Europeismo

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

EUROPEISMO

Antonio Giolitti e Sergio Romano

Il processo istituzionale di Antonio Giolitti

sommario: 1. Problemi e tendenze del decennio 1984-1994. 2. Verso la riforma del Trattato CEE. 3. L'Atto Unico europeo e il Rapporto Delors. 4. Per un'Europa più ampia e più unita. 5. Il Trattato di Maastricht. 6. I problemi della nuova Unione e la prospettiva dell'allargamento. 7. I problemi istituzionali della nuova e allargata Unione Europea. □ Bibliografia.

1. Problemi e tendenze del decennio 1984-1994

Nel decennio 1984-1994 che qui prendiamo in considerazione - facendo seguito agli articoli pubblicati precedentemente in questa opera: v. europeismo, voll. II e VIII - si possono distinguere, per effetto della caduta del muro di Berlino, due fasi esattamente corrispondenti a due quinquenni. Nonostante tale distinzione, la continuità dell'impulso ideale e politico che si usa designare con la parola ‛europeismo' risulta, nel corso dell'intero decennio considerato, sempre prevalente ed evidente e ha, per così dire, anche una sua configurazione istituzionale e personale nella figura di Jacques Delors, ininterrottamente presidente della Commissione della Comunità Europea e poi della Unione Europea (UE) dal gennaio 1985 al gennaio 1995.

Il Consiglio europeo riunito nei giorni 25 e 26 giugno 1984 a Fontainebleau, sotto la presidenza francese, si era occupato soprattutto di problemi di finanziamento e di bilancio della Comunità. Esso, tuttavia, aveva anche preso in esame lo stato dei negoziati con Spagna e Portogallo per la loro adesione alla Comunità: un terzo ‛allargamento', dopo le adesioni di Regno Unito, Irlanda, Danimarca e poi Grecia. Dieci anni dopo, come vedremo, il problema dell'‛allargamento' assumerà un peso e una dimensione di portata storica, epocale. Gli ‛atti di adesione' vennero firmati il 12 giugno 1985 a Madrid per la Spagna e a Lisbona per il Portogallo; il 1° gennaio 1986 i due paesi diventarono membri a pieno diritto della Comunità Europea.

Contemporaneamente al processo di allargamento si delineavano anche una prospettiva e un impegno di ‛approfondimento' della Comunità: e vedremo che tutto il corso del decennio qui considerato sarà dominato dalla dialettica e dal ‛combinato disposto' di quelle due dinamiche - in profondità e in estensione - dell'europeismo. All'inizio del 1984, il 14 febbraio, il Parlamento europeo aveva infatti approvato un Progetto di trattato della Unione Europea, del quale fu promotore e protagonista Altiero Spinelli. Si manifestava, con tale iniziativa, una inversione di tendenza rispetto ai segnali di affievolimento che si potevano cogliere nelle vicende dell'europeismo all'inizio degli anni ottanta. Contro quella tendenza il Parlamento europeo, sollecitato dall'iniziativa instancabile di Spinelli, proponeva un rafforzamento dei suoi poteri, una ridefinizione dei ruoli e dei poteri del Consiglio e della Commissione, nonché l'introduzione e l'applicazione di quel criterio di ‛sussidiarietà' che, come vedremo, assumerà grande rilievo nel Trattato di Maastricht.

Da quel progetto scaturì poi il cosiddetto ‛Atto Unico' europeo, firmato il 17 febbraio 1986 da nove Stati membri e il 28 febbraio da Italia, Grecia e Danimarca, che avevano atteso i risultati (favorevoli) del referendum danese: esamineremo in seguito il contenuto di tale Atto, che delineava l'effettiva prima riforma dei Trattati di Roma (istitutivi della Comunità Economica Europea - CEE - e della Comunità Europea per l'Energia Atomica - EURATOM). L'iniziativa era partita, formalmente, dal Consiglio europeo di Milano (28-29 giugno 1985) con due deliberazioni: 1) convocare una conferenza intergovernativa incaricata di predisporre un progetto di trattato ‟su una politica estera e una politica di sicurezza comuni"; 2) procedere alle modifiche del Trattato CEE necessarie all'attuazione degli adeguamenti istituzionali riguardanti il processo decisionale del Consiglio, il potere esecutivo della Commissione, i poteri del Parlamento, oltre che l'estensione delle competenze a nuovi settori di attività.

2. Verso la riforma del Trattato CEE

La nuova Commissione presieduta da Delors esordì con il proposito, preannunciato dal presidente nel suo discorso di presentazione al Parlamento (il 14 gennaio 1985), di perseguire l'abbattimento ‟di tutte le frontiere all'interno dell'Europa entro il 1992". Intraprese quindi senza indugio l'elaborazione e stesura di un ‛Libro Bianco sul completamento del mercato interno', che venne presentato, nel giugno successivo, al Consiglio europeo riunitosi a Milano e da questo approvato. Esso costituiva un programma globale, scandito da un calendario articolato e vincolante, per l'abolizione entro il 1992 delle frontiere geografiche, tecniche e fiscali.

Con tale iniziativa la Commissione dava vigorosa e solenne espressione all'esigenza - tradotta più volte in pressanti e formali proposte della Commissione al Consiglio nel corso dei primi anni ottanta - di eliminare barriere e intralci che ancora ostacolavano la completa realizzazione del ‛mercato comune'. Nel giugno 1984 aveva infatti trasmesso al Consiglio un documento che costituiva un vero e proprio programma mirante alla eliminazione, nel corso di due anni, di tutti gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali, dei servizi, delle attività delle imprese e delle persone. Un comitato ad hoc, nominato dal Consiglio (denominato poi Comitato Dooge, dal nome del suo presidente) presentò un rapporto al Consiglio europeo di Dublino nel dicembre 1984, nel quale si sollecitava la creazione di un vero e proprio mercato interno europeo ‟come tappa essenziale verso l'obiettivo finale della Unione Economica e Monetaria".

Ma la portata storica del Consiglio europeo di Milano del giugno 1985 non fu dovuta soltanto all'approvazione di quel Libro Bianco. Per iniziativa congiunta del cancelliere Kohl e del presidente Mitterrand esso deliberò la convocazione di una conferenza intergovernativa per la riforma del Trattato CEE, con il duplice mandato di preparare un progetto di trattato su ‟una politica estera e una politica di sicurezza comuni" e di procedere alle modifiche del Trattato necessarie all'attuazione degli adeguamenti istituzionali riguardanti il processo decisionale del Consiglio, il potere esecutivo della Commissione e i poteri del Parlamento, e anche lì - va notato - il Consiglio non faceva alcun riferimento al Progetto di trattato sulla Unione Europea approvato dal Parlamento.

