Europeismo

Enciclopedia del Novecento (1977)

Europeismo

Altiero Spinelli

* La voce enciclopedica Europeismo è stata ripubblicata da Treccani Libri, arricchita e aggiornata da un contributo di Giuliano Amato.

sommario: 1. La catastrofe del nazionalismo. 2. L'europeismo. 3. Il federalismo europeo. 4. Il funzionalismo. 5. Il confederalismo. 6. Le superpotenze e l'Europa. 7. La diffusione dell'europeismo. 8. Tappe e cicli della costruzione europea. □ Bibliografia.

1. La catastrofe del nazionalismo

Nel periodo che va dalla Rivoluzione francese alla fine della seconda guerra mondiale, la vita politica europea è stata un crogiuolo di idee e esperienze politiche molteplici e profonde: parallele, divergenti o convergenti, complementari o contraddittorie. Sarebbe probabilmente vano tentare di ricondurre a un unico comun denominatore i comportamenti politici che vanno sotto il nome di liberalismo, democrazia, autoritarismo, totalitarismo; capitalismo, socialismo, comunismo, sindacalismo; conservatorismo, radicalismo; nazionalismo, internazionalismo, ecc. Nei vari popoli e in momenti successivi della loro storia, la presenza di questi comportamenti è stata diversa, la loro intensità variabile, l'equilibrio reciproco spesso assai delicato e complesso. Ma senza alcun dubbio, uno fra questi comportamenti è stato alla lunga dominante in tutto questo periodo, crescendo di importanza da un decennio all'altro, da una crisi politica all'altra e diventando sempre più la struttura fondamentale della politica europea, nella quale tutti gli altri comportamenti e tutte le realizzazioni politiche hanno finito per calarsi e adattarsi. Intendiamo parlare del comportamento fondato sul principio dell'unità e sovranità nazionale. Esso può essere così formulato nei suoi aspetti essenziali: a) ogni nazione deve essere unita in un solo Stato; b) ogni Stato deve essere l'espressione politicà di una sola nazione; c) ogni Stato-nazione deve essere sovrano nelle sue relazioni interne e esterne, deve cioè essere all'origine di tutte le leggi cui i suoi cittadini devono obbedire, e essere superiorem non recognoscens rispetto a qualsiasi altro Stato o istituzione internazionale.

Per rendersi conto di quale sia stata la forza modellatrice di questo principio basta osservare i cambiamenti che esso ha operato nella struttura internazionale dell'Europa e in quella interna di ogni singolo Stato durante questo periodo. Se si confronta la geografia politica europea alla fine del XVIII secolo con quella del 1938, subito dopo l'annessione della regione dei Sudeti alla Germania, cioè del momento in cui il principio nazionale ha raggiunto la sua realizzazione quasi perfetta, si vede che all'inizio la maggior parte delle nazioni erano divise fra Stati separati, o convivevano con altre nello stesso Stato, che anche gli Stati più omogenei dal punto di vista nazionale avevano un assai scarso senso di una loro identità nazionale, che la sovranità di molti Stati era variamente limitata in un quadro imperiale, e che tutto ciò non era sentito come illegittimo o scandaloso. Centocinquanta anni dopo i due Imperi multinazionali, asburgico e ottomano, ultime incarnazioni degli Imperi romani d'Occidente e d'Oriente, erano scomparsi, le nazioni delle marche occidentali dell'impero russo erano diventate indipendenti, e l'Europa era composta di un insieme di Stati grandi e piccoli, tutti pienamente sovrani, ciascuno coincidente con una nazione. Naturalmente su quasi tutte le frontiere c'erano mescolanze nazionali diverse, ma ogni Stato perseguiva con tenacia una politica di denazionalizzazione e di assimilazione delle proprie minoranze etniche. Sole eccezioni erano l'URSS, che era riuscita a mantenere, rinnovandola, la struttura multinazionale dell'Impero zarista, il Belgio che non era riuscito a fondere in una le sue due nazioni, e - solo vero successo di un modello politico alternativo - la Svizzera, che aveva saputo passare dal regime delle quasi-sovranità cantonali a quello dell'unità federale, evitando il contagio nazionalista.

Alla progressiva affermazione della sovranità degli Stati-nazione verso l'esterno corrispondeva un crescente grado di integrazione politica dei cittadini di ogni nazione nel loro Stato. Politiche economiche assai coerenti avevano reso interdipendenti fra loro le varie regioni e classi, come mai lo erano state nel passato, e le relazioni economiche internazionali dapprima assai liberali, erano diventate progressivamente sempre più strettamente controllate dagli Stati, in modo da non permettere che l'interdipendenza economica transnazionale andasse oltre certi limiti giudicati pericolosi per la sicurezza nazionale.

L'attività educativa nazionale, coinvolgendo tutti i cittadini pochi anni dopo la loro nascita, e continuando in forme molteplici durante tutta la loro vita, nella scuola, nel servizio militare, nella stampa e poi nella radio, nella vita politica, nelle misure di sicurezza sociale, era stata un immenso ‛lavaggio dei cervelli' che aveva inculcato la supremazia dei valori della propria nazione. L'apparato amministrativo dello Stato, preciso e efficace, era penetrato progressivamente in tutte le manifestazioni della vita nazionale, mantenendole unite e convergenti. Interessi, ambizioni e paure di ogni singola nazione non potendo, in un sistema di Stati sovrani, essere tutelati che dalla potenza militare, una corsa agli armamenti nazionali si era progressivamente sviluppata in Europa, facendo di essa il più caotico ma anche di gran lunga il più possente complesso di potenze militari esistente nel mondo.

Che questo sistema di forti e quasi mistiche integrazioni politiche nazionali, di crescente - e anch'essa quasi mistica - disintegrazione di ogni senso di solidarietà transnazionale, dovesse concludersi in una catastrofe era, per così dire, iscritto nelle cose e negli animi. Presi a uno a uno nessuno dei numerosi motivi di conflitto esistenti fra gli Stati europei era, nel 1914, così grave da giustificare una guerra così generale e spietata come quella che scoppiò allora. Ma ciascun motivo veniva a rafforzare la tumida volontà di potenza che si era sviluppata negli Stati-nazione europei, e che li spingeva a' dare prova della loro potenza a se stessi e agli altri.

Nel 1914 ebbe così inizio la lunga guerra civile europea che durò fino al 1945, si scandì nel conflitto armato del 1914-1918, nell'interludio di rivoluzioni, controrivoluzioni, tirannidi e crisi economico-sociali del 1919-1939, e nel secondo conflitto armato del 1939-1945. Poiché l'Europa era allora il centro della potenza militare, economica e politica del mondo, questo fu coinvolto nelle due guerre, ed esse ebbero conseguenze immense non solo per gli Europei, ma per l'umanità tutta intera.

La prima guerra mondiale, giustamente chiamata da Benedetto XV l'‟inutile strage", mostrò a una minoranza europea l'assurdità del sistema delle sovranità nazionali, ma alla grande maggioranza dei popoli e delle forze politiche impartì una lezione esattamente contraria. Avendo rivelato la capacità dello Stato-nazione di organizzare in una gigantesca macchina amministrativa e propagandistica tutte le riserve umane e materiali della nazione e di ottenere lealismo e abnegazione totali da parte dei suoi cittadini, la guerra aveva esaltato il senso del valore supremo di questa struttura politica. Il disfacimento dei tre Imperi, austriaco, turco e russo, sembrò quasi una controprova della superiorità politica degli Stati-nazione, i quali tutti, vincitori e vinti, uscirono dalla prova col senso di aver superato con successo un tremendo giudizio di Dio. L'Europa continuò ancora imperterrita sulla via del nazionalismo. Nuovi Stati-nazione sorsero dalle ceneri degli imperi multinazionali. Tutte le nazioni svilupparono un culto quasi religioso dei milioni di morti di questa insensata, ma gloriosa guerra. Alcune nazioni si organizzarono in modo permanente in dittature totalitarie per ricreare quella profonda comunione nazionale di intenti che c'era stata durante la guerra. Tutti gli Stati affrontarono la grande crisi economica iniziatasi nel 1929 instaurando piani economici e monetari nazionali, incuranti delle ripercussioni che essi avrebbero avuto sugli altri paesi ed in genere sulle relazioni economiche internazionali.

E dopo 21 anni di tale intensa e crescente esperienza nazionalista, si precipitarono nella seconda guerra mondiale, portando a compimento la profezia del poeta austriaco Grillparzer: ‟ Von der Menschheit, durch die Nationalität, zur Bestialität".

