo bolscevico, propaganda comunista, scioperi a catena, disordini, tumulti, ostacoli all'attività quotidiana della nazione. Come in politica internazionale, anziché nella pace tranquilla vagheggiata nei duri anni fra 1914 e 1918, salutata con tripudio all'annunzio della fine delle ostilità, gli uomini si trovavano immersi ancora in un'era di preoccupazioni, diffidenze, odî; così in politica interna svaniva il miraggio di una vita nuovamente simile a quella precedente al 1914, per lasciar luogo ad una vita più dura economicamente, più agitata politicamente e con l'ansia di possibili più gravi rivolgimenti.

Quando poi ad un simile stato d'animo si unisse il risentimento e il dolore per la "patria" misconosciuta ed offesa, e - come si disse - non saputa abbastanza difendere da governi deboli, "rinunciatarî", il risultato era l'avvento di regimi dittatoriali, o, come si disse con termine nuovo, "totalitarî", e cioè la rinuncia alla libertà politica per aver ordine in casa e grandezza al di fuori. Questo successe primamente in Italia, con l'avvento del fascismo.

L'Italia era, certo, fra le nazioni vincitrici, di fatto oltre che di nome; e la scomparsa dell'Impero asburgico avrebbe potuto creare ad essa, con un'accorta e lungimirante politica verso le nazioni eredi di quell'impero, una situazione di "sicurezza" continentale quale la Francia non avrebbe mai potuto avere, con l'incubo tedesco sempre risorgente. Ma, anche a prescindere dal fatto che a tal politica danubiano-balcanica l'Italia non era preparata, avendo voluto sin quasi all'ultimo, coi suoi uomini di governo, non sfasciare l'impero asburgico, bensì semplicemente chiudere la vecchia questione delle terre irredente; che, perciò, eccettuata la breve parentesi Giolitti-Sforza, i rapporti con gli stati successori, e segnatamente con la Iugoslavia, furono burrascosi, determinando irrigidimenti nazionalistici e sospetti italiani, ma, non meno, impuntature ed eccessi sciovinistici iugoslavi; a prescindere anche da questo, molti Italiani si convinsero che erano stati defraudati della vittoria. Accesa propaganda nazionalistica, da un lato; dall'altro, meschina incomprensione negli alleati delle aspirazioni italiane diedero credito alla frase della "vittoria mutilata".

Ora, non v'è dubbio che risolta vittoriosamente la questione delle terre irredente, e con ciò chiuso l'ultimo problema politico specifico tramandato dal Risorgimento, si poneva in primo piano un tutt'altro problema, già lentamente maturatosi fra 1870 e 1914: il problema, cioè, mediterraneo e coloniale. Tanto più si poneva, con l'iniziantesi limitazione della libertà di scambî internazionali di cui s'è parlato, la quale incideva subito gravemente sulla vita italiana, con i provvedimenti restrittivi sull'immigrazione adottati dagli Stati Uniti e da altri paesi. Il costante saldo passivo della sua bilancia commerciale l'Italia lo aveva coperto, sino allora, in gran parte grazie alle rimesse degli emigranti. Ora, ciò veniva a mancare quasi completamente: prima ancora delle tariffe Hawley-Smoot, che colpivano la produzione europea, e degli accordi di Ottawa, che colpivano la produzione continentale, l'Italia, come altre zone economicamente non di primo piano, subì nella sua emigrazione, e cioè in una fonte essenziale della sua ricchezza, il contraccolpo immediato del calarsi di paratie stagne su vaste zone del globo. Saturazione demografica; attrezzatura industriale, che aveva fatto progressi giganteschi in un cinquantennio, ma non era ancora in grado di competere - salvo i tessili - con l'attrezzatura di paesi come Germania, Inghilterra, Francia, anche per la mancanza di materie prime; necessità di trovar rimedio ai bisogni economici di una nazione in piena crescita: questi erano problemi vivi e reali, non certo inventati dal fascismo. In una diversa situazione generale, economica e politica, europea e mondiale, tali problemi avrebbero potuto trovar non difficile soluzione; nella situazione che, dopo il 1919, e soprattutto dopo il 1930, si presentò di fatto, la soluzione basata sui principî ottocenteschi della libertà di scambî, di uomini e di merci, divenne quanto mai problematica. Si presentò dunque come soluzione l'alternativa di costituire un mercato autosufficiente, tra madrepatria e dominî coloniali.