La portata e l'ambizione del Libro Bianco sopra citato appaiono in chiara evidenza nel rapporto presentato da un ‛gruppo di esperti indipendenti', presieduto da Tommaso Padoa-Schioppa, incaricato dalla Commissione, nell'aprile 1986, di ‟studiare le conseguenze economiche di due decisioni prese dal Consiglio europeo nel 1985: l'allargamento della Comunità alla Spagna e al Portogallo e la creazione di un mercato europeo senza frontiere interne entro l'anno 1992". Dalla ‛lettera di trasmissione' di quel rapporto si può ricavare una nitida rappresentazione sintetica della portata dei problemi e delle soluzioni da adottare. Vi si prevede che ‟nel 1992 un'area di 320 milioni di consumatori e produttori, nella quale i beni, i servizi e i fattori della produzione circoleranno liberamente, costituirà un avanzamento sostanziale, in termini di efficienza, benessere e influenza nelle questioni economiche mondiali, rispetto al mercato del 1985, assai più ristretto e diviso da innumerevoli barriere interne. Questo progresso, però, avrà profonde conseguenze per le due funzioni della politica economica che, in ogni sistema e anche in quello comunitario, integrano e completano la politica di allocazione delle risorse e interagiscono con questa. Tali funzioni sono la stabilizzazione dell'economia e la ridistribuzione del reddito". Inoltre, viene richiamata l'attenzione su due tensioni che si manifesteranno con evidenza e a volte con drammaticità negli anni successivi: ‟da un lato, la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale non è compatibile con il regime di stabilità dei tassi di cambio e di considerevole autonomia nella condotta delle politiche monetarie nazionali; dall'altro, la completa apertura del mercato interno di una Comunità allargata avrà effetti distributivi più forti e più laceranti di quelli manifestatisi negli anni sessanta, quando l'integrazione commerciale procedette fra paesi meno eterogenei e in un contesto di crescita economica più rapida". E in effetti tale previsione può valere come descrizione di quanto si verificò negli anni successivi. Perciò veniva raccomandata, da quel ‛gruppo di esperti', ‟una strategia sistematica, rivolta congiuntamente alle tre funzioni della politica economica: l'integrazione dei mercati, la stabilizzazione dell'economia e l'equa distribuzione dei benefici". E questi sono tre ordini di problemi con i quali si cimenteranno le istituzioni comunitarie nel corso del decennio che qui stiamo considerando: come prevedeva quasi contemporaneamente anche un altro rapporto elaborato sempre per incarico della Commissione da un gruppo di esperti ‛indipendenti' e anch'esso presieduto da un economista italiano, Luigi Spaventa, sul ‟futuro delle finanze comunitarie", presentato nel settembre 1986.

3. L'Atto Unico europeo e il Rapporto Delors

Nel settembre del 1985 ebbe inizio la Conferenza intergovernativa deliberata dal Consiglio europeo di Milano; l'accordo finale venne raggiunto nel Consiglio europeo di Lussemburgo il 17 dicembre, con l'approvazione dell'‛Atto Unico europeo' che entrò in vigore il 1° luglio 1987, dopo il deposito degli atti di ratifica da parte di tutti gli Stati membri.

La distanza di ben due anni - dal 1985 al 1987 - tra il raggiungimento dell'accordo e l'inizio della sua applicazione è chiara indicazione della complessità e lentezza, non soltanto procedurali, cui è costretto il faticoso percorso dell'europeismo: e tuttavia quell'Atto Unico, pur con i suoi limiti, apriva la strada a ulteriori riforme e progressi, instaurava procedure atte a facilitare le decisioni per le misure previste dal Libro Bianco.

La novità più importante dell'Atto Unico era quella riguardante la ‛cooperazione politica'. Questo termine aveva avuto fino ad allora il significato ben delimitato di una procedura di cooperazione, tra i singoli governi nazionali e non tramite le istituzioni comunitarie, su problemi di politica estera (tranne quelli concernenti la difesa). Con l'Atto Unico quella procedura veniva trasferita nell'ambito delle istituzioni comunitarie ed estesa anche alla difesa: anzi, vi si dichiarava che ‟una più stretta cooperazione anche riguardo ai problemi della sicurezza europea" avrebbe contribuito ‟allo sviluppo di una identità dell'Europa in materia di politica estera". Ma a questa proclamata ambizione non corrispondevano adeguate innovazioni sul terreno istituzionale e procedurale: l'obiettivo dell'unione politica - rispetto al quale la politica estera e di sicurezza comune rappresentava un primo passo - postulava invece l'impianto di nuove istituzioni o almeno di istituzioni sostanzialmente rinnovate e potenziate.

La Commissione assumeva di fronte al Parlamento, prima ancora dell'entrata in vigore dell'Atto Unico, l'impegno di ‟portare l'Atto Unico al successo": così si intitolava infatti il programma di lavoro che, a nome della Commissione, Delors presentò al Parlamento il 18 febbraio 1987 e al Consiglio europeo di Bruxelles il 29 giugno. Dall'Atto Unico il programma della Commissione faceva derivare - come dichiarò lo stesso Delors - ‟l'obbligo di realizzare simultaneamente il grande mercato senza frontiere, una maggiore coesione economica e sociale, una politica europea della ricerca e della tecnologia, il rafforzamento del sistema monetario europeo, la creazione di uno spazio sociale europeo, azioni significative in materia di ambiente".

Approvato quasi all'unanimità dal Parlamento nel novembre successivo, quel programma passò all'esame del Consiglio, e cioè di varie riunioni di Consigli dei ministri e di Consigli europei (di capi di Stato e di governo), accompagnate dal lavoro della Commissione che traduceva gli orientamenti in specifiche proposte e quindi in decisioni. Particolarmente importante fu la decisione, adottata nel giugno 1988 ad Hannover dal Consiglio europeo, di affidare a un comitato - presieduto da Delors - l'incarico di studiare e proporre il percorso che doveva condurre all'unione economica e monetaria, cioè un rapporto, detto ‛rapporto Delors', che venne puntualmente presentato al Consiglio europeo riunito a Madrid nei giorni 26-27 giugno 1989.

Quel rapporto è certamente, per il suo contenuto e anche per la sua data, un documento di particolare importanza nella storia della Comunità Europea e quindi nella vicenda dell'europeismo. Precedendo di meno di cinque mesi la caduta del muro di Berlino, tale rapporto assumeva, di fatto, il significato di un progetto mirante a creare, con l'‛approfondimento', le condizioni per l'‛allargamento' della Comunità. Esso si articolava in tre fasi: completamento del mercato interno e rimozione degli ostacoli alla integrazione finanziaria; formulazione e approvazione del nuovo Trattato; unione monetaria, fino alla creazione della moneta comunitaria unica. Era il percorso che doveva condurre, nel 1992, al Trattato di Maastricht, seguito poi da un nuovo importante rapporto della Commissione, noto come Libro Bianco di Delors, nel 1993.

Pochi giorni prima del Consiglio europeo di Madrid, nei giorni 15-18 giugno, era stato nuovamente eletto - per la terza volta a suffragio universale - il Parlamento europeo.

4. Per un'Europa più ampia e più unita

L'anno 1989, con il crollo del muro di Berlino, chiudeva un'epoca e ne apriva una nuova (un ‟nuovo inizio", come si usò dire). In meno di un anno la Germania era unificata. Appena un anno dopo si disfacevano il Partito Comunista dell'Unione Sovietica e la stessa URSS. Ne derivò un'accelerazione del cammino intrapreso verso l'Unione economica e monetaria europea. Ma cominciò anche a porsi l'interrogativo geopolitico: quale Europa? Un'Europa più ampia, e però anche - e prima ancora - un'Europa più saldamente e profondamente unita, capace di sostenere l'espansione geografica? Si profilava quella che doveva essere l'alternativa, la rincorsa o meglio la dialettica di ‛approfondimento' e/o ‛allargamento': questione centrale nel dibattito, nelle iniziative e nelle decisioni del primo quinquennio degli anni novanta.