La seconda guerra mondiale fornì nel modo più completo e più irrefutabile la dimostrazione, che la prima non era riuscita a dare, dell'assurdità dell'Europa delle sovranità nazionali. Lungi dal saper ripetere la prova di potenza dell'altra volta, i superbi Stati-nazione caddero quasi tutti, vergognosamente, l'uno dopo l'altro, sotto i colpi del più potente fra loro, e, in mezzo a esplosioni di ferocia che ben presto non conobbero più limiti, furono invasi e sottomessi, fossero essi alleati o nemici, dalla Germania. Quelli fra i loro cittadini che rifiutarono l'umiliante asservimento, dovettero mettersi fuori della legge del proprio paese e di quella del vincitore, cercando non più nell'autorità tradizionale del loro Stato, ma nella loro coscienza individuale le ragioni per continuare a battersi in bande di partigiani, non solo contro l'invasore, ma anche contro i connazionali che collaboravano con esso. La Germania stessa, dopo aver sottomesso nel giro di pochi anni pressoché tutta l'Europa, ebbe infine quasi rase al suolo le sue città e battuti i suoi eserciti. Fu invasa, dovette arrendersi senza condizioni, vide cancellate tutte le sue istituzioni politiche e amministrative, e fu convertita dagli invasori in semplice territorio di occupazione militare.

Alla fine della guerra, nella primavera del 1945, l'Europa era coperta di macerie, colma di delitti e di odi, affamata, con i campi impoveriti e gran parte delle officine distrutte o ferme, il commercio dominato dal mercato nero, i poteri pubblici quasi incapaci di mantenere l'ordine civile, occupata pressoché completamente dalle truppe - ora liberatrici ora vincitrici - di due nuove superpotenze, di dimensioni ben maggiori di quelle di ciascun Stato europeo, entrambe nate in modi e tempi diversi dall'espansione della civiltà europea, ma l'una - gli Stati Uniti - del tutto extraeuropea e l'altra - l'URSS - solo perifericamente e parzialmente europea.

2. L'europeismo

È stato necessario rievocare rapidamente il ciclo dello sviluppo e della catastrofe dell'Europa degli Stati sovrani, perché quella mutazione nella coscienza politica degli Europei che porta il nome di europeismo emerse dalla meditazione su questa esperienza. Che l'Europa, benché sempre divisa politicamente, avesse una tal quale esigenza di unità, era stato un sogno antico, che aveva, nel corso dei secoli, sedotto alcuni poeti, pensatori, statisti, avventurieri politici, ma non si era mai tradotta in realtà fuorché in modo effimero e ripugnante quando, all'inizio ed alla fine dell'era dei nazionalismi, due avventurieri politici, Napoleone e Hitler, tentarono di realizzarla brutalmente fondandola sulla strapotenza degli eserciti dello Stato, prima francese, poi tedesco, di cui erano riusciti a impadronirsi.

L'europeismo si distingue dal sogno antico perché non è l'aspirazione a un ordine nuovo da attendere in un futuro imprecisabile, ma è il proposito di promuovere un'azione politica attuale per realizzare l'unità a breve scadenza, e per opera della generazione stessa che ha visto e sofferto la crisi dell'ordine politico nazionale. Esso si distingue dalla visione dell'unità imperiale militare perché si propone di raggiungere l'unione non già mediante la forza e la conquista da parte di uno Stato più forte, ma fondandosi solo sul libero consenso di nazioni libere.

Alla fine della prima guerra mondiale il giovane conte austriaoc R. N. Coudenhove Kalergi pensò per primo all'unità europea come a un compito politico attuale. Le sue idee fecero momentaneamente una certa presa superficiale nell'animo di qualche raro statista, ed in particolare del francese A. Briand nel momento in cui, verso la metà degli anni venti, egli cercava assieme al suo collega tedesco G. Stresemann una riconciliazione tra Francia e Germania. Fra i centri di studio e propaganda sorti sulla scia dell'iniziativa di Kalergi, merita di essere ricordata la Federal Union inglese, la quale, verso la fine degli anni trenta, rifacendosi a un filone di meditazioni sul quale si era già soffermato nel 1918 Luigi Einaudi, prese a modello la costituzione federale degli Stati Uniti d'America e promosse studi di notevole valore sulle possibili strutture di una federazione europea.

Ma nell'interludio fra le due guerre il corso della storia europea favorì troppo fortemente la recrudescenza del nazionalismo, e Coudenhove Kalergi assieme agli altri rari seguaci dell'idea degli Stati Uniti d'Europa rimasero profeti inascoltati in un mondo nel quale ricominciavano fervidi i preparativi a un nuovo cozzo armato fra le nazioni. Il seme non era tuttavia stato gettato invano. L'europeismo rinacque durante il rovinoso crollo di tutti gli Stati nazionali nella seconda guerra europea, inizialmente nell'animo di alcuni che cominciarono allora a meditare sull'avvenire guardando al di là dell'obiettivo immediato della vittoria sul nazismo e della restaurazione dell'indipendenza dei popoli europei; questa volta non è rimasto un appello inascoltato, ma le sue vicende hanno inciso profondamente sulla storia europea.

Fin dal suo nascere esso si è articolato in tre correnti che hanno variamente contribuito e continuano tuttora a contribuire all'effettivo processo di unificazione europea: il federalismo, il funzionalismo, il confederalismo.

3. Il federalismo europeo

È nato durante gli anni più duri della guerra nell'animo di alcuni uomini della resistenza, di vari paesi d'Europa, che nelle prigioni, nei campi di concentramento, nelle isole di confino, o nascosti alla macchia come partigiani o cospiratori, senza conoscersi fra loro, poiché la loro condizione era di una diaspora nell'illegalità, contemplando la rovina vergognosa dei vecchi Stati e meditando su quel che si sarebbe dovuto fare una volta abbattuta l'idra nazista, non si contentarono di progettare restaurazioni democratiche nazionali e riforme sociali ed economiche nazionali, ma intravidero come impegno di lotta politica la costruzione di una federazione europea.

Nella letteratura clandestina della resistenza di tutti i paesi d'Europa appaiono qua e là, quasi come massi erratici, affermazioni federaliste più o meno elaborate. Fra i vari gruppi, quello che probabilmente pensò l'impegno federalista con più chiara consapevolezza delle sue implicazioni politiche, e che fu anche il promotore dei primi incontri internazionali di federalisti delle varie resistenze ancor prima della fine della guerra, fu un gruppetto di poco più di un paio di antifascisti italiani, autori del Manifesto per l'Europa libera e unita, più tardi chiamato ‛Manifesto di Ventotene', dal nome dell'isola di confino in cui fu redatto.

Finita la guerra, la ricostruzione europea si sarebbe dovuta fondare sul ristabilimento dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini di ogni Stato, su un ordine pacifico, su una ricostruzione economica e sociale che mettesse fine alle rovinose autarchie. Le altre attività pubbliche avrebbero potuto e dovuto restare nel loro complesso di competenza dei singoli Stati, ciascuno dei quali le avrebbe svolte secondo il proprio genio; ma se la garanzia del rispetto delle regole di vita democratica, la politica estera, la politica militare, la politica economica e monetaria fossero tornate ad essere esercitate dai singoli Stati in piena autonomia, l'avvenire dell'Europa sarebbe stato la ripetizione esatta del passato. Questi grandi settori dell'attività politica avrebbero però potuto essere gestiti nell'interesse di tutti i popoli solo se essi fossero stati sottratti alla sovranità dei singoli Stati e affidati a istituzioni politiche democratiche comuni, cioè a un governo, a un parlamento e ad una corte di giustizia comuni. I cittadini sarebbero restati cittadini nazionali, tenuti al rispetto delle leggi nazionali e dotati di diritti nazionali, nell'ambito delle materie di competenza degli Stati nazionali. Sarebbero stati invece cittadini europei, tenuti al rispetto delle leggi europee e dotati di diritti europei, nell'ambito delle materie di competenza federale.

Le disastrose conseguenze del sistema delle sovranità nazionali che erano evidenti sotto gli occhi di tutti; la necessità di stabilire con la Germania un rapporto nuovo che non avrebbe potuto essere né quello temuto da tutti della restaurazione di una Germania sovrana, né quello politicamente e moralmente inaccettabile di una Germania dominata dagli altri popoli; il fatto che la rovina economica di quasi tutti i paesi aveva distrutto le vecchie economie nazionaliste e ridotto provvisoriamente all'impotenza i gruppi economici tradizionalmente interessati a mantenerle; il forte e generale ribrezzo verso i regimi antidemocratici e verso le ideologie nazionaliste; tutto ciò costituiva un insieme di circostanze che offrivano alle forze politiche democratiche la grande occasione per dare inizio alla ricostruzione dell'Europa, non chiudendosi in una serie di ricostruzioni nazionali, ma intraprendendo la costruzione delle nuovissime strutture politiche federali europee.

