Eutanasia

Il Libro dell'Anno 2007

Ignazio R. Marino

Eutanasia

«Non darò a nessuno farmaci mortali, neppure se richiesto, né mai suggerirò di prenderne»

(Giuramento di Ippocrate)

Accanimento terapeutico ed eutanasia

di

20 dicembre 2006

Esaudendo la volontà del paziente, il medico anestesista Mario Riccio spegne il ventilatore polmonare che teneva in vita Piergiorgio Welby. La richiesta di Welby «di avere una morte opportuna», rivolta il 22 settembre al presidente della Repubblica, aveva suscitato un ampio dibattito tra quanti ritenevano l’interruzione della respirazione artificiale una forma di eutanasia e quanti invece parlavano di accanimento terapeutico per la sua prosecuzione.

necessità di chiarezza

Negli ultimi anni, grazie ai progressi compiuti dalla scienza in ambito medico, l’opinione pubblica viene sempre più spesso sollecitata a riflettere e a interrogarsi sulle tematiche legate alla fine della vita e alle implicazioni legate all’evolversi delle malattie. Con l’intensificarsi del dibattito pubblico e politico su questi delicati argomenti, anche grazie alla cassa di risonanza mediatica in occasione di fatti di cronaca eclatanti, è parallelamente cresciuto l’uso di termini quali accanimento terapeutico, eutanasia, testamento biologico, consenso informato o sospensione delle cure. Si tratta di locuzioni che spesso vengono utilizzate come fossero sinonimi, quando invece ognuna ha un preciso significato che va chiarito e puntualizzato nel momento in cui si vuole affrontare il tema in maniera rigorosa e non indurre confusione e disorientamento nell’opinione pubblica. I dilemmi che riguardano la fine della vita e la malattia si fanno oggi sempre più frequenti e complicati, dato che il progresso scientifico applicato alla medicina permette di salvare e curare un numero sempre maggiore di pazienti - fatto certamente positivo - ma che al tempo stesso le tecniche di rianimazione sono arrivate a un punto tale da poter prolungare artificialmente, anche per un tempo indefinito, alcune funzioni vitali in malati che hanno perso ogni ragionevole speranza di recuperare l’integrità intellettiva. Tutto questo ci deve fare riflettere e discutere non solo sul ruolo del medico e sui diritti dei pazienti, ma anche sulla necessità o meno di intervenire con leggi specifiche in materia al fine di colmare il vuoto legislativo che caratterizza l’Italia.

Accanimento terapeutico, una difficile definizione

Per accanimento terapeutico in genere si intendono tutte quelle procedure mediche messe in atto per prolungare in modo artificiale le funzioni vitali di pazienti terminali che non hanno più alcuna possibilità di guarire né di migliorare. Perseverare inutilmente, cioè, nel trattamento di una malattia che sta conducendo a morte certa e che non ha possibilità di concludersi con un altro esito, utilizzando una tecnologia che serve solo a prolungare uno stato agonico. Si parla di rischio di accanimento terapeutico, quindi, per quel paziente che riceve terapie e cure straordinarie che non lo aiutano a guarire dalla malattia che lo affligge, bensì allontanano il momento della morte naturale, prolungando artificialmente la sua vita biologica. Questo provoca, quasi sempre, sofferenze, frustrazione e dolore costante nei pazienti che lo subiscono e nei loro familiari. Benché sostanzialmente tutti, tenendo in considerazione i differenti orientamenti di pensiero e religiosi, siano concordi nel dirsi contrari all’accanimento terapeutico, a tutt’oggi non se ne riesce a trovare una definizione univoca, poiché ogni singolo caso implica molteplici varianti che differiscono le une dalle altre a seconda della malattia, del paziente, dei trattamenti in atto. Questo anche perché ciò che viene inteso e percepito come accanimento terapeutico è profondamente soggettivo. Quello che può non essere tollerabile e accettabile per un paziente può essere ritenuto assolutamente degno per un altro, pur implicando sofferenze o sacrifici. Una possibile definizione di accanimento terapeutico potrebbe essere, quindi, perseverare nel tempo trattamenti e cure che, pur mantenendo il paziente in condizioni stabili e consentendogli di proseguire artificialmente la sua vita biologica, non sono volti al miglioramento delle condizioni di salute e vengono percepiti dal malato come non accettabili, sproporzionati per la propria malattia e non dignitosi per sé stessi.