La riunificazione della Germania faceva balzare in primo piano, finalmente, il problema e l'obiettivo della unificazione ‛politica' dell'Europa, a cominciare dalla unione in materia di politica estera e sicurezza. Ciò comportava - come ebbe a dire allora, con lungimiranza, François Mitterrand - un ‟glissement vers le fédéral", cui peraltro si opponeva ostinatamente il governo britannico guidato da Margaret Thatcher. Il danno causato dal ritardo nel procedere su questa via apparve evidente, di lì a poco, con la manifesta impotenza e inerzia dell'Europa di fronte all'aggressione dell'Iraq contro il Kuwait (la cosiddetta crisi e poi guerra del Golfo) e più tardi, in modo clamoroso e scandaloso, di fronte alla catastrofe iugoslava.

Nel 1990 due Consigli europei, tenutisi a Roma nei giorni 29-30 ottobre e 14 dicembre, stabilivano le direttive per le due conferenze intergovernative incaricate di tracciare il percorso verso il compimento dell'unione economica e monetaria e dell'unione politica, indicando gli obiettivi generali della politica estera e di sicurezza comune e le competenze e funzioni attribuite alle istituzioni comunitarie. Ma il segno più evidente dell'inizio della nuova epoca era ben percepibile nell'attenzione che il Consiglio europeo di dicembre dedicava alle relazioni con l'Unione Sovietica e con i paesi dell'Europa centrale e orientale.

Laboriosi e complessi furono i negoziati in seno alle due conferenze intergovernative nel corso del 1991. Il negoziato più arduo era certamente quello concernente la difesa europea comune, a proposito della quale occorre qui ricordare l'esistenza dell'Unione Europea Occidentale (UEO) costituita nel 1954 dai sei paesi fondatori della Comunità, ai quali si aggiunsero in seguito Regno Unito, Spagna e Portogallo. L'accordo sul nuovo trattato venne finalmente raggiunto nel Consiglio europeo tenutosi nei giorni 9 e 10 dicembre 1991 a Maastricht, la città olandese nel cui nome si sente ancora l'eco della sua origine come fortilizio a difesa del ponte romano della Mosa, ad Mosam traiectum. Nella stessa città il 7 febbraio 1992 il Trattato venne firmato dai ministri degli Esteri e delle Finanze degli Stati membri.

5. Il Trattato di Maastricht

Il Trattato di Maastricht è stato ampiamente e ripetutamente presentato, illustrato e commentato come una costruzione ‛a tre pilastri', che si trovano disegnati a grandi linee già nel secondo articolo (art. B), con l'enunciazione dei seguenti fondamentali obiettivi:

‟- promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di un'unione economica e monetaria il cui esito finale sia una moneta unica, in conformità delle disposizioni del presente trattato;

- affermare la sua identità sulla scena internazionale, segnatamente mediante l'attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune che potrebbe, successivamente, condurre a una difesa comune;

- rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante l'istituzione di una cittadinanza dell'Unione;

- sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni".

Vediamo allora come si configurano più precisamente e operativamente i tre pilastri, secondo i successivi articoli del Trattato.

Il primo è quello della Comunità Economica (CE), che unifica le tre Comunità preesistenti (CEE, CECA, EURATOM) sotto la guida - anzi si potrebbe dire sotto il governo - del Consiglio, del Parlamento e della Commissione. Viene ipotizzato uno sviluppo graduale che dovrà condurre alla completa fusione nella Unione Economica e Monetaria (UEM), con banca centrale europea e moneta unica, secondo un calendario la cui data finale si collocherà, a seconda della velocità del processo d'integrazione, tra il 1° giugno 1997 e il 1° gennaio 1999. Questa operazione viene qualificata come ‛federale' in virtù del cosiddetto ‟principio della sussidiarietà" enunciato nell'art. 3B, Titolo II, del Trattato, secondo il quale ‟nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque [...] essere meglio realizzati a livello comunitario". Fermo restando questo principio, il Trattato amplia e rafforza le competenze della Comunità specialmente in materia di ricerca e sviluppo tecnologico, di ambiente, di legislazione sociale, di promozione culturale.

Il secondo pilastro è costituito dalla Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), ‟istituita e disciplinata" - come annuncia l'art. J - dal Titolo V, artt. J1-J7. In realtà in questi articoli la PESC è proiettata nel futuro, non ancora istituzionalizzata. Soggetti attivi sono, nel corso di tutto il Titolo V, gli ‟Stati membri" che ‟si informano reciprocamente e si concertano in sede di Consiglio", il quale ‟ogniqualvolta lo ritenga necessario, definisce una posizione comune" (art. J2). È affermata, peraltro, la volontà di coordinamento delle politiche nazionali e di ricerca di posizioni comuni in seno alle organizzazioni internazionali; per la difesa è istituito un legame organico tra Unione Europea e UEO, alla quale - in quanto ‟parte integrante" dello sviluppo dell'Unione Europea - viene richiesto ‟di elaborare e di porre in essere le decisioni e le azioni della Unione aventi implicazioni nel settore della difesa" (art. J4/2). Ma tutte le disposizioni attinenti alla PESC ‟potranno essere rivedute - dispone ancora l'art. J4, comma 6 - in base a una relazione che il Consiglio presenterà al Consiglio europeo nel 1996 contenente una valutazione dei progressi attuati e dell'esperienza acquisita sino a quel momento".

Il terzo pilastro consiste nella ‟cooperazione intergovernativa" in funzione della ‟cittadinanza europea" istituita con l'art. G/C del Titolo II: in pratica riguarda principalmente la libera circolazione delle persone attraverso le frontiere degli Stati membri (come già a suo tempo convenuto tra Francia, Germania e Benelux con l'Accordo di Schengen del 1985) e perciò la responsabilità giudiziaria e di polizia in tale ambito. L'esilità di questo pilastro risulta particolarmente evidente al confronto con il Progetto di costituzione della UE che il Parlamento europeo ha votato nel febbraio 1994, approvando così il rapporto presentato dal deputato belga Fernand Herman (aderente al Partito Popolare Europeo), dove va subito notata e sottolineata l'attribuzione alla Corte di giustizia della competenza a pronunciarsi ‟su qualsiasi ricorso presentato da un privato, inteso ad accertare la violazione da parte dell'Unione di un diritto dell'uomo garantito dalla Costituzione" (art. 38 del Progetto).

Dal punto di vista istituzionale il Trattato di Maastricht va incontro in misura assai cauta e limitata all'esigenza di colmare il cosiddetto ‛deficit democratico': esigenza che si traduce in primo luogo nella proposta di estendere e rafforzare le competenze, le funzioni e i poteri del Parlamento europeo al riguardo. Tuttavia sul terreno della Unione Economica e Monetaria l'estensione dei poteri del Parlamento è rilevante e configura entro certi limiti un ruolo di ‛co-decisione'. Importante è anche il conferimento al Parlamento del potere d'investitura della Commissione, già esercitato nei confronti della Commissione nominata all'inizio del 1995. Ma in materia di politica estera e di sicurezza comune, il Parlamento, oltre a essere informato e consultato, può perfino ‟rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio. Esso procede ogni anno a un dibattito sui progressi compiuti nell'attuazione della politica estera e di sicurezza comune" (Titolo V, art. J7). Sostanzialmente identiche sono le disposizioni concernenti il ruolo del Parlamento riguardo alla ‟cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni" (Titolo VI, art. K6).