Nella rinnovata vita democratica del dopoguerra i federalisti europei, consapevoli della novità politica assoluta della loro proposta, intendevano non accettare la vecchia linea di divisione fra le forze della destra, tradizionalmente conservatrice e liberale, e quelle della sinistra, tradizionalmente riformatrice e socialista, ma promuovere la formazione di una linea di divisione nuova fra coloro che avrebbero anzitutto mirato alla restaurazione dei vecchi Stati nazionali, con politiche più o meno liberali, più o meno socialiste, e coloro che avrebbero mirato anzitutto a una redistribuzione del potere governativo, legislativo e giudiziario fra le nuove istituzioni federali e quelle antiche nazionali. Per questo motivo i federalisti non fondarono un partito, ma un movimento, che riunì in sé tutti i gruppi che si erano venuti formando nei vari paesi, e prese il nome prima di Union Européenne des Fédéralistes e poi di Mouvement Fédéraliste Européen.

Non è difficile scorgere che le radici ideali dei federalisti europei si trovavano nella grande corrente del radicalismo democratico, che è stato sempre all'origine di tutti i rinnovamenti delle democrazie moderne. La loro forza e la loro debolezza erano quelle tipiche del radicalismo. La forza era nella spregiudicatezza con cui si comportavano verso le tradizioni, portandole dinnanzi al tribunale della ragione, giudicandole in base alla loro razionalità e proponendo con chiarezza le alternative. La loro debolezza era nel fatto che essi non facevano di regola parte dell'establishment politico e non disponevano perciò degli strumenti per mettere direttamente in opera i loro progetti. Erano agitatori di idee e la loro fortuna politica sarebbe dipesa essenzialmente dalla influenza che avrebbero avuto sui detentori del potere. Avevano l'illusione, caratteristica di tutti i portatori di idee nuove, che il momento della realizzazione fosse imminente, legato al breve periodo critico iniziale della ricostruzione del dopoguerra; si rendevano scarsamente conto che il ritmo delle realizzazioni politiche è assai più lento e più tortuoso di quello della formulazione del pensiero. La penetrazione delle loro idee sarebbe stata assai più difficile di quel che essi avevano immaginato, ma la loro critica e il loro disegno, benché ancora non realizzato, è rimasto sino ad oggi il lievito fondamentale dell'europeismo.

4. Il funzionalismo

È stato probabilmente l'economista romeno Mitrany a formulare per primo le idee di fondo della seconda corrente dell'europeismo e a battezzarla con questo termine. Ma è stato senza dubbio J. Monnet a darle il vigore di pro- poste concrete e precise presentate nel momento più opportuno ai governi che ne avevano bisogno.

Anche il funzionalismo è nato durante la seconda guerra mondiale da una meditazione sui problemi di fronte ai quali gli Stati europei si sarebbero trovati dopo la fine delle ostilità. Ma mentre i federalisti avevano sviluppato i loro progetti contemplando il crollo del sistema delle sovranità nazionali e mettendo al centro del loro progetto la costruzione di organismi politici europei da sovraordinare a quelli nazionali, Monnet era partito nelle sue meditazioni da un'esperienza nuova di cooperazione fra Stati, che era stata fatta già durante la prima guerra mondiale e ripetuta con successo durante la seconda.

In entrambe gli Alleati avevano constatato che per utilizzare nel modo più efficace le risorse materiali ed umane di cui disponevano non bastava il forte controllo di ogni singolo Stato sulle risorse nazionali, ma occorreva in alcuni campi un controllo e una gestione comune per evitare che politiche diverse in situazioni diverse nei singoli Stati alleati generassero dispersione degli sforzi, e pericolosi divari fra paese e paese. Avevano quindi impiantato agenzie specializzate, cui avevano delegato il compito di dirigere, con autonomia di decisioni ed entro i limiti dei mandati impartiti a esse, il controllo dei cambi fra le loro monete, l'approvvigionamento delle materie prime e dei rifornimenti alimentari fondamentali, le forniture delle armi più importanti, giungendo fino a creare nella stessa condotta delle operazioni belliche comandi supremi comuni. Queste agenzie specializzate furono il prodotto dello spirito burocratico razionalizzatore che presiedeva alla condotta delle guerre moderne. Grandi amministratori erano ormai capaci di concepire e realizzare apparati di amministrazione e di controllo per operazioni gigantesche che coinvolgevano attività di vari Stati; ed i governi alleati, spinti dalla gravità delle circostanze, si indussero ad accettare in certi campi concreti il principio della delega di certe competenze ad organi sovranazionali. Ma si trattava sempre di organismi amministrativi specializzati e con deleghe ben limitate. Il potere politico restava tutto nelle mani dei governi nazionali, e queste agenzie erano tutte concepite solo per le necessità e la durata della guerra comune, dovendo cessare di esistere non appena questa fosse finita.

J. Monnet, alto funzionario francese, che aveva fatto fra le due guerre una vasta esperienza di organismi e consulenze internazionali, e che durante la seconda guerra mondiale era stato messo dagli Alleati a capo di una di queste loro agenzie, comprese che il metodo avrebbe potuto essere applicato anche in tempo di pace fra nazioni desiderose e bisognose di cooperare strettamente fra loro. La sovranità degli organismi politici nazionali, che i federalisti volevano prendere di petto direttamente, era formalmente rispettata, nel pensiero di Monnet, il quale mirava a individuare masse di interessi concreti, per i quali una gestione comune sarebbe stata di tutta evidenza utile, e avrebbe perciò potuto essere più facilmente delegata a una amministrazione sopranazionale specializzata. Monnet era convinto, come i federalisti, che la cooperazione intergovernativa non avrebbe reso possibile la condotta di affari comuni, e voleva anch'egli organi sovranazionali. Ma la sua esperienza di grande tecnocrate gli faceva sentire come problema centrale la creazione di amministrazioni sovranazionali, intorno alle quali si sarebbero cristallizzati interessi concreti. Le istituzioni politiche erano in fondo per lui sovrastrutture, superflue per avviare la costruzione europea e che sarebbero state aggiunte solo a cose fatte.

Ancora durante la guerra egli aveva individuato nel carbone e nell'acciaio quelli che erano allora e tutto faceva pensare che sarebbero rimasti a lungo - i due prodotti base dell'economia di tutti gli Stati industriali europei.

Le politiche nazionali del carbone e dell'acciaio erano state vigorosi strumenti di potenza militare nazionale dei principali Stati europei, in particolare della Germania, e grande motivo di rivalità specialmente tra Francia e Germania, fra le quali si dividevano i grandi bacini carboniferi e di minerale di ferro posti a destra e a sinistra del Reno. Mettere la produzione e la distribuzione del carbone e dell'acciaio europeo sotto regole comuni, applicate da una amministrazione sovranazionale comune, non solo avrebbe posto fine a quelle politiche nazionali, ma avrebbe anche creato una comunità di interessi così potente e così centrale nella vita economica da tirarsi dietro il resto delle economie nel senso della loro integrazione. Altre agenzie specializzate sarebbero allora sorte man mano, e l'unità si sarebbe fatta intorno a interessi concreti e ad uffici efficienti, coronandosi alla fine con istituzioni politiche federali.

Il punto debole del funzionalismo era quello di tutte le concezioni tecnocratiche. Scambiava l'efficienza esecutrice del potere amministrativo con la creatività del potere politico. Un'amministrazione è sempre necessaria per realizzare un piano politico, ma tende per sua natura a irrigidirlo e a concepirlo come qualcosa di concluso in sé, quindi incapace di generare nuovi piani. Nessuna agenzia settoriale europea avrebbe avuto una forza trascinante per il resto delle economie e della società europea, ove fossero mancati impulsi politici nuovi provenienti dal di fuori dell'agenzia stessa. Ma Monnet era convinto che i governi sarebbero stati obbligati dalla forza delle cose a produrre tali nuovi impulsi.