Ma su questo punto il "revisionismo" italiano s'urtò contro il conservatorismo anglo-francese. E anche qui si parlò da ultimo, alla vigilia del 1939, di far accedere, a parità di condizioni, tutti i paesi ai mercati di rifornimento delle materie prime, di "porta aperta" a tutti, economicamente, nelle colonie degli stati europei: dove la porta aperta economica avrebbe potuto, in effetti, far accantonare l'aspetto puramente politico della questione, la conquista militare. Ma anche qui nulla fu fatto: e il problema dei possedimenti coloniali per trovar sfogo ad una situazione economica difficile, si continuò a porre nei vecchi termini di dominio anzitutto politico, e perciò di azione di forza.

A dare un particolare e acre tono a simili questioni fu, certo, determinante il fatto del fascismo. Che era, anzitutto, senso della forza, all'interno come all'esterno; aspirazione a grandezza, politico-militare in primo luogo, non bastando più il primato civile e morale del Gioberti e l'iniziativa a pro' dell'umanità del Mazzini. Nazionalismo, cioè: come tutti i nazionalismi, sospettoso e ombroso assai più del necessario, contro i vecchi precetti di Cavour pronto a cogliere il minimo episodio per impiantarvi su una questione di dignità e di "prestigio" nazionali, tratto istintivamente ad "odiare" gli altri e, riprendendo un vecchio detto dell'Alfieri, ad affermare la necessità degli "odî" nazionali perché una nazione potesse vivere e grandeggiare. Nazionalismo: e perciò vagheggiante le soluzioni di forza e di potenza militare, di per sé, come le uniche atte a consacrare la grandezza di un paese; e perciò tratto istintivamente a trasformare una questione ben precisa, e sia pur grave e difficile come quella di cui s'è parlato, in una questione di opposizione generale ad altre grandi potenze, a trasformarla in una rivalità complessiva ed assoluta per il predominio politico sul Mediterraneo, a spostare addirittura il centro della politica italiana su questi problemi anche a costo di sacrificare - come avvenne - la sicurezza continentale dell'Italia, perdendo sicuramente sulle Alpi nella speranza di acquistar sulla sponda africana.

S'aggiunga la fatale necessità per un governo dittatoriale di tener avvinto l'animo del popolo a miraggi di grandezza e di gloria esterna, onde fargli scordare la libertà; infine, il particolare carattere di Mussolini, impulsivo e a scatti, le sue personali ambizioni, il suo temperamento ostinatamente polemico e tratto, quindi, ad aggravare polemicamente ogni questione, quasi che chi le dibatteva fosse ancora un pubblicista e non un capo di governo. Ne derivarono l'acuirsi del contrasto tra Italia e Francia e poi anche Inghilterra; la politica balcanico-danubiana dell'Italia a favore di Albania e Ungheria, e quindi l'assurgere del sistema Francia-Piccola Intesa anche a funzione antitaliana, oltre che antitedesca e antiungherese, e il generalizzarsi della mentalità "difensiva" dal Reno al Mediterraneo.

La situazione europea cominciava a caricarsi così di elementi che sfuggivano al calcolo razionale della politica e diventavano sentimenti e passioni, vale a dire ciò che è più difficilmente controllabile, una volta scatenato. Le polemiche di stampa italo-francese, italo-iugoslava fra il 1926 e il 1930; il discorso di Mussolini a Livorno l'11 maggio 1930 erano documenti della acre passionalità con cui i problemi anche capitali di una politica estera divenivano oggetto di polemica pubblica, di piazza, aggravando così la situazione.

Ma la nota decisiva, a tal riguardo, fu il nazismo a portarla. Che i Tedeschi, fin dal 1919, avessero sognato una Germania nuovamente potente, non era un mistero; che la Reichswehr, contrariamente a quanto s'erano ripromessi gli alleati col trattato di Versailles, lavorasse in silenzio, ma con una energia mirabile, sotto la guida del von Seeckt, per divenire lo strumento efficace di una nuova grande Germania, anche questo era notissimo. Il metodo conciliante di Stresemann non impediva, certo, che anche Stresemann avesse, come scopo supremo, il rifiorire della sua patria.

Ma il nazismo fu altra cosa. Principî proclamati e stile nella condotta politica diedero, netta, subito, la sensazione all'Europa e al mondo dell'inizio di un nuovo periodo. All'interno, il Führerprinzip applicato con una consequenziarità e rigore di cui nemmeno il fascismo aveva, fin allora, dato prova; e l'affermazione categorica del principio razziale, che riassumeva senza dubbio in sé motivi tutt'altro che sconosciuti al pensiero e all'animo germanico, anche se non erano ancora mai stati eretti a principio giuridico e politico. Verso l'estero, appena il regime fu consolidato, il principio della "comunità di sangue", che voleva dire l'ipoteca sulle terre abitate da Tedeschi e non comprese nel Reich (se ne vide subito un'applicazione nel Putsch nazista di Vienna, il 25 luglio 1934); successivamente, il principio del Lebensraum, dello spazio vitale, che apriva indefinite, pericolose prospettive. Con ciò, con il tono guerriero di Hitler, con i continui appelli al senso militare, alla grandezza, alla potenza (anche qui, in parte per le necessità interne delle dittature), nella vita europea veniva immessa la psicosi di guerra.