Sempre rispetto alla suddetta esigenza democratica è importante - e promettente - l'istituzione del Comitato delle Regioni, con funzioni soltanto consultive, che però aprono canali di partecipazione più articolata e decentrata.

La Commissione presieduta da Delors collaborò attivamente e pochi giorni dopo la firma del Trattato inviò al Consiglio una comunicazione intitolata Dall'Atto Unico al dopo Maastricht: i mezzi per realizzare le nostre ambizioni, alle quali, tuttavia, non giovarono certo le resistenze e le esitazioni che si manifestarono clamorosamente, in Danimarca con l'esito negativo del referendum sul Trattato (poi superato con una ratifica ottenuta al prezzo di alcune deroghe concesse a quello Stato), e in Francia, con un esito del referendum, che, anche se positivo, metteva in evidenza una vasta opposizione nell'opinione pubblica di quel paese.

Il contributo più sostanzioso fornito dalla Commissione al consolidamento della Unione Europea fondata a Maastricht lo si trova nel Libro Bianco sulla strategia a medio termine per la crescita, la competitività e l'occupazione, presentato dalla Commissione al Consiglio europeo di Bruxelles il 10 dicembre 1993. Al centro vi è il problema della occupazione. Già nel par. 3 dell'introduzione il Libro Bianco avverte che l'Unione Europea si trova di fronte a una ‟disoccupazione di massa" che investe 17 milioni di persone, pari all'11% della popolazione attiva: impressionante aumento rispetto ai 12 milioni, pari all'8%, del 1990; esso enuncia e illustra, per far fronte a questa situazione ‟drammatica" e ai ‟problemi strutturali" che la determinano, una ‟strategia di crescita" animata da un energico ‟spirito di solidarietà" e articolata in una serie di precise proposte in materia soprattutto di ‟ricerca e innovazione, organizzazione del lavoro, qualità dei prodotti, nuovi mercati, iniziative nei settori dei trasporti, dell'energia, delle telecomunicazioni", associate a ‟nuove politiche" di educazione e formazione, miranti a un ‟nuovo modello di sviluppo economico".

Ma l'iniziativa della neonata UE per l'attuazione del Libro Bianco tarda ad avviarsi, anche a causa delle difficoltà di ordine soprattutto finanziario che affliggono gli Stati membri, a cominciare dall'Italia, oppressa da un crescente debito pubblico che l'ha costretta a uscire temporaneamente dallo SME (Sistema Monetario Europeo), mentre avrebbe dovuto incamminarsi verso la moneta unica europea. Tarda pure l'avvio di una politica estera di difesa comune, che viene demandato alla Conferenza intergovernativa indetta per il primo semestre del 1996, durante il turno di presidenza del governo italiano. Quindi i propositi e gli impegni di ‛approfondimento' della Unione Europea si proiettano su tempi ben più lunghi di quelli auspicati e annunciati. E ciò anche a causa dei concomitanti problemi di ‛allargamento' ai paesi dell'Europa centrale e orientale.

6. I problemi della nuova Unione e la prospettiva dell'allargamento

Può considerarsi una diretta conseguenza del Trattato di Maastricht l'accordo - firmato a Porto il 2 maggio 1992 - che la nuova Unione Europea stabiliva con i sette paesi della Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA, European Free Trade Association): Austria, Finlandia, Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svezia, Svizzera. Era il preludio a quel processo di ‛allargamento' della UE che si prospettava in combinazione con il cosiddetto ‛approfondimento' avviato con il Trattato di Maastricht. E in queste due parole si trovano fin da allora sintetizzati i problemi, i propositi e gli sviluppi che dominano la storia dell'europeismo degli anni novanta.

L'Accordo di Porto con i sette paesi dell'EFTA, mirante alla creazione di uno ‟spazio economico europeo", apriva la strada ai negoziati per l'adesione all'Unione Europea di (secondo l'ordine cronologico delle domande formalmente presentate da ciascuno Stato) Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia, mentre quella della Svizzera rimaneva bloccata dall'esito negativo del referendum del 6 dicembre 1992. Nel luglio 1990 avevano presentato domanda di adesione la Repubblica di Cipro e la Repubblica di Malta.

Ma evidentemente il problema e la prospettiva dell'allargamento assumevano nuova dimensione e portata storica in seguito all'abbattimento del muro di Berlino e al disfacimento dell'Impero sovietico. E tuttavia l'attività delle istituzioni della nuova Unione Europea nel suo primo anno di vita (è entrata formalmente in vigore il 1° novembre 1993) è dominata dai problemi di messa in opera del Trattato, tra i quali va acquistando un peso sempre maggiore - e drammatico - quello dell'occupazione e, su un altro terreno, quello della capacità operativa della progettata unione politica e di difesa, messa subito a dura (e negativa) prova dalla catastrofe iugoslava.

Il problema preliminare per l'allargamento dell'Unione Europea ai paesi dell'Europa centrale e orientale era quello di creare le condizioni economiche e politiche per consentire la graduale integrazione nel tessuto economico e politico del mondo occidentale e in particolare la loro transizione verso l'economia di mercato. A tal fine sono stati stipulati, nel corso degli anni 1991-1992, accordi di ‛associazione', prima con Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia (l'accordo con quest'ultimo paese è stato in seguito sostituito da due accordi distinti con la Repubblica Ceca e con la Slovacchia) e poi con Romania e Bulgaria. Accordi di cooperazione sono stati stipulati nel 1992 anche con i tre paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania.

Il quadro complessivo dei problemi e anche dei risultati di tale intreccio di rapporti nella prospettiva dell'allargamento è stato presentato in termini chiari ed esaurienti al Consiglio europeo di Corfù (nei giorni 24-25 giugno 1994), che può considerarsi quasi il punto d'arrivo del decennio che qui abbiamo preso in esame. Seguendo l'ordine cronologico delle domande di adesione, quel Consiglio constatava: 1) che l'adesione di Cipro e Malta poteva considerarsi ormai ‟prossima"; 2) che ‟gli accordi europei con l'Ungheria e la Polonia sono ora in vigore" e che i due paesi ‟hanno presentato rispettivamente il 31 marzo e il 4 aprile 1994 la domanda per diventare membri della UE"; 3) che per quanto riguarda la Turchia sarà perseguito il ‟completamento della unione doganale prevista dall'accordo di associazione del 1964"; 4) che, come ha stabilito il Consiglio europeo di Copenaghen del giugno 1993, ‟i paesi associati dell'Europa centrale e orientale che lo desiderino possono diventare membri dell'Unione Europea non appena saranno in grado di soddisfare agli obblighi che ne derivano", parallelamente al ‟dialogo politico che dovrebbe essere pienamente ed efficacemente attuato in via prioritaria"; 5) che va perseguita la conclusione di accordi di associazione con gli Stati baltici in preparazione della ‟successiva adesione alla Unione"; 6) che ‟proseguiranno i contatti con la Slovenia al fine d'instaurare le migliori condizioni per una cooperazione accresciuta con tale paese". Intanto le domande di adesione di Austria, Finlandia e Svezia sono state accolte (la Norvegia è assente perché il referendum sull'adesione ha dato esito negativo) e i tre nuovi membri hanno partecipato al Consiglio europeo tenutosi a Cannes nei giorni 26-27 giugno 1995. Riunitosi per la prima volta con quindici membri, questo Consiglio ha accolto, nella sua seconda giornata, i rappresentanti dei nuovi paesi associati: sei dell'Europa centrale e orientale (Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca), tre baltici (Lettonia, Lituania, Estonia) e i rappresentanti di Malta e Cipro, candidati all'adesione.