In questa prospettiva la sua impostazione era destinata ad essere molto più facilmente accettabile di quella federalista per molti statisti, poiché proponeva l'estensione di esperienze che essi già conoscevano per averle fatte, e che non esigevano decisioni radicali di natura costituzionale. Il disegno funzionalista sarebbe stato anche molto più congeniale ai funzionari delle amministrazioni nazionali, perché parlava il loro stesso linguaggio tecnocratico e faceva appello ai loro metodi di lavoro, per costruire l'unità. Last but not least, Monnet occupò, alla fine della guerra, il posto importantissimo di capo del Commissariat du Plan della Francia, che lo rese influente ed ascoltato tanto presso l'amministrazione quanto presso i ministri della Repubblica.

5. Il confederalismo

Il tema dell'unità europea non si pose solo a radicali della resistenza antifascista e ad alti amministratori di agenzie specializzate internazionali degli Alleati. Lo sentirono anche alcuni statisti di grandi Stati europei, che la guerra e il dopoguerra mettevano dinnanzi a problemi del tutto nuovi. Che ruolo dare ai loro paesi nella prossima costruzione della pace? Che relazione stabilire con la Germania dopo averla vinta? Come comportarsi verso Stati Uniti e Unione Sovietica, che sempre più apparivano come le nuove potenze mondiali destinate a dominare la scena internazionale, ed in particolare quella europea, nel prossimo futuro? Come rimettere in sesto economicamente e politicamente non questo o quel paese, ma l'Europa nel suo insieme, nella quale quasi ogni ordine tradizionale era crollato?

I due statisti che più profondamente pensarono a tutto ciò furono Winston Churchill, il primo ministro inglese che aveva assunto la guida del paese nel momento più minaccioso della sua storia, quando l'Inghilterra si trovò solitaria e male armata di fronte ad un nemico che aveva occupato già quasi tutta l'Europa, e Charles de Gaulle, il generale francese che dopo la resa del suo governo aveva deciso di essere lui stesso per virtù carismatica, l'incarnazione e l'unica rappresentanza legittima del più antico Stato del continente. Entrambi credevano fortemente in una sorta di primato del proprio paese, in una responsabilità speciale, storica e politica, che esso aveva avuto nel passato ed avrebbe dovuto continuare ad avere nell'avvenire rispetto all'Europa. Ma entrambi vedevano questa vocazione nazionale non come una vocazione di dominio militare, bensì di guida in un concerto di nazioni indipendenti e libere.

Churchill non era rimasto insensibile all'idea dell'unità europea sin dalla fine della prima guerra mondiale, e fu in un certo senso il primo prestigioso araldo di questa unità durante la seconda guerra e subito dopo, quando le idee dei federalisti e di Monnet erano ancora in gestazione e pressoché clandestine. Nell'estate del 1940, nel momento in cui la Francia stava per crollare, Churchill, ascoltando i suggerimenti di Monnet, ed ispirandosi alle idee allora correnti in Gran Bretagna dei federalisti inglesi, propose al governo francese, rifugiato a Bordeaux dopo la caduta di Parigi, di unire i due Stati in uno solo, fondendo i due governi e i due Parlamenti, dando un'unica cittadinanza ai due popoli, e continuando uniti la guerra. L'immaginosa e quasi poetica proposta, assai più radicale di quelle federaliste, era il tentativo improvvisato di dare una risposta adeguata alla sfida drammatica di Hitler, e non ebbe seguito, perché nel governo francese prevalsero i fautori della resa. Ma era stata un segno precursore: il tema dell'unità europea poteva giungere ed era di fatto giunto sul tavolo di statisti nazionali, quantunque la loro naturale missione fosse quella di preservare e sviluppare la sovranità nazionale.

Dopo la fine della guerra, Churchill tornò con tutta la sua autorità sul tema dell'unità. Nel suo discorso del 19 settembre 1946 a Zurigo proclamò la necessità di una stretta cooperazione fra tutte le nazioni europee, fossero esse state alleate o nemiche, per costruire una specie di Stati Uniti d'Europa, e mise in moto quello che sarebbe diventato rapidamente il Movimento europeo, nel quale confluirono statisti, parlamentari, rappresentanze di partiti e di associazioni professionali, militanti federalisti. La smagliante e immaginosa oratoria churchilliana indusse molti a credere che egli si fosse fatto promotore di un'azione di unificazione di tipo federale, ma in realtà Churchill era uomo più di grandi visioni che di precisi progetti, e nel parlare di Stati Uniti d'Europa aveva voluto presentare un mito più che una precisa proposta federale. In realtà egli pensava solo a una forte e continua collaborazione fra Stati, cioè a una confederazione. Se parlando dei rapporti fra Francesi e Tedeschi egli insisteva, sia pure in termini vaghi, sulla necessità di una reale unione fra queste due nazioni, la vera natura del suo pensiero si manifestava quando doveva pensare in particolare alla Gran Bretagna. La voleva, sì, presente e autorevole nel consesso delle nazioni europee, ed era assolutamente convinto che ne avrebbe in qualche modo assunto la guida, ma non intendeva affatto aprire il varco ad alcuna limitazione della sua sovranità.

Il Movimento europeo, suscitato dalle sue parole, prese molto più sul serio la loro parte mitologica ed ebbe perciò presto l'impressione di essere stato tradito da lui, quando egli dovette mostrare il fondo reale del suo pensiero. Ma l'appello del grande statista inglese, che mostrava in modo grandioso i termini della situazione europea e la meta da raggiungere, pur restando vago, non impegnativo e aperto a qualsiasi pragmatica mossa iniziale dei governi, ebbe una risonanza profonda in molti statisti e in una gran parte degli uomini politici dell'immediato dopoguerra. Costoro sentivano riecheggiare nelle parole di Churchill il senso che ciascuno di loro aveva della precarietà delle avvenute restaurazioni nazionali e della necessità di tener testa insieme ai pericoli di una contagiosa decomposizione politica ed economica. Ciascuno poteva inoltre mettere in quell'appello una speranza di collaborazione più o meno avanzata con gli altri Stati d'Europa, senza dover troppo precisarne forme e contenuti. Anche quando, più tardi, le idee funzionalistiche e federalistiche cominciarono a farsi strada nell'animo di parecchi statisti, esse si sovrapposero, per così dire, come strati alluvionali successivi ad un atteggiamento di fondo che continuava ad essere quello della cooperazione di tipo confederale.

Ciò che era confuso, approssimativo e coesistente con idee diverse nello spirito di Churchill e di molti statisti, era invece chiaro e preciso nel pensiero di de Gaulle, per il quale il punto di partenza delle meditazioni europee non fu, come per Churchill, la effettiva guida di uno Stato, ma la visione intellettualmente ed eticamente ambiziosa di un uomo che era convinto di portare in sé l'avvenire nazionale del proprio paese, ma che non disponeva ancora di alcun potere governativo reale da amministrare. La sua fede politica fondamentale e la sua cultura politica erano quelle del più puro nazionalismo. La Francia era per lui il paese scelto da Dio per le più grandi e gloriose imprese. E poiché era ora caduta, e la sua vocazione si esprimeva quasi solo nella sua persona, tanto più intensamente egli pensava al momento in cui essa sarebbe tornata ad essere una delle grandi potenze che stavano ora combattendo contro la Germania.

Durante il suo soggiorno nelle colonie, che grazie al predominio anglo-americano sui mari non erano cadute in mano alle potenze dell'Asse, aveva avuto netto il senso che l'epoca degli imperi coloniali volgeva al termine e che anche la Francia avrebbe dovuto liquidare in un modo o nell'altro il suo. Per tornare ad essere una grande potenza mondiale essa avrebbe dovuto ormai affermarsi in Europa, e poiché le nuove grandi potenze mondiali avevano ben altre dimensioni demografiche, economiche e militari che non la Francia, il ruolo di questa avrebbe dovuto essere quello di polo intorno a cui si sarebbero uniti gli altri Stati d'Europa. Egli pensava ad una confederazione di Stati, ciascuno dei quali avrebbe conservato la sua sovranità, ma che sarebbero stati legati fra loro in un patto di concertazione permanente delle loro politiche. Aveva un'intelligenza troppo chiara per non comprendere che una confederazione è per definizione condannata all'impotenza e alla disintegrazione se è un patto fra Stati più o meno uguali fra loro, ciascuno geloso della propria autonomia. Sola confederazione vitale è quella nel cui seno c'è una potenza la cui egemonia politica e morale sia riconosciuta ed accettata dagli altri paesi associati. Ma per l'appunto la provvidenza aveva creato in Europa una nazione - quella francese - più perfetta delle altre, più solida, più sicura della propria identità, più consapevole della sua vocazione universale; e intorno ad essa o nazioni minori, o nazioni, come l'Italia e la Germania, politicamente poco mature, malsicure, bisognose di avere fuori di sé un polo di riferimento. La Germania inoltre avrebbe potuto forse tornare a dissolversi in più Stati, che in modo naturale, come nell'epoca della grandezza della monarchia francese, avrebbero ruotato intorno alla Francia. Unico Stato europeo che, avendo un passato e una vocazione di gloria nazionale analoga a quella della Francia, avrebbe potuto contenderle la posizione preminente che de Gaulle le assegnava nell'Europa unita, era la Gran Bretagna; per questo motivo l'Inghilterra doveva restare nel suo disegno fuori dall'unione. Non era essa del resto tesa tutta verso gli oceani e non aveva relazioni speciali con gli Stati Uniti?