Né era solo questione di stile, di metodo, di apparenza. In realtà il programma hitleriano andava assai oltre le aspirazioni dei dirigenti tedeschi della repubblica di Weimar; era altra cosa dalle attese di uno Stresemann, di un Brüning. Altro era infatti voler il ristabilimento della Germania su posizione di parità, formale e sostanziale, con gli ex-nemici; altro era sognare nuovamente, come faceva Hitler, il predominio della Germania sull'Europa. La stesse motivazioni ideologiche a cui il nazismo ricorreva -quella razziale, fondamentale in esso, mentre solo tardi, e sotto l'influsso anzi addirittura la pressione tedesca, divenne accessoria nel fascismo - conducevano non ad un semplice ristabilimento dei diritti proprî, bensì alla compressione dei diritti altrui. Non la Germania pari agli altri, ma la Germania superiore agli altri; non la Germania che si risolleva dalla situazione di Versailles, bensì la Germania che impone una Versailles agli altri. La dottrina della razza giustificava l'affermazione della superiorità tedesca; la dottrina dello "spazio vitale" legittimava il rinato spirito di conquista. Non per nulla il contrasto ideologico fu così assoluto e totale; non per nulla il problema generale ideologico, libertà contro dittatura, assunse proporzioni gigantesche, mondiali, soprattutto dopo l'avvento del nazismo al potere. C'era bensì stata, prima, la lotta dell'antifascismo contro il fascismo, in Italia e fuori; ma occorre anche riconoscere che, a prescindere dagli ambienti di sinistra francesi, l'eco internazionale di essa era stata piuttosto modesta. S'eran anzi visti uomini di governo, scrittori, pubblicisti stranieri, soprattutto inglesi, approvare il fascismo in Italia, come garanzia di ordine e lavoro tranquillo.

Con il nazismo trionfante le cose cambiarono. Né era solo perché la Germania pesava, pur sempre, assai più dell'Italia sulla situazione generale; o perché la lotta sistematica contro gli Ebrei tedeschi destava l'immediata solidarietà internazionale di tutti i gruppi ebraici, potenti in Francia, Inghilterra e America, e acuiva quindi subito il tono della polemica anti-dittatoriale. Ma era anche perché nelle dottrine del nazismo s'avvertiva, anche se più o meno chiaramente, un pericolo generale di ben altra portata per tutto l'ordine europeo. Il fascismo, in fondo, era rimasto ancora sul piano dei regimi dittatoriali di ottocentesca memoria: tratto, quindi, a far della grandezza e dignità della patria un frequente motivo di appelli al popolo; capace, come una volta Napoleone III, di prestar compiacente orecchio alle voci di gloria militare e alla diana guerriera. Ma i motivi erano, sempre, quelli noti: patria, nazione, grandezza militare, l'appello alle glorie passate, Roma antica. Era nazionalista; ma, nonostante tutte le polemiche e i discorsi, non era assolutamente avverso alle soluzioni diplomatiche, di compromesso, come dimostrava la stessa politica estera fascista, una volta chiuso l'episodio di Corfù, sino al 1935, e dimostravano l'atteggiamento di Mussolini nel 1934 e 1935, gli accordi italo-francesi del gennaio 1935 e il "fronte di Stresa" italo-franco-inglese (aprile 1935), che era in funzione nettamente antigermanica.

La dittatura hitleriana era, invece, ormai qualcosa di assai diverso dalla dittatura di stile bonapartiano. Le premesse ideologiche (razza) la conducevano su di un piano totalmente diverso dalle premesse della civiltà occidentale, francese e italiana, che nemmeno le dittature avevano osato mai ripudiare: la nazione diventava la stirpe, il ceppo etnico, acquistando così una forza di pressione fatale, meccanica, simile a quella, appunto, di un organismo naturale. Le vecchie idee germaniche sul "popolo di dominatori" (Herrenvolk), mentre i popoli inferiori devono essere le api operaie che lavorano per lui, si trasformavano da affermazioni culturali in programma politico: e lo spirito di dominio che ne derivava era assai diverso dal vecchio nazionalismo francese e italiano, e perfino dal vecchio pangermanesimo. Non ci si appellò alle vecchie glorie del passato, spesso, anzi, ripudiate o diminuite (perfino un Bismarck ebbe critici severi, perché, dopo il'66, non aveva voluto la "grande Germania"): non ve n'era bisogno, perché la premessa giustificante la missione del nuovo Reich trionfante non era riposta in una tradizione creata dagli uomini, bensì nel "sangue", cioè in un fattore naturalistico e indipendente anche dal volere umano.