Ma l'attenzione di quel Consiglio si è rivolta anche verso Sud, sollecitando ‟i paesi dell'Unione Europea e i loro partners nel Mediterraneo a cooperare maggiormente affinché il bacino del Mediterraneo diventi una zona di scambi e di dialogo che garantisca la pace, la stabilità e il benessere di quanti vivono sulle sue sponde"; perché ‟una politica di cooperazione ambiziosa al Sud costituisce il complemento della politica di apertura all'Est e conferisce coerenza geopolitica all'azione esterna dell'Unione Europea". La Conferenza ministeriale euromediterranea (convocata a Barcellona il 27 e 28 novembre 1995) doveva costituire ‟un'occasione senza precedenti per i paesi dell'Unione Europea e i loro partners nel Mediterraneo occidentale e orientale di definire insieme le loro relazioni future".

Viene così accolta la proposta avanzata dalla Commissione il 19 ottobre 1994 nella sua ‛comunicazione' al Consiglio e al Parlamento europeo su Una politica mediterranea più incisiva per l'UE: instaurazione di un nuovo partenariato euromediterraneo. Le tappe del percorso per raggiungere tale obiettivo sono così indicate: prima, una ‟zona di libero scambio sostenuta da un cospicuo aiuto finanziario"; seconda, una ‟più intensa cooperazione politica ed economica"; per giungere, terza tappa, a una vera e propria ‟associazione"; e per creare finalmente una ‟zona euromediterranea di pace e stabilità". È evidente il ruolo di iniziativa e di guida di cui l'Italia si trova di fatto investita, data la sua posizione centrale nel Mediterraneo e considerato l'interesse suo preminente alla instaurazione di quella ‟pace e stabilità".

7. I problemi istituzionali della nuova e allargata Unione Europea

Col negoziato per l'adesione dei quattro paesi dell'EFTA si è aperto il dibattito sui problemi istituzionali derivanti già da questo ulteriore allargamento e a maggior ragione da quello ancor più ampio e variegato che si prospettava. I precedenti allargamenti si erano effettuati in dimensioni e con gradualità tali da consentire adeguamenti di facile applicazione al quadro istituzionale esistente prima di Maastricht. Ma già a Maastricht, oltre alla prevista conferenza intergovernativa del 1996 per verificare lo stato di attuazione del Trattato e intraprendere le opportune revisioni, una ‛dichiarazione' indicava la scadenza del giugno 1994 per la revisione del numero dei componenti della Commissione e del Parlamento in conseguenza dell'unificazione della Germania e del previsto ingresso dei paesi dell'EFTA. E nel dicembre del 1993 un'altra ‛dichiarazione' del Consiglio europeo riunito a Bruxelles annunciava e disponeva che la Conferenza intergovernativa convocata per il 1996 ‟oltre all'esame della funzione legislativa del Parlamento europeo e agli altri punti stabiliti nel Trattato della Unione Europea, avvierà l'esame del problema del numero dei membri della Commissione e della ponderazione dei voti degli Stati membri in sede di Consiglio. Esaminerà inoltre le misure necessarie ad agevolare i lavori delle istituzioni e a garantirne l'efficace funzionamento".

Tre mesi dopo, i dodici paesi della Unione pre-allargamento, in una riunione informale del Consiglio Affari generali tenutosi a Ioánnina (sotto la presidenza greca, 26-27 marzo) giungevano alla decisione - con quello che fu poi chiamato il ‟compromesso di Ioánnina" - di invitare il Parlamento, il Consiglio e la Commissione a elaborare relazioni riguardo alla messa in opera del Trattato di Maastricht, da trasmettere a un gruppo di lavoro composto da rappresentanti dei ministri degli Esteri, istituito dal Consiglio europeo di Corfù nel giugno 1994 e incaricato di elaborare proposte di riforma delle istituzioni europee per la prevista Conferenza intergovernativa del 1996. Il singolare ricorso al ‛compromesso' in luogo della decisione, dovuto soprattutto a esigenze e obiezioni avanzate dal governo britannico, è chiaramente indicativo della complessità e difficoltà di trovare soluzioni istituzionali adeguate ai problemi derivanti dall'intreccio di ‛approfondimento' e ‛allargamento' dell'Unione.

Di fronte a tali problemi e prospettive, che si proiettano sulle sorti e sul ruolo dell'Europa alla fine di questo secolo, il progetto di riforma - anzi, di nuovo impianto istituzionale - più organico e lungimirante è certamente quello del Progetto Herman approvato dal Parlamento europeo (v. cap. 5). Esso potrebbe davvero inaugurare una nuova epoca per l'europeismo, rendendone protagonisti non più gli Stati nazionali, ma i cittadini d'Europa. Questo è il significato profondamente innovativo del passaggio dal Trattato alla Costituzione come base giuridica e progettuale dell'Unione: all'origine e a fondamento, non più la volontà, le esigenze e convenienze degli Stati nazionali sovrani, bensì i diritti e i doveri dei cittadini europei. Quindi un impianto istituzionale non più prevalentemente intergovernativo, ma interamente sovranazionale e capace di realizzare, finalmente, il proposito federalista che ha sempre animato l'europeismo.

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Il quadro sociale e politico di Sergio Romano

sommario: 1. Introduzione. 2. Gli ostacoli sul cammino dell'Unione. 3. Allargamento e riforme istituzionali. 4. La politica estera e militare. 5. La politica sociale e lo sviluppo. 6. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione

L'europeismo della seconda metà degli anni ottanta è fiducioso e dinamico. Uscita finalmente dal lungo tunnel delle crisi petrolifere e dell'inflazione galoppante, l'Europa si rimette al lavoro. L'obiettivo, soprattutto per i soci fondatori della Comunità originaria, è politico: la creazione di un grande soggetto federale. Ma la strategia resta fondamentalmente quella fissata da Jean Monnet negli anni cinquanta. Per fare l'Europa politica occorre deviare lungo le strade più lunghe, ma più facilmente percorribili, dell'unione economica. I progetti all'ordine del giorno sono quelli descritti da Antonio Giolitti (v. europeismo: Il processo istituzionale): occorre sostituire il ‛mercato comune' dei Trattati di Roma con un ‛mercato unico' e sopprimere di conseguenza tutte le barriere non tariffarie che ancora impediscono la libera circolazione degli uomini, delle merci, del denaro e dei servizi; e occorre, poi, completare il ‛mercato unico' con una moneta comune. Se ogni paese conservasse la propria sovranità monetaria e fosse libero di variare il valore del proprio denaro, gli scambi e la distribuzione delle risorse ne sarebbero turbati a vantaggio degli uni e a svantaggio degli altri.