Poiché la Francia usciva dalla guerra solo apparentemente come paese vincitore, e nessun altro paese le riconosceva un ruolo di supremazia, c'era qualcosa di donchisciottesco nella visione di de Gaulle. Ma era sentita da lui con vigore e passione, e anche se il confederalismo esercitò la sua influenza nel primo quindicennio del dopoguerra nella più vaga forma churchilliana, la più vigorosa e coerente visione gaullista era destinata a esercitare un'influenza maggiore nel corso successivo degli avvenimenti.

6. Le superpotenze e l'Europa

Contrariamente a quanto era avvenuto alla fine della prima guerra mondiale, quando gli Stati europei ebbero la piena possibilità di procedere alla ricostruzione del loro sistema internazionale senza subire condizionamenti e interventi esterni, alla fine del secondo conflitto l'Europa non poté fare da sé. Le prime fondamenta della ricostruzione europea furono infatti poste, e in modo durevole, dai veri vincitori, cioè dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica.

Lo spirito missionario, rispettivamente democratico e comunista, che era una componente assai forte della politica estera delle due nuove grandi potenze; la diffidenza di entrambe per quel che avrebbe potuto esplodere ancora una volta da una Europa abbandonata a se stessa; e infine la forte diffidenza di ciascuna di esse verso le intenzioni e i piani dell'altra, si sommarono insieme in modo tale che l'occupazione militare di quasi tutto il continente europeo da parte delle loro truppe divenne il punto di partenza di una divisione profonda dell'Europa in due parti.

Salvo un tentativo, presto abbandonato, di amministrazione diretta da parte dei vincitori delle zone in cui era stata divisa la Germania, le restaurazioni istituzionali, politiche, economiche e sociali furono ovunque compiute dalle forze politiche indigene dei vari paesi liberati dal dominio nazista. Ma ovunque le restaurazioni avvennero all'ombra delle forze americane a Occidente e sovietiche a Oriente; ovunque le potenze dominanti non esitarono a far valere la loro autorità e ad adoperare gli strumenti d'intervento di cui disponevano - e che erano notevolmente diversi nei due casi - per favorire sviluppi che fossero conformi all'idea che esse si facevano dell'avvenire dell'Europa.

Poiché la guerra era stata condotta all'insegna della liberazione delle nazioni oppresse dal nazismo, il primo atto delle restaurazioni fu la ricostituzione di Stati-nazione fondati su principi democratici. Spostamenti notevoli di frontiere ci furono solo fra URSS, Polonia, Cecoslovacchia e Germania, ma poiché insieme ai cambiamenti di frontiera furono spostate anche le popolazioni, il risultato fu in genere una compattezza territoriale delle nazioni tedesca, polacca e ceca ancor maggiore di quella precedente. La sola nazione che in questa ricostruzione ebbe un destino diverso dalle altre poiché perse la sua unità politica, fu quella tedesca, la quale, essendo stata assegnata in parte alla zona di influenza sovietica, in parte a quella americana, restò divisa in ragione degli opposti sviluppi delle due zone e dovette infine essere riorganizzata in due Stati separati.

Nell'Europa orientale sotto l'influenza sovietica tutti i paesi persero nel giro di pochi anni le improvvisate istituzioni democratiche, trasformandosi in Stati comunisti, fortemente dipendenti dall'URSS, chiusi in sé, e soprattutto chiusi verso l'Occidente. A partire da questo momento la problematica interna, politica, militare ed economica dell'Europa orientale diventò del tutto distinta da quella dell'Europa occidentale. È assai probabile che l'europeismo si sarebbe diffuso anche nei paesi dell'Europa orientale, se essi avessero avuto un tipo di sviluppo analogo a quello dell'Europa occidentale. Ma non si possono fare che supposizioni. Essendo stati assorbiti nell'assai diversa esperienza comunista, questi paesi non hanno potuto in alcun modo partecipare al moto verso l'unificazione.

In Europa occidentale invece le restaurazioni democratiche si consolidarono, anche qui in misura non lieve grazie all'intervento americano, il quale prese la forma, prima di un sostanzioso aiuto economico che contribuì a far sormontare il difficile periodo iniziale della ricostruzione; e poi di una forte e impegnata protezione militare che diede un senso di sicurezza a paesi ancora deboli, malsicuri e timorosi del minaccioso, misterioso ed enorme vicino orientale.

Il primo tratto della nuova Europa non è quindi stato quello di una Europa in cerca di unione, ma quello di due Europe con diverse strutture ideologiche, politiche, sociali ed economiche, ciascuna costituente una tal quale rozza forma di unione, correntemente chiamata blocco, sotto l'egemonia di una delle grandi superpotenze.

Fino ad oggi l'Europa orientale non è riuscita a modificare sostanzialmente questa iniziale forma di unione. Il cosiddetto ‛campo socialista' continua ad essere tenuto insieme dal predominio militare sovietico, che si è espresso nel corso degli anni in più di un intervento dell'Armata Rossa, e dalla fedeltà ideologica verso il partito sovietico dei partiti comunisti che gestiscono il potere nazionale. Ogni altra forma di solidarietà è stata vista con sospetto dall'URSS e non ha potuto di fatto svilupparsi.

Quale che fosse inizialmente la dimensione geografica che gli europeisti avevano data al loro sogno di unione, la realtà politica della seconda metà degli anni quaranta stabilì in maniera incontrovertibile che l'europeismo poteva essere un tema politico attuale solo per l'Europa occidentale.

Intorno all'egemonia americana si sviluppò, in America e in Europa, la concezione di una unione o comunità atlantica, che avrebbe dovuto unire le democrazie dei due bordi dell'oceano, superando il quadro dell'europeismo. Poiché l'Alleanza atlantica aveva effettivamente questa dimensione geografica, poiché la guerra fredda con l'Unione Sovietica dava consistenza all'Alleanza, inducendola a creare comandi supremi e infrastrutture militari comuni, e poiché nel seno dell'Alleanza c'era un potere centrale egemonico capace di fungere da federatore, l'atlantismo parve a non pochi una prospettiva più realista dell'europeismo, anzi quest'ultimo sembrò loro ridursi a una versione propagandistica, ad uso degli Europei, dell'atlantismo. In realtà l'idea di una comunità atlantica, reale e istituzionalizzata, non fu mai più che un fronzolo retorico dell'Alleanza atlantica, e non divenne mai oggetto di alcuna seria azione politica, né americana né europea. La politica americana e gli europeisti si incontrarono invece in un lungo periodo di alleanza politica proprio sul tema dell'unità europea.

Per gli europeisti la presenza americana in Europa era sentita come l'utile ombrello protettivo, che sarebbe stato a lungo indispensabile perché permetteva agli Europei di concentrarsi nel difficile compito della costruzione della unità, senza dover subito affrontare da soli problemi come quello della difesa comune e dell'ordine monetario mondiale, cioè problemi che esigevano un grado assai avanzato di unione politica. Ma nel corso del suo sviluppo, l'Europa unita avrebbe dovuto riassumere progressivamente responsabilità politiche per ora gestite o controllate dagli Americani e trasformare l'attuale dipendenza in una partnership. De Gaulle, che risentiva in modo assai intenso questa dipendenza, avrebbe voluto scrollarla via rapidamente e rimproverava perciò costantemente tutti gli europeisti di volere non un'Europa europea, ma un'Europa atlantica. Gli europeisti a loro volta rimproveravano a de Gaulle di fare dell'antiamericanismo verbale, di pretendere un'indipendenza totale in un momento in cui questa non era ancora nè possibile nè utile, ma soprattutto lo accusavano di condannare, con la sua visione confederale, l'Europa a perdurare nell'impotenza e quindi nella dipendenza.