Gli stessi programmi di autarchia economica assunsero nuovo significato: erano stati dettati un po' ovunque, nel mondo, da preoccupazioni economiche, giuste o sbagliate che fossero; col piano quadriennale tedesco del settembre 1936, diventavano aperto programma politico, che muoveva dal presupposto della guerra inevitabile e "quindi" dalla necessità di esser il più possibile indipendenti da importazioni estere.

La situazione politica non era facile, di per sé: troppi problemi eran rimasti insoluti, da Versailles in poi, e la responsabilità pesava largamente, per questa parte, sulle spalle degli ex-alleati, Francia e Inghilterra, e della Società delle Nazioni. Ma ora, l'atmosfera si intossicò; e da tale intossicazione si giunse alla nuova guerra.

Si è più volte detto, dalla stampa dell'Asse, che erano gli imperialismi mondiali a condurre alla catastrofe; che interessi e bisogni dei poveri stati europei eran travolti in un colossale giuoco mondiale, di cui erano protagonisti Stati Uniti, Inghilterra, Russia, Giappone, e di cui gli Europei avrebbero fatto le spese. Si parlò della corsa all'oro nero, dei conflitti per l'accaparramento dei bacini petroliferi, di battaglia per il dominio della Cina, dell'Asia, del Pacifico; si additarono nei grandi gruppi capitalistici mondiali, in Wall Street, quando non addirittura nei "mercanti di cannoni" i promotori della nuova storia, anche sulle rovine e sul sangue della vecchia Europa. In altri termini, la seconda Guerra mondiale avrebbe avuto a ragion d'essere l'urto fra gl'imperi e gl'interessi mondiali, e a semplice pretesto i piccoli affari europei.

In verità, accadde precisamente l'opposto. Non furono i contrasti mondiali a scatenare la guerra in Europa; furono i contrasti europei a provocare il conflitto poi divenuto mondiale.

Non certo che quei contrasti mondiali non esistessero: basti pensare ai rapporti fra Stati Uniti e Giappone. Non certo che la lotta dei grandi gruppi capitalistici per l'accaparramento dei mercati fosse una fantasia. Ma tutte queste eran forze non ancora in movimento politico, per così dire: e basti pensare proprio alla politica americana, così incerta e priva di linee direttive precise almeno fino al 1937 e al discorso di Roosevelt sulla necessità di un'intesa fra le nazioni pacifiche per mettere in "quarantena" gli stati aggressori, dove si delineò chiaramente la concezione rooseveltiana del conflitto generale fra democrazia pacifista e totalitarismo aggressore (Chicago, 5 ottobre 1937); all'impreparazione militare degli Stati Uniti, i quali, dopo di aver già abbandonato ai Giapponesi, nei trattati di pace, le isole Marianne e Caroline, cioè un punto di vitale importanza strategica nel Pacifico, avevano rinunziato pure a lavori di fortificazione nelle Filippine e a Guam, cioè negli avamposti di una eventuale difesa americana.

Il primo legame fra posizioni europee e posizioni extraeuropee venne, semmai, proprio per iniziativa della Germania quando Inghilterra e Stati Uniti erano ben lontani dall'avere una linea comune d'azione in Cina, vale a dire nel massimo centro di competizioni mondiali: e fu il Patto anticomintern fra Germania e Giappone (25 novembre 1936; l'Italia vi aderì il 6 novembre 1937), che aveva il valore di un'alleanza di fatto tra i due paesi e quindi una funzione non solo antirussa, ma anche antiamericana.

Si deve anzi dire che, rispetto alla stessa prima Guerra mondiale, minori erano, all'inizio della seconda, i punti d'attrito mondiali fra i belligeranti: ché, allora, la rivalità anglo-tedesca aveva veramente assunto proporzioni mondiali, ed era, di fatto, già lotta non solo per il predominio in Europa, ma lotta per colonie e mercati fuori Europa, come documentava l'ultima fase dei rapporti prebellici anglo-tedeschi, e cioè la gara negli armamenti navali; mentre, ora, si trattava proprio soltanto ancora di una lotta per i rapporti di forze in Europa, anche se la Germania hitleriana aveva risollevato il problema delle colonie ex-tedesche. Allora, soprattutto per l'Inghilterra, abbattere la Germania significava anche abbattere un pericoloso rivale extraeuropeo; ora, la minaccia extraeuropea (colonie, ecc.) era ancora assai di là da venire.