Benché perseguiti con diversi accordi internazionali, i due obiettivi - mercato unico, moneta comune - sono quindi complementari. I progressi maggiori si concentrano nell'arco di dodici mesi fra l'incontro del Consiglio europeo a Maastricht, in cui fu approvato il progetto di Trattato sull'Unione Europea (9 dicembre 1991), e l'avvio del mercato unico (1° gennaio 1993). Non basta: questi progressi coincidono con la morte del comunismo e la disintegrazione dell'URSS.

La coincidenza fra i due avvenimenti - la costruzione di una nuova Europa e il collasso dell'impero sovietico - assume, pertanto, un significato simbolico. Delle due Europe che si sono confrontate per più di quarant'anni attraverso il sipario di ferro, la prima, quella delle libertà, tocca alcuni dei suoi più ambiziosi traguardi proprio nel momento in cui l'altra appare irrimediabilmente condannata. Qualcuno si spinge sino ad affermare che i progressi fatti dalla Comunità Europea nel corso degli anni ottanta sono una delle cause della crisi di sfiducia che si è abbattuta sull'URSS. Tra il Consiglio europeo di Maastricht e la scomparsa dell'Unione Sovietica (25 dicembre 1991) corrono appena due settimane. È cambiata, in quelle due settimane, la carta d'Europa.

2. Gli ostacoli sul cammino dell'Unione

Ma il 1992 è anche, al tempo stesso, l'anno in cui l'Europa trionfante si scontrò con le conseguenze, non sempre positive, della sua vittoria. Penso in particolare all'unificazione della Germania. Il collasso dell'impero sovietico, alla fine del 1989, permise alla Repubblica Federale di assorbire i sei Länder della Repubblica Democratica Tedesca: nacque in tal modo - o ‛rinacque' - una grande Germania, forte di circa ottanta milioni di cittadini. Questo ‛nuovo Reich' avrebbe potuto rinunciare alla politica d'integrazione europea e perseguire altri obiettivi; avrebbe potuto proporsi la creazione di un grande Commonwealth tedesco dal Reno al Dnepr e dal Baltico all'Adriatico. Grazie alla politica del suo cancelliere, Helmut Kohl, il governo tedesco mantenne invece i suoi impegni europei e accettò, con il Trattato di Maastricht, di rinunciare alla propria sovranità monetaria. Considerata in questa prospettiva, l'unificazione tedesca dimostra indirettamente la validità del progetto europeo. Ma le modalità finanziarie dell'unificazione (i marchi orientali vennero rimborsati alla pari) comportarono un prezzo economico che ricadde anche sulle spalle degli altri paesi europei ed ebbe conseguenze non sempre positive sull'evoluzione della situazione economica negli anni seguenti.

Mentre l'unificazione tedesca richiamava ingenti capitali internazionali, l'apparizione di una grande Germania rafforzava le preoccupazioni di una parte dell'opinione pubblica europea. Il referendum danese del 2 giugno e quello francese del 20 settembre 1992 dimostrarono ciò che molti avevano lungamente sospettato. Gli Europei sono ‛unitari' ogniqualvolta il problema dell'unità viene prospettato e discusso in termini generali e ideali; diventano ‛nazionali' ogniqualvolta l'Europa assume lineamenti precisi e minaccia di sottrarre agli Stati nazionali gli strumenti di cui questi si sono tradizionalmente serviti per proteggere i loro mercati e le prerogative economiche dei loro cittadini.

La contraddizione è particolarmente evidente nel caso della Gran Bretagna, di cui conviene ricordare per grandi linee la politica europea. L'adesione inglese il 1° gennaio del 1973 fu il risultato di un calcolo politico e di uno stato di necessità. Sino all'inizio degli anni sessanta l'Inghilterra aveva creduto e sperato che il mercato comune non avrebbe dato i risultati desiderati. Per evitare la nascita di un forte ‛blocco continentale' promosse nel 1959 la nascita dell'EFTA (European Free Trade Association), nella speranza di offrire all'Europa il modello economico che maggiormente corrispondeva ai propri interessi e alle proprie convinzioni. Sperava insomma, nonostante la crisi di Suez e la perdita dell'impero, di continuare a essere europea, atlantica e mondiale, nello spirito della metafora dei ‛tre cerchi' che Winston Churchill aveva disegnato per rappresentare la politica estera del suo paese dopo la fine della seconda guerra mondiale. Perché l'Inghilterra potesse continuare a essere punto di congiunzione fra i tre cerchi occorreva tuttavia che il cerchio europeo restasse debole e diviso. Gli Inglesi chiesero di aderire alla Comunità soltanto quando si accorsero che il mercato comune stava dando prova di grande dinamismo. Ma non rinunciarono mai né alla loro ‛filosofia' nazionale, né ai legami atlantici e mondiali che appartenevano al loro passato imperiale.

La Gran Bretagna entrò quindi nella Comunità per frenarne il progresso e per evitare di essere colta di sorpresa dai fatti compiuti dell'integrazione europea. Non ha mai avuto simpatia per l'Europa concepita dai ‛padri fondatori', anche se, non potendo permettere che si facesse dietro le sue spalle, finì per accettarne i progressi. Così accadde per l'appunto alla fine del 1990; nell'ottobre di quell'anno il Consiglio europeo di Roma superò le resistenze del primo ministro inglese, Margaret Thatcher, e fece un passo decisivo verso la creazione dell'Unione Economica e Monetaria. Testarda e sconfitta, la Thatcher era diventata, per la politica europea del suo paese, scomoda e imbarazzante. Nelle settimane seguenti i conservatori la sostituirono, alla presidenza del partito, con John Major e la costrinsero a dimettersi. Divenuto primo ministro, Major proseguì con maggiore accortezza e flessibilità la politica del suo predecessore; accettò il Trattato di Maastricht, ma non ne sottoscrisse le clausole sociali e riservò al suo paese il diritto di non aderire all'Unione Monetaria. Si potrebbe sostenere, paradossalmente, che la Gran Bretagna partecipa all'Unione per impedirne la nascita e per deviarla, nella misura del possibile, verso obiettivi più modesti. L'unificazione tedesca, le preoccupazioni di una parte dell'opinione europea per la ‛rinascita' di una grande Germania e la crisi recessiva degli anni seguenti le hanno fornito altrettanti argomenti e appigli per la sua azione di resistenza e di retroguardia.

3. Allargamento e riforme istituzionali

L'unificazione tedesca ebbe altre conseguenze. La Germania rinunciò alla grande Mitteleuropa che si sarebbe potuta costituire sotto la sua direzione, ma volle che alcuni fra i vecchi ‛satelliti' dell'URSS venissero ammessi nella Comunità. Le ragioni erano al tempo stesso politiche ed economiche: politiche, perché la Germania voleva approfittare della fine della guerra fredda per non essere più la marca orientale dell'Occidente; economiche, perché i mercati dell'Europa centro-orientale sono sempre stati sbocchi naturali dell'economia tedesca. Si riaccende così all'inizio degli anni novanta il vecchio dibattito tra ‛approfondimento' e ‛allargamento' (v. europeismo: Il processo istituzionale). I primi paesi candidati sono la Polonia, la Cecoslovacchia (che non si è ancora divisa) e l'Ungheria, ma il processo è destinato a includere anche i paesi del Baltico e della regione danubiano-balcanica. L'affermazione corrente secondo cui i due termini non sono contraddittori esprime un auspicio piuttosto che rappresentare la realtà. Gli uomini politici dell'Unione non possono voltare le spalle a paesi europei finalmente emersi da più di quarant'anni di regime comunista; ma sono preoccupati dalla prospettiva di una Unione che potrebbe allargarsi sino a comprendere circa venticinque Stati membri. Le regole prevalenti dell'unanimità e del consenso, con le quali la Comunità è stata sinora governata, ne paralizzerebbero i progressi. Realizzato in tali condizioni, l'allargamento condannerebbe l'Unione a diventare una semplice zona di libero scambio. Non sorprende che fra i paesi particolarmente sensibili al tema dell'allargamento vi sia la Gran Bretagna.