Per la politica americana, l'europeismo apparve sin dal- l'inizio una prospettiva da sostenere a fondo, perché conforme nello stesso tempo allo spirito missionario democratico, caratteristico della coscienza politica statunitense, e agli interessi americani. Nell'unione europea gli Americani vedevano infatti l'applicazione al vecchio continente del principio stesso dell'unione federale fra vari Stati su cui era fondata la loro Costituzione, e che essi consideravano come il miglior metodo per superare i nazionalismi europei. Ma i motivi della simpatia americana per l'unità sovranazionale non erano solo di natura ideologica. Nel momento stesso in cui si impegnava a fondo nell'aiuto economico alla ricostruzione dell'Europa occidentale e assumeva responsabilità pesanti nell'organizzazione della sua difesa, il governo di Washington sentiva che gli Stati europei, se avessero continuato a ispirarsi a ideologie e politiche nazionaliste, non avrebbero potuto evitare la rinascita delle loro reciproche rivalità, e la presenza americana in Europa avrebbe rischiato di essere un lavoro di Sisifo, nel quale l'impegno sarebbe stato crescente e i risultati del tutto aleatori. Contrariamente all'Unione Sovietica, la quale applicò rigorosamente nella sua zona di influenza il principio del divide et impera, gli Stati Uniti puntarono quindi sulla prospettiva di un'Europa occidentale unita, mostrando con ciò di preferire un alleato forte, e perciò stesso più indipendente, a un insieme mal connesso di dipendenze e di protettorati.

Questa coincidenza di prospettive fra la politica americana e quella dell'europeismo giovò molto, inizialmente, alle fortune di quest'ultimo, mostrando agli statisti europei un cammino che aveva il doppio vantaggio di andare nel senso del ritrovamento dell'indipendenza e di godere nello stesso tempo dell'appoggio e della comprensione della grande potenza protettrice, la quale a più riprese mostrò di essere disposta a fare e dare più per un'Europa che si avviasse verso l'unione che per un'Europa che intendesse restare divisa.

7. La diffusione dell'europeismo

Questo insieme di circostanze interne ed esterne in cui l'Europa venne a trovarsi nella seconda metà degli anni quaranta costituì un terreno politico assai favorevole al diffondersi dell'europeismo e alla sua trasformazione da visione intellettuale in componente permanente della vita politica dell'Europa occidentale. La mutazione innovatrice che si verificò allora nella coscienza politica di molti Europei si è rivelata, col passare degli anni e dei decenni, un fenomeno non effimero. Se l'europeismo fosse stato solo una moda, o una risposta di emergenza data a una situazione di emergenza, esso si sarebbe dissolto rapidamente, poiché le condizioni interne ed esterne dell'Europa negli attuali anni settanta sono assai diverse da quelle di trent'anni prima. Non pochi pubblicisti, rimasti più o meno inconsapevolmente prigionieri di vecchie categorie politiche, hanno effettivamente considerato l'europeismo una moda e, pur adeguandovisi nei momenti dei suoi maggiori successi, si sono periodicamente affrettati a proclamarlo superato ogni volta che qualche situazione è cambiata o che qualche imprevista difficoltà è sorta. L'europeismo ha invece mostrato di essere un vero e proprio abito politico e dottrinale, un modello di azione politica capace di offrire un'interpretazione e una soluzione ai problemi di un'Europa nella miseria e di un'Europa nel benessere, di un'Europa nell'impotenza politica e di un'Europa ridivenuta fattore importante della politica mondiale, di un'Europa nella guerra fredda e di un'Europa nella coesistenza pacifica, di un'Europa completamente dipendente dall'America e di un'Europa che con l'America ha un contenzioso assai complesso.

Fin dal momento iniziale della sua diffusione, i promotori delle sue diverse correnti ebbero una consapevolezza assai chiara delle diverse logiche istituzionali e politiche implicite in ciascuna di esse, e svilupparono assai vivaci polemiche fra di loro. Ma nell'opinione pubblica, anche in quella dei politici e dei pubblicisti, che avrebbe dovuto essere più avvertita, i tratti caratteristici delle varie correnti si diluivano e confondevano in un sentimento indistinto della necessità di una nuova forma di solidarietà e di unione fra i popoli democratici del vecchio continente. Era ovunque assai forte la repulsione contro il nazionalismo - il proprio non meno che quello degli altri - che tanti mali aveva prodotto. L'europeismo era sentito come una prospettiva nuova ed esaltante in larghi strati della gioventù più politicizzata. Affermazioni europeiste, più o meno precise, apparvero quindi con frequenza crescente nelle dichiarazioni programmatiche di molti partiti e governi.

Questa diffusione non fu tuttavia uguale in tutti i paesi e in tutti i partiti dell'Europa occidentale. Ebbe un terreno più favorevole nelle nazioni che avevano avuto l'esperienza dell'umiliazione totale dei loro Stati, e che necessariamente riponevano una assai minor fiducia nella restaurazione delle tradizionali sovranità nazionali. L'europeismo si diffuse con relativa facilità, come si può ben comprendere, in Germania e in Italia, che dal loro sfrenato nazionalismo avevano raccolto amarissimi frutti, nonché in Olanda, Belgio e Lussemburgo, che avevano constatato il valore nullo della sovranità dei loro piccoli paesi. Ma un'esperienza simile aveva fatto anche il più antico Stato europeo, modello di tutti gli altri Stati-nazione d'Europa, la Francia. Benché, grazie alla tenace ed abile politica di prestigio di de Gaulle, fosse apparentemente risorta, non solo come Stato vincitore, ma addirittura come uno dei quattro grandi del dopoguerra, accanto agli Stati Uniti, all'URSS e alla Gran Bretagna, e benché de Gaulle, divenuto capo del governo provvisorio della liberazione, avesse concepito tutta la politica estera della Francia come una progressiva restaurazione del rango di grande potenza mondiale, troppo grande era la discrepanza fra questa visione e la realtà, perché la classe politica francese potesse accettarla. Messo da parte il capo della liberazione, le forze politiche francesi che assunsero la direzione della Quarta Repubblica si orientarono assai presto verso una politica estera europeista, vedendo in essa la sola possibilità di mettere su basi nuove le relazioni future, soprattutto con la Germania.

L'europeismo rimase tuttavia sempre in Francia più contestato che tra i suoi vicini, a causa delle assai più antiche e radicate tradizioni di grande nazione sovrana, e fu quindi più esitante e più lacerato da contraddizioni. Ciononostante l'europeismo francese ha avuto permanentemente una posizione centrale in tutta la costruzione europea perché il recente passato fascista e nazista impediva al governo italiano, ed ancor più a quello tedesco, di avere iniziative autorevoli, mentre limiti analoghi erano imposti a Belgio e Olanda perché troppo piccoli. La Francia invece, non avendo le tare storiche dei suoi vicini d'oltre Reno e d'oltre Alpe, possedeva un'autorità morale e un peso politico che dava automaticamente ad ogni sua iniziativa una forte presa sulla realtà internazionale. Si aggiunga che essendo solo apparentemente uno dei grandi, essa si trovava facilmente dinnanzi a situazioni in cui i veri grandi prendevano o minacciavano di prendere decisioni concernenti l'Europa, e quindi anche la Francia stessa, senza tener molto conto della sua voce. Iniziative ispirate all'europeismo coincidevano quindi spesso per la Francia con esigenze di puntigliosa affermazione nazionale verso i grandi della politica mondiale.

Assai più lenta fu invece la diffusione dell'europeismo nelle nazioni che erano uscite dalla guerra avendo potuto preservare la loro indipendenza nazionale e avendo quindi conservato una maggiore fiducia nel loro Stato. Era questo il caso soprattutto della Gran Bretagna, che aveva anch'essa un'antica tradizione di potenza nazionale, simile a quella della Francia, e che non poteva non pensare con fierezza alla recente prova vittoriosa del suo popolo e del suo Stato. Alla fine del conflitto il suo governo disponeva di un controllo così efficace sul paese, da potersi accingere a profonde e ordinate riforme sociali, che contribuirono per alcuni anni a far sentire altezzosamente agli Inglesi la differenza fra la loro situazione e quella del caotico continente. La classe politica inglese nelle sue varie componenti non restò del tutto sorda all'europeismo, ma si avvicinò ad esso con cautela, cercando a lungo di accettarne solo la versione confederalista, cioè la semplice cooperazione intergovernativa, e adoperando la sua influenza in ripetuti tentativi di freno delle iniziative sovranazionali. Con una dozzina d'anni di ritardo sui paesi dell'Europa continentale, anche l'Inghilterra si è tuttavia aperta all'europeismo. Il successo della Comunità Economica, il timore di restare esclusa dalla ulteriore costruzione europea, lo svanire delle ‛relazioni speciali' con gli Stati Uniti, hanno spinto il governo inglese ad adottare la politica della costruzione europea, e ad impegnarvisi con vigore e tenacia.