È dunque nei rapporti politici europei e nell'atmosfera creatasi in Europa, nella quale parte essenziale assunsero, dopo il 1933, i motivi ideologici, che va ricercata l'origine del nuovo conflitto. Ancor contenuta nei primi tre anni, con l'insuccesso del primo tentativo sull'Austria e l'accordo anglo-franco-italiano, l'azione di Hitler poté invece svilupparsi pienamente dopo che l'impresa dell'Italia in Etiopia ebbe staccata l'Italia dal gruppo delle potenze occidentali. Ancora una volta, in quel momento capitale, si rivelarono tutti gli errori, le incapacità e le contraddizioni che già da un quindicennio avevano viziato la politica degli stati conservatori.

L'intervento diretto dell'Inghilterra, che nel settembre del 1935 inviò la Home Fleet nel Mediterraneo, a guisa di aperta pressione sull'Italia, fu un gesto infelicissimo, che rivelò, apertamente, un contrasto d'interessi ben preciso, diminuì quindi d'assai il valore delle proteste per la santità dei trattati violata, ed ebbe per unico risultato quello di render popolare in Italia e di dar aspetto di guerra nazionale ad un'impresa coloniale che sino a quel momento aveva trovato tutt'altro che entusiasti gl'Italiani. Viceversa, poi, anche l'invio della Home Fleet era un bluff, perché la potente flotta britannica non era in grado di affrontare un cimento bellico, in quei giorni. Analogamente, la Società delle Nazioni votò le sanzioni (2 novembre 1935), ma senza spingerle a fondo (embargo sul petrolio, discusso ma "messo allo studio").

Incapacità di prevenir i conflitti, rimuovendone per tempo le cause; incapacità di far rispettare, almeno, il proprio statuto e il proprio conservatorismo.

Fu una prova decisiva per la Società delle Nazioni; e fu la sua sconfitta, sancita dalla stessa assemblea societaria il 4 luglio 1936, con il voto che poneva fine alle sanzioni. L'immediata conseguenza fu il primo gesto di forza della Germania, che il 7 marzo 1936 dichiarò, motu proprio, decaduto il patto di Locarno e procedette alla rioccupazione militare della Renania. Seguirono, nell'estate, le dichiarazioni ufficiali del riarmo tedesco.

La seconda conseguenza fu l'asse Roma-Berlino (ottobre 1936 e dichiarazioni Mussolini a Milano, 1° novembre). Cioè, l'Italia che abbandonava la sua politica "continentale" ancora seguita nel 1934 (e cioè difesa dell'indipendenza dell'Austria, lasciando qui fatalmente mano libera, tosto o tardi, a Hitler, come si vide nel marzo 1938), per la sua politica mediterraneo-coloniale, che nonostante il gentlemen's agreement italo-britannico (2 gennaio 1937), doveva necessariamente schierarla contro le potenze occidentali.

Perfino un Crispi, non sospetto di tendenze antigermaniche, aveva, ai suoi tempi, pensato che sarebbe stato non conveniente affatto per l'Italia aver sulle Alpi, a diretto contatto, un potente impero tedesco; l'invio immediato di truppe al confine del Brennero e della Carinzia, al momento del putsch di Vienna (luglio 1934), aveva obbedito a preoccupazioni dello stesso genere. L'abbandono di tali direttive e la nascita dell'Asse, di poco seguita dal patto anticomintern fra Germania e Giappone, aprirono l'ultima fase di storia europea prebellica. La materia esplosiva, sino allora accumulata essenzialmente sulle rive del Reno e del Danubio, s'accumulò anche nel Mediterraneo: di che fu prova la guerra di Spagna, con l'aperto intervento italo-tedesco a favore di Franco da una parte, e dall'altra la costituzione delle brigate di volontarî internazionali per la causa della libertà. Si è detto che la guerra di Spagna, fra il 1936-39, ha costituito la prova generale della seconda Guerra mondiale: ciò è vero, anche nel senso che l'urto d'ideologie, di cui si è parlato, qui per la prima volta si concretò sul terreno bellico, accanto ai precisi interessi di governi.