Il dibattito su ‛approfondimento' e ‛allargamento' ebbe tuttavia un effetto positivo. Costrinse i paesi membri a concentrarsi sul problema delle proprie riforme istituzionali. Il maggior tentativo per dare una costituzione fu quello promosso da Altiero Spinelli dopo l'elezione popolare del primo Parlamento europeo nel 1979. Ma il progetto di trattato, nato dall'azione di Spinelli e approvato dai parlamentari europei nel febbraio 1984, concedeva troppi poteri al Parlamento perché i governi fossero disposti ad accoglierne integralmente le raccomandazioni. Commetteremmo un errore, tuttavia, se interpretassimo questo dissidio come espressione di una classica contrapposizione tra esecutivo e Parlamento. Il contrasto, in questo caso, è tra il Parlamento europeo e i singoli Stati membri. Quando alcuni governi resistono alle norme che ridurrebbero il loro potere d'interdizione nei processi decisionali della Comunità, lo fanno anche in nome delle istituzioni e dei gruppi dirigenti del loro paese: parlamenti, partiti, ministeri, sindacati, gruppi di pressione economici e finanziari. Il Parlamento europeo è debole anche e soprattutto perché rappresenta complessivamente una frazione marginale e poco rilevante di classi politiche la cui constituency resta fortemente nazionale.

Ma il dibattito sull'allargamento - ripeto - sortì comunque un risultato positivo: indusse i paesi più europeisti a chiedere con maggiore urgenza l'adeguamento della ‛costituzione' europea alle funzioni e agli obiettivi dell'Unione. Se l'Europa comunitaria era destinata ad allargarsi occorreva affrontare e risolvere anzitutto il problema dei suoi meccanismi decisionali. È questa la ragione per cui si decise che i negoziati sull'allargamento sarebbero cominciati soltanto sei mesi dopo la fine della Conferenza intergovernativa convocata a Torino, nella primavera del 1995, per aggiornare tra l'altro la ‛costituzione' europea.

4. La politica estera e militare

Un altro ostacolo, sorto improvvisamente sulla strada dell'Europa all'inizio degli anni novanta, fu la disintegrazione della Iugoslavia. In una prima fase la Comunità intervenne per restaurare lo status quo. Occorreva salvare, per quanto possibile, lo Stato iugoslavo e soprattutto evitare che qualche repubblica approfittasse di quella difficile fase di passaggio per rimettere in discussione le frontiere originali della Federazione. La Comunità adottò a tal fine due politiche diverse: in un primo tempo - con un piano proposto dal suo mediatore, lord Carrington - cercò di favorire una soluzione ‛soffice', sperando di convincere le repubbliche a mantenere in vita alcune strutture comuni; in un secondo tempo riconobbe la Slovenia, la Croazia e successivamente la Bosnia nella speranza di tagliare il vecchio tessuto federale lungo le ‛cuciture' repubblicane e evitare così lo strappo della guerra civile. Le due politiche rispondevano a uno stesso fine: il rispetto dei confini. Il 29 luglio del 1991 - poche settimane dopo la proclamazione dell'indipendenza croata e slovena - i dodici ministri degli Esteri della Comunità ‟dichiararono [...] i confini interni [...] inviolabili quanto i confini internazionali". Che i maggiori responsabili dell'ordine europeo cercassero di tenere chiuso il vaso di Pandora delle rivendicazioni territoriali, era perfettamente comprensibile. Ma nella realtà iugoslava questo obiettivo si scontrò con un altro principio - il diritto dei popoli all'autodeterminazione - che le potenze europee avevano proclamato nell'Atto di Helsinki del 1975 e nella Carta di Parigi del 1990. Era impossibile perseguire il primo senza trascurare il secondo; era impossibile ammettere il secondo senza violare il primo. Fu questa la contraddizione di cui l'Europa divenne prigioniera nell'estate del 1991. Finché voleva conservare l'unità della Federazione, l'Europa era obiettivamente alleata di Belgrado, dei Serbi e di tutti coloro che traevano vantaggio o soddisfazione dall'unità dello Stato; quando modificò la propria linea politica e decise di tutelare per quanto possibile l'integrità territoriale delle repubbliche costitutive, divenne obiettivamente alleata di coloro - prima i Croati, poi i Bosniaci - che volevano separarsi da Belgrado senza perdere i territori prevalentemente abitati da popolazioni serbe.

La posizione dell'Europa fu resa ancora più difficile dall'atteggiamento degli Stati Uniti. Allo scoppio della crisi George Bush, allora presidente, disse esplicitamente che il problema era europeo e lasciò chiaramente intendere che il suo paese non si sarebbe lasciato coinvolgere. Ma il suo successore, Bill Clinton, decise di dare retta a quei settori dell'opinione pubblica che chiedevano agli Stati Uniti maggiori iniziative e intraprese, da allora, una politica alquanto diversa da quella che gli Europei stavano perseguendo sul terreno. Aiutò i Croati e i Bosniaci musulmani, favorì la creazione di una federazione antiserba, disapprovò e respinse i piani di pace del mediatore europeo, raccomandò azioni di rappresaglia dall'aria contro le forze serbe. Mentre gli Europei, sul terreno, cercavano laboriosamente di conciliare l'intangibilità delle frontiere e l'autodeterminazione dei popoli, gli Americani videro nella crisi iugoslava l'occasione per valorizzare il ruolo della NATO, vale a dire dell'alleanza che garantisce agli Stati Uniti la leadership politico-militare del continente europeo. Per due anni, fra il 1993 e il 1995, l'Europa e l'America seguirono nella vecchia Iugoslavia politiche diverse, potenzialmente conflittuali: sino al giorno in cui la dissennata offensiva serba contro Srebrenica offrì all'America l'occasione per una grande offensiva militare dall'aria. Nelle settimane seguenti gli Americani strapparono agli Europei la direzione politica della crisi e imposero ai Serbi gli accordi di Dayton.

Fu questa, per grandi linee, l'evoluzione della situazione iugoslava. Lo scacco dell'Europa non fu dovuto soltanto alla mancanza di una politica estera comune e di uno strumento militare unitario. Fu dovuto anche e soprattutto alla decisione degli Stati Uniti di perseguire obiettivi diversi e alle continue interferenze della politica americana in quella europea. L'opinione pubblica vide nelle vicende di quei mesi l'impotenza dell'Europa. Ma non prestò sufficiente attenzione al fatto che l'impotenza era il risultato di un problema irrisolto: i rapporti politico-militari fra l'Europa e gli Stati Uniti.