Anche fra le forze politiche predominanti nei vari paesi la penetrazione dell'europeismo fu varia: più rapida fra i partiti di ispirazione cattolica; più lenta, ma infine quasi generale fra quelli socialisti e liberali. I due grandi partiti comunisti occidentali, l'italiano e il francese, dapprima fortemente ostili, perché orientati sulla prospettiva dell'espansione sovietica, hanno cominciato recentemente ad assumere un atteggiamento, più positivo il primo, meno negativo il secondo, parallelamente al loro progressivo distacco dalla dipendenza ideologica da Mosca e al loro inserimento nel sistema democratico dei loro paesi.

Una simile diffusione di simpatie europeiste si è verificato in quasi tutte le organizzazioni professionali, industriali, commerciali, agricole e operaie.

Poiché fino ad oggi mancano ancora quelle istituzioni e procedure rappresentative popolari al livello europeo, che sono necessarie perché sentimenti europei si trasformino in forze e pressioni politiche attive, il diffondersi progressivo dell'europeismo da un paese all'altro, da un partito all'altro, da un gruppo sociale all'altro non si è ancora mai tradotto in tensioni politiche popolari, in campagne elettorali, in formazioni di maggioranze e minoranze intorno a precisi programmi. Poiché è restato informe, il favore popolare ha finora contribuito alla costruzione europea solo dando agli uomini al governo una notevole sicurezza di poter contare su una larga anche se passiva simpatia popolare ogni volta che hanno preso iniziative europeiste, e alle opposizioni un tacito avviso a non impegnarsi troppo o troppo irrevocabilmente nelle loro polemiche antigovernative nel senso dell'antieuropeismo.

In questo clima, l'azione europea è cominciata perché alcuni statisti, posti di fronte ai gravi problemi della ricostruzione e dello sviluppo dei loro paesi, hanno scoperto la prospettiva esaltante di un avvenire diverso da quello del passato, hanno sognato di realizzarlo, hanno saputo cogliere se non tutte almeno alcune occasioni favorevoli, ed hanno cominciato a tradurre questa visione non solo in dichiarazioni astratte e in fugaci atti politici europei, ma in istituzioni.

L'azione europea non ha incontrato come ostacolo fondamentale il nazionalismo aperto ed esasperato degli anni venti e trenta; esso infatti era stato travolto nell'ignominia durante la guerra, e quando ora riappare non si presenta come antieuropeo, ma in genere come sostenitore della concezione confederalista, tende cioè ad assumere anch'esso atteggiamenti europeistici. L'avversario permanente, tenace, proteiforme e sempre rinascente, della costruzione europea è costituito dal fatto che in ognuno dei nostri paesi, in ogni governo, in ogni amministrazione, in ogni corrente politica, in ogni associazione professionale, in ogni università, insomma in tutti gli Europei e in ogni loro istituzione c'è l'abitudine - radicata al punto da essere ormai quasi un riflesso condizionato - a concepire leggi, costumi, solidarietà, interessi, attività politiche, entro le tradizionali e ben note categorie dello Stato-nazione. L'operosità conforme a quest'abitudine dà a chi vi si trova impegnato un senso di pienezza e di sicurezza, di fronte al quale l'operosità europea si regge, in chi vi si dedica, perché sorretta da una visione politica molto stimolante, ma appare, e finora è, fatalmente lacunosa, incerta sul da fare, priva di tutte quelle regole ben note e di quei riferimenti tradizionali che limitano, sì, la libertà effettiva di chi agisce, ma gli danno anche tranquillità e sicurezza. L'operosità europea non si muove fra istituzioni consolidate, ma deve costruirle e consolidarle; non si esprime in alternative politiche ben delineate ed esprimentisi in precisi partiti europei, ma deve scoprirle; non ha nemmeno un suo linguaggio politico già formato, ma deve inventarlo.

Le forze politiche che hanno assunto la direzione dei paesi europei occidentali dopo la guerra sono state in genere sensibili alla mutazione europeista; ed alcuni fra i loro capi - Churchill, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Bevin sono stati per alcuni anni fra i corifei se non del pensiero, per lo meno dell'azione europea. Ciononostante per tutti costoro ricostruire lo Stato-nazione significava muoversi nel noto, mentre costruire l'Europa significava muoversi nell'ignoto o quanto meno nell'oscuro e nell'enigmatico. Ciò spiega come sia regolarmente accaduto fino ad oggi che gli statisti nazionali abbiano compiuto, o almeno tentato, imprese europee in circostanze eccezionali, ma la pienezza del loro lavoro politico sia stata dedicata non alla costruzione dell'Europa, bensì alla restaurazione dei vecchi Stati-nazione.

Sviluppo nazionale e costruzione europea sono senza alcun dubbio complementari; ma solo fino a un certo punto, fino a quando cioè si giunga dinnanzi a un qualche complesso di problemi, per il quale occorre decidere se affrontarlo sul piano nazionale, con strumenti nazionali o su quello europeo con strumenti europei, perché nei due casi i risultati sono differenti. Oltre questo punto le due attività diventano alternative: l'una limita l'altra, talvolta la soffoca del tutto; le conseguenze dell'una sono diverse da quelle dell'altra.

Tuttavia la vita politica europea ha avuto proprio questo andamento paradossale e contraddittorio: da una parte restaurazione degli Stati-nazione, e perciò anche delle categorie politiche ed economiche nazionali, dei miti e tabù nazionali; dall'altra instaurazione di istituzioni e politiche comuni, quindi prospettive, responsabilità e solidarietà nuove. Se la costruzione europea si ridurrà a una sovrastruttura delle restaurazioni nazionali, superficiale, fragile, e perciò effimera, o se queste finiranno per piegarsi e subordinarsi all'instaurazione europea, è un problema che sarà deciso non da ragionamenti, ma da una lotta politica ancora aperta.

8. Tappe e cicli della costruzione europea

Il corso effettivo della costruzione europea si è ispirato e continua ad ispirarsi alle tre correnti dell'europeismo. In questa o quella congiuntura ha predominato l'una o l'altra di esse, ma in ciascun tentativo, accanto al tratto centrale derivante da una di queste tendenze, si nota in generale la presenza delle altre, ora come freno, ora come realizzazione collaterale o quanto meno come aspirazione non ancora tradotta in realtà, ma esprimentesi in simboli verbali o istituzionali.

Nei primi due anni successivi alla guerra, scesa la cortina politica, economica e militare fra Europa occidentale democratica ed Europa orientale comunista, si definì la cornice geografica entro la quale si sarebbe successivamente svolta l'impresa europea per tutto un lungo periodo storico che è ancor lungi dall'esser concluso.

Fra il 1947 e il 1950 la scena europea fu dominata dalla propaganda di Churchill e dalle iniziative del ministro inglese Bevin. All'ombra della retorica churchilliana gli statisti britannici, consapevoli del prestigio morale di cui il loro paese godeva in Europa, utilizzarono con decisione i fremiti europeisti del continente, e l'atteggiamento filoeuropeistico degli Americani per proporre legami europei di tipo confederale sotto la guida britannica. Il patto militare di Bruxelles, l'OECE, il Consiglio d'Europa, furono le realizzazioni successive di questa azione. Poiché però l'egemonia inglese era più una illusione delle classi dirigenti inglesi che una realtà, queste organizzazioni si rivelarono tutte assai poco efficaci. Nell'Assemblea parlamentare consultiva del Consiglio d'Europa, unico organo per sua natura non intergovernativo, ma prefigurante un istituto di tipo federale, si delineò un vivace tentativo di rivendicare poteri ‛limitati ma reali'; ma il dibattito finì nel nulla. Durante questo periodo, le tendenze federaliste e funzionaliste rimasero completamente all'ombra del confederalismo di Churchill e di Bevin.