Tale guerra condusse anche Hitler ad accelerare i suoi piani. In una seduta del 5 novembre 1937 egli aveva esposto il proprio programma per l'avvenire ai ministri degli Esteri e della Guerra, ai comandanti dell'esercito, della flotta e dell'aeronautica: la conquista della Cecoslovacchia e dell'Austria, tappe necessarie per le esigenze dello "spazio vitale" germanico, avrebbe dovuto esser compiuta al più tardi entro il 1943-45, salvo ad accelerare i tempi in determinate ipotesi; la guerra di Spagna doveva prolungarsi; incoraggiando l'Italia a restare nelle Baleari, si sarebbe reso inevitabile un conflitto tra Italia e Francia, nel quale la Germania non sarebbe intervenuta che dopo la Gran Bretagna, essendosi in precedenza impadronita della Cecoslovacchia.

Gli eventi furono, in realtà, ancora più rapidi. La congiuntura internazionale favorevole all'Asse, fra il 1937 e il 1939, permise a Hitler di bruciar le tappe. Anschluss dell'Austria, nel marzo del 1938; occupazione tedesca dei Sudeti, nell'ottobre 1938, sancita a Monaco dagli stessi primi ministri di Francia e Inghilterra; occupazione tedesca di Praga, della Boemia e della Moravia (marzo 1939): infine ultimatum tedesco per Danzica e il corridoio polacco, e il 1° settembre 1939 l'inizio della nuova guerra.

La guerra scoppiò, dunque, per questioni europee, ad opera di potenze europee. Ma, scoppiata, allora veramente tutti gl'interessi mondiali, di potenze anche non europee, vennero coinvolti; allora, fatalmente, il conflitto dilagò e assunse l'aspetto di una contesa per il dominio del mondo: in ciò potentemente premendo anche quei motivi ideologici, di fede politica, di cui s'è già fatto cenno. Donde, il carattere di crociata per la libertà che il conflitto assunse, contro le dittatoriali potenze dell'Asse; donde i principî della Carta Atlantica e la propaganda di guerra anglo-americana; donde, quei drammatici, dolorosi e violenti contrasti interni in parecchi dei paesi combattenti, che han dato all'ultimo conflitto un così singolare carattere. Nella prima Guerra mondiale l'idea di patria aveva infatti dominato: l'internazionale socialista non aveva funzionato, socialisti francesi e socialisti tedeschi avevano fatto - salvo eccezioni - causa comune con i loro compatrioti, contro i compagni "stranieri" di parte politica. Nella seconda Guerra mondiale invece, profondi i contrasti interni in quei paesi entrati in guerra con regimi dittatoriali o sottoposti poi, per vicende belliche, a regime di occupazione tedesca: governi Quisling e cosiddetto collaborazionismo da una parte, resistenza e movimento partigiano dall'altra. Così in Norvegia e Francia; e in Italia, dove l'opposizione alla dittatura e l'anelito alla libertà e lo spirito di rivolta contro la rovinosa avventura in cui il paese era stato travolto trovarono la loro piena espressione nel periodo successivo all'8 settembre 1943 e nella guerra partigiana. Nella stessa Germania, non mancarono resistenze e complotti e tentativi di rovesciare il regime, uccidendo Hitler. Patria e libertà erano stati termini indissociabili nel pensiero soprattutto dell'Ottocento italiano; non v'è patria senza libertà, aveva proclamato Mazzini. Uniti i due termini, s'era avuto, appunto, il 1914-18: vale a dire l'unione sostanziale degli animi. Dissociati i due termini, anzi contrapposti, s'ebbero le vicende del 1940-45.

Ma non erano evidentemente solo questioni ideologiche a far del conflitto tedesco-franco-inglese del 1939 il punto di partenza della nuova guerra mondiale. Ora, anche i paesi, come gli Stati Uniti, che per un ventennio o quasi avevano creduto nell'isolazionismo, s'accorsero che isolazionisti nel mondo moderno non si può più essere; sentirono la minaccia su due fronti, sull'Atlantico, con la Germania padrona dell'Europa centro-occidentale, sul Pacifico, con il Giappone alleato di quella stessa Germania, mentre ancora fra Inghilterra e Stati Uniti non s'era nemmeno raggiunto l'accordo per una direttiva comune in Cina. (Il 22 luglio 1939, con l'accordo Arita-Craigie, l'Inghilterra aveva riconosciuto i bisogni speciali delle forze giapponesi in Cina per la propria sicurezza; gli Stati Uniti, invece, il 26 luglio denunciavano il loro trattato di commercio e di navigazione col Giappone). Ancor più direttamente minacciato, nonostante l'accordo Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), l'altro complesso mondiale, l'URSS, per il quale l'egemonia della Germania nell'Europa, a parte anche le questioni ideologiche e l'anticomunismo professato dal nazismo, significava, a breve scadenza, una lotta mortale, non foss'altro che per le questioni del Baltico e dell'Ucraina.