Per comprendere la natura di quei rapporti conviene tornare a un'altra brutta pagina di storia europea: il fallimento del progetto per la creazione di una Comunità Europea di Difesa. Il trattato cadde al Parlamento francese, nell'agosto del 1954, quando comunisti e gollisti si coalizzarono per impedirne la ratifica. Fu quello il momento in cui gli europeisti decisero di abbandonare per il momento i loro ambiziosi progetti politico-militari e di puntare sull'integrazione economica. Più tardi, in molte occasioni, riesumarono dai loro archivi gli statuti dell'UEO (Unione dell'Europa Occidentale) e cercarono di farne l'organizzazione militare di una politica estera europea. Ma ogni tentativo si scontrò con il ricordo dell'esperimento fallito e soprattutto con l'inconfessata ostilità degli Stati Uniti per qualsiasi progetto destinato a promuovere l'autonomia militare dell'Europa. È questa una delle ragioni per cui la PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune) fu sempre un esercizio retorico, una clausola di stile oppure, nella migliore delle ipotesi, un auspicio inserito - a futura memoria - nei documenti che gli Europei sottoscrissero durante gli anni seguenti. Per la politica estera e militare dell'Europa fu adottata di fatto una massima simile e opposta a quella che Gambetta raccomandò ai suoi connazionali dopo la sconfitta del 1870: fu deciso che occorreva parlarne sempre e non farla mai.

Giustificato negli anni della guerra fredda, quando la minaccia sovietica sconsigliava una crisi euro-americana, questo atteggiamento divenne meno comprensibile negli anni in cui la scomparsa dell'URSS avrebbe dovuto suggerire un diverso equilibrio nei rapporti fra l'Europa e gli Stati Uniti. Ma la crisi iugoslava dimostrò che l'Europa non aveva né i mezzi né la voglia di affrontare l'America su questo terreno. Poco importa che la dimostrazione avesse avuto luogo nella peggiore delle condizioni possibili e che gli Europei, in molte circostanze, avessero dato prova di grande pazienza, tenacia, immaginazione diplomatica. Le apparenze dettero ragione all'America e torto all'Europa.

5. La politica sociale e lo sviluppo

Al ‛fallimento' della politica europea in Iugoslavia risale un giudizio negativo che si accentuò ed estese negli anni seguenti. L'Europa, nel giudizio dei suoi critici, è soltanto economica e monetaria. Non ha un'‛anima' politica, culturale, sociale. È un arido codice di clausole finanziarie, incapace di dare una risposta ai grandi problemi dell'epoca: la disoccupazione giovanile all'interno delle sue frontiere, la crisi dei paesi dell'Est, la domanda di lavoro dei paesi sottosviluppati. Questo dibattito è strettamente collegato con la sorte di un documento che fu per qualche tempo, in quegli anni, al centro del dibattito europeo.

Il documento a cui mi riferisco è il Libro Bianco su crescita, competitività, occupazione, voluto da Jacques Delors, allora presidente della Commissione delle Comunità Europee, negli ultimi mesi della sua presidenza. Delors constatò la gravità della recessione, ma ricordò che essa concerneva soltanto gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone senza investire la Cina e altre economie asiatiche. Non era una crisi generale, quindi, ma una crisi che risaliva per molti aspetti all'apparizione sul mercato mondiale di nuovi soggetti economici, dinamici e intraprendenti. ‟Tocchiamo ora il fondo di tale crisi - continuava Delors - e riesce estremamente difficile impedire che l'opinione pubblica, incoraggiata da molti uomini politici, identifichi la costruzione europea con la recessione economica, benché il buon senso permetta di affermare che anche senza costruzione europea resterebbero oggi due grandi problemi a preoccuparci, l'avvenire del lavoro e dell'occupazione e la competitività delle economie europee".

Per superare la crisi ed evitare che essa suscitasse un'altra ondata di ‛euroscetticismo' occorreva, secondo Delors, agire in quattro direzioni: approfondire il mercato interno per meglio sfruttarne le potenzialità; realizzare ‟grandi reti [...] per fornire a questo grande spazio economico i mezzi per circolare più rapidamente e a costi minori"; puntare sulla rivoluzione informatica; continuare il processo di unione economica e monetaria. ‟Quanto più la recessione è dura - scriveva Delors nella sua prefazione - tanto più è rimessa in discussione la filosofia dell'UEM (Unione Economica e Monetaria). La constatazione empirica [...] dimostra che i paesi che hanno beneficiato della stabilità monetaria hanno realizzato risultati economici migliori e hanno creato un numero di posti di lavoro superiore a quelli che hanno conosciuto l'instabilità monetaria".

In altre circostanze economiche il doppio programma di Delors - rilanciare l'occupazione, unificare le economie e le monete - avrebbe avuto qualche possibilità di successo. Nelle condizioni politiche ed economiche degli anni successivi il documento non ebbe fortuna. Costretti a scegliere fra il rilancio dell'occupazione e il perseguimento dei criteri di convergenza fissati dal Trattato di Maastricht - debito pubblico, deficit, inflazione, tassi d'interesse - i governi dei paesi dell'Unione scelsero risolutamente il secondo obiettivo. Si avverarono quindi le previsioni di Delors e si fece strada in una parte dell'opinione pubblica il falso convincimento che Europa e recessione fossero termini complementari di uno stesso fenomeno.

6. Conclusioni

Il cronista è costretto a constatare che il decennio si conclude in un clima di preoccupazione e scetticismo nel quale si fanno strada correnti di opinione ostili ai principî del Trattato di Maastricht.

Considerato in una prospettiva storica questo fenomeno è perfettamente comprensibile. Il caso e la storia hanno voluto che le tappe decisive del processo d'integrazione economico-monetaria coincidessero con la graduale creazione di un mercato mondiale in cui l'Europa deve sostenere la concorrenza di nuove economie. Non basta quindi conformarsi ai criteri di convergenza fissati dal Trattato. Occorre farlo in un momento in cui è necessario riformare le proprie strutture sociali e assistenziali, il proprio mercato del lavoro, la funzione dell'impresa nella società. Alla fine del decennio l'Europa è impegnata in un faticoso e doloroso processo di modernizzazione di cui conosceremo l'esito e i risultati soltanto all'inizio del prossimo secolo. Una constatazione tuttavia s'impone: se il clima europeo alla fine del decennio è particolarmente pesante, nessuno, fra i critici di Maastricht, sembra essere in grado di suggerire una politica alternativa.

Resta il problema dell'Europa politica, vale a dire dell'obiettivo che maggiormente preoccupava gli uomini di Stato europeisti degli anni cinquanta. Gli scarsi progressi fatti durante il decennio dimostrano che il traguardo è ancora lontano. Sulla strada dell'unificazione politico-militare vi sono molte gelosie nazionali e il problema insoluto dei rapporti euroamericani. Ma certe resistenze all'Europa di Maastricht dimostrano che l'Unione Monetaria rappresenta pur sempre la migliore delle ‛deviazioni' possibili per ridurre progressivamente la sovranità degli Stati membri. Il vecchio calcolo di coloro che parteciparono alla Conferenza di Messina e firmarono i Trattati di Roma - dall'unità dell'economia emergerà, prima o dopo, l'unità della politica - resta valido e attuale.

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