Nel 1950-1951 emersero le prime iniziative funzionaliste. Sotto l'ispirazione di Monnet, il ministro francese degli esteri Schuman propose la creazione di un mercato comune dell'acciaio e del carbone, sotto il controllo di un'alta autorità sovranazionale, e pochi mesi dopo il ministro francese della difesa Pleven propose la creazione di un esercito comune europeo organizzato, armato e amministrato da una Commissione sovranazionale. A queste proposte la Gran Bretagna rifiutò di associarsi, ma il governo francese, consapevole che al di fuori di soluzioni sovranazionali si sarebbe necessariamente dovuto accettare la restituzione alla Germania della sovranità sulla sua industria carbo-siderurgica e autorizzarla ad avere di nuovo forze armate nazionali, si decise a procedere nelle sue iniziative anche senza gli Inglesi. Lunghi e complessi negoziati diplomatici ebbero inizio per tradurre i due progetti in trattati internazionali. Il piano Schuman della Comunità Eupea del Carbone e dell'Acciaio fu ratificato nel corso del 1952 ed entrò in vigore nell'estate dello stesso anno. Il suo tratto centrale era costituito dall'Alta Autorità, organo sovranazionale d'amministrazione delle regole del mercato comune carbo-siderurgico. Ma accanto ad essa il confederalismo dei governi aveva collocato un Consiglio di ministri nazionali, dotato di potere politico di controllo, e le esigenze federaliste diffuse avevano ottenuto che ci fosse una Assemblea parlamentare comune eletta dai parlamentari nazionali, e una Corte di giustizia europea che avrebbe vegliato al rispetto del diritto comunitario.

Nel 1952-1953 il punto di vista federalista venne fuori dall'oscurità dei piccoli movimenti d'opinione, e si impose all'attenzione dei ministri e delle loro diplomazie. L'intrinseca difficoltà di creare un esercito comune, senza che ci fosse un potere politico comune cui un tale esercito sarebbe appartenuto, costrinse i governi dei sei paesi ad accogliere, almeno in parte, le richieste federaliste. Nel settembre del 1952, senza attendere la ratifica del trattato che avrebbe instituito la Comunità Europea di Difesa (CED), i sei governi affidarono ad una Assemblea parlamentare europea ad hoc, derivata da quella della CECA, il mandato di redigere il progetto di statuto di una comunità politica, riconoscendo che si trattava di una costruzione non diplomatica, ma costituzionale, e da affidare quindi non ad una tradizionale conferenza intergovernativa delle diplomazie nazionali, ma ad una rappresentanza delle forze politiche popolari. Sei mesi dopo il progetto di statuto nel quale, sia pure in modi contradditori, molte esigenze federaliste furono accolte, era pronto, e fu consegnato dall'Assemblea ai ministri dei sei paesi.

Nel 1954 la resistenza congiunta delle tradizioni nazionaliste di larghi strati di destra e di sinistra della classe dirigente francese, portò alla caduta della CED, e insieme ad essa anche della comunità politica.

Malgrado la grave sconfitta così subita, l'europeismo mostrò di essere ormai una categoria ineliminabile della vita politica europea, e rinacque dalle sue stesse ceneri. Mentre la CECA cominciava quietamente ad impiantare il mercato comune del carbone e dell'acciaio, cominciò un nuovo ciclo di azione europea, ancora una volta con un piano confederale inglese. Nel 1954-1955, il governo Eden risuscitò dall'oblio il Patto di Bruxelles e riuscì a realizzare, al posto della CED, l'Unione Europea Occidentale (UEO), cui avrebbe partecipato ormai anche la Repubblica Federale Tedesca, per coordinare le politiche di difesa. Poiché però, ancora una volta, il governo inglese risultò organicamente incapace di esercitare alcuna azione di guida, anche l'UEO mostrò la stessa inconsistenza politica delle altre costruzioni confederali di quattro o cinque anni prima.

Con la Conferenza di Messina del 1955 ebbe inizio un nuovo impulso funzionalista. Monnet propose una nuova autorità specializzata per lo sviluppo dell'energia atomica. I governi olandese e belga proposero di estendere il metodo di Monnet non solo a questo o a quel settore dell'economia, ma a tutto il mercato dei vari paesi, allo scopo di avanzare verso un'unificazione economica globale. Fra il 1955 e il 1958 i sei governi elaborarono, ratificarono e infine misero in opera la Comunità Europea dell'Energia Atomica e la Comunità Economica Europea, correntemente chiamate EURATOM e Mercato Comune.

Ancora una volta la caratteristica fondamentale delle due nuove comunità consisteva nell'accettazione da parte dei sei Stati di alcuni precisi scopi da raggiungere in comune e nell'attribuzione a un corpo amministrativo sovranazionale del compito di vegliare alla realizzazione degli impegni presi. Ma se questo schema poteva bastare per la CECA e l'EURATOM, era insufficiente per la Comunità a competenze più generali. Regole e direttive per realizzare il Mercato Comune nel suo insieme potevano essere fissate inizialmente solo in parte. La loro successiva elaborazione e adozione fu quindi affidata a un meccanismo istituzionale nel quale alla Commissione - organo sovranazionale - era riconosciuto il compito di redigere e proporre le misure necessarie, mentre al Consiglio dei ministri - organo intergovernativo - era riservato il diritto di decidere circa la loro adozione. Al Parlamento europeo era attribuito un compito poco più che consultivo.

A partire dal 1958 la Comunità a competenza più generale - la CEE - sotto l'impulso animatore della sua Commissione, riuscì a realizzare in modo sostanzioso, anche se non del tutto completo, gli scopi che gli Stati avevano iscritto nel Trattato e si erano impegnati a realizzare in un dodicennio detto di transizione: l'unione doganale, un insieme non indifferente di regole comuni sulla concorrenza, una organizzazione comunitaria dei mercati agricoli, una notevole mobilità della mano d'opera attraverso le frontiere, un embrione di politica sociale e dei trasporti comune. Inoltre condusse un grosso negoziato internazionale per la riduzione dei dazi industriali (noto col nome di Kennedy round). Infine riassorbì in un unica amministrazione le due comunità specializzate, la CECA e l'EURATOM. Questa serie di successi indusse la Gran Bretagna e altri Stati dell'Europa del nord a rimeditare sul loro iniziale rifiuto e a chiedere formalmente di diventare anch'essi membri di pieno diritto della Comunità.

Accanto ai successi si sono però anche venuti accumulando ritardi, difficoltà, insuccessi, che hanno mostrato nei fatti i limiti del metodo funzionale. Mentre nessuno con- testa più l'utilità di una burocrazia europea autonoma, prosegue nella Comunità e intorno ad essa il dibattito circa la sua anima politica. De Gaulle, tornato a capo dello Stato francese quasi contemporaneamente all'entrata in vigore della Comunità Economica, ha contestato a lungo ogni suo sviluppo sovranazionale, e per due volte ha chiuso la porta ad ogni suo allargamento geografico, esigendo che ogni decisione della Comunità fosse presa all'unanimità dai governi, soli veri depositari delle sovranità, e sottintendendo che alla Francia spettava una funzione di guida. Dalla parte opposta, Commissione e Parlamento europeo hanno costantemente riaffermato la sterilità del metodo della cooperazione intergovernativa e la necessità di dare alla Comunità un autentico governo federale ed un Parlamento europeo, eletto direttamente, dotato di poteri legislativi e di controllo reali.

Questo dibattito, che continua anche dopo la scomparsa di de Gaulle e che è lungi dall'essere concluso, non si svolge più in una sfera puramente concettuale, come negli ormai lontani anni quaranta, ma ha luogo intorno a istituzioni ormai esistenti e a politiche in atto o in formazione.

Fare l'Europa negli anni settanta significa infatti: a) tradurre l'adesione dell'Inghilterra e degli altri nuovi Stati membri della Comunità allargata da adesione formale in realtà uguale a quella che già lega i sei Stati fondatori; b) passare dall'unione doganale all'unione monetaria ed economica, il che implica una programmazione economica assai complessa; c) affrontare con personalità politica propria e quindi con una voce unica le responsabilità che la Comunità ha ormai nel mondo e che implicano relazioni nuove, differenti da quelle avute fino ad oggi, tanto con gli Stati Uniti, quanto con l'URSS e con i paesi in via di sviluppo.

Qualsiasi accurata meditazione sul sistema istituzionale attuale della Comunità mostra che esso è incapace di affrontare con successo questi compiti, e che quindi si impone un trasferimento di competenze governative e legislative dagli Stati membri alle istituzioni della Comunità. Ma la riluttanza delle vecchie macchine amministrative e politiche persiste.

Questa battaglia simultanea intorno alla politica che l'Europa deve fare e alle istituzioni di cui si deve armare per farla è il punto cui oggi è giunto l'europeismo.

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