Così gli "interessi mondiali" si trovarono fatalmente coinvolti nella guerra, che vide quindi scender in campo successivamente Russia, Giappone e Stati Uniti. Con ciò, anche, si segnarono le sorti della guerra e dell'Europa: della guerra, il cui peso decisivo, nel campo degli Alleati, cioè dei vincitori, sopportato "difensivamente" prima dalla sola Inghilterra, poi da Inghilterra e Russia, fu "offensivamente" sostenuto soprattutto da Stati Uniti e Russia; dell'Europa, perché la preponderanza militare dava posizione di predominio precisamente a Stati Uniti e Russia, fra cui la Gran Bretagna, in grazia della sua forza imperiale, poteva ancora inserirsi, ma non più a parità vera di potenza.

Già nel 1943, in piena guerra, uno dei più acuti scrittori politici americani, Walter Lippmann, affermava che "alla fine di questa guerra, se riusciamo a distruggere la potenza militare della Germania e del Giappone, esisteranno nel mondo solo tre grandi stati militari: l'Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti" (La politica estera degli Stati Uniti, trad. ital., Torino 1946, p. 114). La profezia si è pienamente avverata, più ancora forse di quel che il Lippmann non pensasse. Le stesse forme tecniche assunte dalla guerra moderna, la meccanizzazione dei mezzi di combattimento, le nuove armi (bomba atomica, ecc.) esigono tale una potenza economica, tale una capacità di produzione industriale, da render impossibile ai vecchi stati europei di gareggiar con i grandi imperi mondiali. Per forte, preparata che fosse, la stessa attrezzatura industriale-militare della Germania non poté reggere all'urto con la strapotente organizzazione statunitense. Come già in altri periodi della storia dell'umanità, così anche ora l'evoluzione dell'arte della guerra incide, immediatamente e profondamente, sull'assetto politico e sui rapporti di potenza fra gli stati.

E mentre più costosa è divenuta la guerra, più legata alla potenza economica e alle risorse in materie prime di uno stato, i vecchi stati europei si sono ancora economicamente indeboliti. Il processo di decadimento economico dell'Europa di fronte alle altre parti del mondo, già percepibilissimo dopo la prima Guerra mondiale, dalla seconda Guerra è stato accelerato in modo pauroso.

Nessun indizio più evidente del fatto che, dopo il 1945, la stessa Gran Bretagna ha avuto e ha bisogno dell'aiuto finanziario nordamericano. Liquidato il suo portafoglio estero, per sovvenire alle necessità della guerra; dichiarata l'inconvertibilità della sterlina, la Gran Bretagna lotta coraggiosamente, anche con il regime della cosiddetta "austerità" per risollevarsi economicamente e finanziariamente; ma le posizioni d'una volta sono perdute per sempre. Tutta, d'altronde, l'Europa occidentale ha potuto evitar la fame solo grazie agli aiuti UNRRA, cioè dei paesi extraeuropei ed essenzialmente degli Stati Uniti; per la ricostruzione dell'Europa occidentale, i governi e gli uomini d'affari si fondano anzitutto sull'aiuto nordamericano (piano Marshall).

Alla decadenza economica, corrisponde la decadenza politica. E anche qui, il primo esempio viene dalla Gran Bretagna: il suo abbandono dell'India, l'antica "perla dell'Impero", ora costituita in due stati autonomi, è un atto il cui significato non può sfuggire a nessuno. E se il Commonwealth resta in piedi, è tuttavia certo che le vicende dell'ultimo conflitto hanno avvicinato assai taluni dei dominî agli Stati Uniti, come a potenza più vicina e più in grado di proteggere, eventualmente, i loro specifici interessi: così il Canada e l'Australia. In altri termini: è ancora cresciuta l'importanza della parte non europea del Commonwealth, a scapito di quella europea.

D'altra parte, anche i dominî coloniali di altre ex grandi potenze europee sono scossi e minacciati. Il fermento del mondo arabo, che comincia a trovar forme comuni di attività politica, come dimostrano le recentissime vicende della Palestina e la lotta antiebraica condotta, unitamente, da Siria, Transgiordania, Egitto, si ripercuote su tutto il Nord-Africa e fa nascere i movimenti separatisti nell'Algeria francese, incoraggia la ripresa di attività di Abd-el-Krim, il separatismo marocchino. La lotta dei bianchi contro i bianchi, cioè di europei contro altri europei, anche nelle colonie; gli eccitamenti che popolazioni indigene hanno avuto da parte di taluni Europei contro altri Europei, hanno scosso profondamente le fondamenta su cui nel sec. XIX gli Europei, il popolo "civile", avevano costruito il loro impero sui popoli "da civilizzare".

In tale situazione, protagonisti di storia rimangono, appunto, soltanto i grandi imperi mondiali, forniti di sufficienti risorse per poter dirigere e, al bisogno, costringere: gli Stati Uniti, l'URSS, e, già meno saldo, il Commonwealth britannico. Le due estremità della terra non sono più, come nel 1813 per Benjamin Constant, Inghilterra europea e Russia europea; sono veramente le due estremità geografiche del globo. Gli stati europei hanno fatto come l'apprenti sorcier: hanno evocato gli spiriti, e ne son rimasti prigionieri; cioè hanno, per questioni propriamente loro, scatenato un conflitto il cui risultato non poteva essere che il tramonto delle vecchie e la consacrazione di nuove forze storiche. Già con la prima Guerra mondiale questo era cominciato ad avvenire: ma allora, l'una di queste forze mondiali, l'URSS, era uscita dal conflitto esterno impegnata a fondo in un processo di rinnovamento totale della sua struttura interna, e quindi non in grado di pesare decisamente sulla politica internazionale, per parecchi anni, secondo le sue possibilità; l'altra, gli Stati Uniti, s'era trovata sbalzata ad una posizione di potenza per la quale non erano ancora cresciuti bastantemente né l'animo né la mente. Di qui, la fase di storia 1919-39, nella quale chi non aveva più la forza (stati europei) continuò ad agire come se avesse ancora la forza di un secolo innanzi.

Ora, l'uno di questi stati, sistemata la sua organizzazione interna, con il prestigio di una grande guerra brillantemente combattuta e vinta, ha buttato tutto il peso della sua forza sulla bilancia dei rapporti internazionali: basti pensare alla politica sovietica nell'Europa centrale, sino all'Elba e al Danubio, e nell'Europa balcanica.

L'altro, cresciuto ancora di forza e di prestigio, è ormai pienamente consapevole dei compiti suoi, s'è reso conto che l'"isolazionismo" stile sec. XIX gli è precluso dalla sua stessa posizione geografica e dalla sua stessa potenza economica: e anche qui, basti pensare al piano Marshall e al fatto che i capi del partito repubblicano (A. H. Vandenberg, Th. E. Dewey e il suo consigliere di politica estera, J. F. Dulles) si sono trovati pienamente d'accordo con l'amministrazione democratica (Truman-Marshall) sulla politica d'intervento in Europa. Le linee generali di una politica estera americana in tutto il mondo sono state, cioè, per la prima volta, sottratte alla competizione interna, elettorale, dei due grandi partiti storici americani, per divenir tradizione comune.

In simili condizioni, nei vecchi stati del continente europeo, negli ex astri di prima grandezza del firmamento politico internazionale, si cercano vie nuove, che assicurino per l'avvenire, se non più l'antico prestigio e dominio, almeno le possibilità di una ripresa, economica, morale e politica. L'idea degli Stati Uniti d'Europa è stata nuovamente e insistentemente caldeggiata da associazioni culturali e politiche, da uomini politici, da scrittori; primi tentativi si sono fatti per giungere a forme di cooperazione, almeno economica, che consentano di andar oltre l'antico e tragico "dogma della frontiera" (Benelux; progetto d'unione doganale franco-italiana).

E certo, appare difficile che la vecchia Europa, l'Europa classica dei popoli romano-germanici, tanto cara al pensiero e al sentimento del primo Ottocento, possa riaversi, ove non si modifichi radicalmente il modo stesso d'impostare i problemi politici ed economici e si voglia invece persistere a trattarli secondo i criterî consueti all'Europa domina gentium, ora che quest' Europa, nonché esser domina, è dominata.

Bibl.: Per una informazione generale sulle vicende 1919-39 si vedano, per la parte politica: L. Salvatorelli, Vent'anni fra due guerre, Roma 1941; anche, seppur meno ampio, E. Lipson, Europe in the XIXth and XXth Centuries 1815-39, 3ª ed., Londra 1946; M. Baumont, La faillite de la paix, 1918-39, Parigi 1946, nella collez. Peuples et civilisations. Il punto di vista sovietico è esposto nel III volume (1919-39), della Histoire de la diplomatie, diretta da O. Potiemkine e redatta da varî autori, trad. franc., Parigi 1947. Per la parte economica: A. Degli Espinosa, Una crisi e due guerre, Roma 1948, assai ricco di dati e con ampia bibliografia.

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