Un punto di profonda criticità e dibattito sta proprio nello stabilire quali terapie vanno intese come accanimento terapeutico e quali no. Molti malati terminali vengono mantenuti in vita con l’ausilio di macchinari e tecnologie straordinarie come un respiratore meccanico, un tubo inserito chirurgicamente nello stomaco per portare nutrizione e idratazione, un apparecchio per la dialisi per filtrare e purificare il sangue e la somministrazione di numerosi farmaci. In merito alle terapie le opinioni si diversificano. C’è chi, per esempio, ritiene che la nutrizione e l’idratazione artificiale non vadano considerate come vere e proprie terapie, ma come semplice supporto al malato e per questo non sia possibile sospenderne la somministrazione. Altri pensano invece che, trattandosi di pratiche straordinarie che necessitano dell’intervento di un chirurgo per incidere lo stomaco e inserirvi una cannula e di un medico per dosare le sostanze chimiche da somministrare, non possano essere considerate in maniera diversa da una terapia. In altre parole, che cosa ci sarebbe di fondamentalmente diverso tra il somministrare una soluzione nutriente attraverso un tubo inserito chirurgicamente nello stomaco di un paziente e l’iniettare un farmaco nelle vene con una flebo? Sono questioni estremamente delicate che, proprio per la vastità di interpretazioni a cui si prestano, non consentono di giungere a una univoca definizione. L’accanimento terapeutico è, come si è detto, una pratica condannata da tutti, come del resto è condiviso e accettato il principio della libertà dell’individuo nei confronti delle cure mediche, un concetto espresso anche dalla Costituzione italiana che, all’art. 32, recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La posizione dei medici è concorde con questo enunciato e nel nuovo codice di deontologia, approvato nel dicembre 2006 dall’Ordine dei Medici, si prevede che «il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita» (capo IV, art. 16). Anche la Chiesa cattolica concorda con questa impostazione. Nel Catechismo del 1992 (parte III, paragrafo 2278) infatti si legge che «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente». Questa definizione è in linea con il principio dell’interruzione delle procedure mediche pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto al loro esito, e si può parlare, in questi casi, di accanimento terapeutico. Secondo il Catechismo la rinuncia all’intervento medico, o la limitazione delle cure, devono dunque ritenersi legittime. Il diritto a rinunciare a terapie o cure che non si ritengono accettabili o tollerabili è, del resto, qualcosa che tutti i cittadini italiani esercitano attraverso il meccanismo del consenso informato, che è ammesso da tutti e obbligatorio per legge. Per eseguire un qualunque esame diagnostico o un intervento chirurgico, infatti, il medico deve preventivamente informare il paziente sui rischi che corre e sulle possibilità di successo o di insuccesso collegate a una determinata terapia. Il paziente è libero di accettare oppure di rifiutare qualsiasi tipo di intervento o trattamento. Nessuno potrà mai obbligarlo a sottoporsi ad alcuna procedura medica contro la sua volontà. Attraverso il consenso informato, quindi, si esercita il diritto di rifiutare, in modo vincolante per qualsiasi operatore sanitario, qualunque trattamento che non sia obbligatorio per legge per motivi di salute pubblica o di sicurezza.

È dunque evidente che l’impostazione generale, accolta da tutti, è quella di condannare la pratica dell’accanimento terapeutico e di considerare legittima l’autodeterminazione del paziente nelle decisioni riguardanti i trattamenti sanitari a cui sottoporsi.

I casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro

Le tematiche sulla fine della vita sono diventate argomento d’attualità con un drammatico caso che ha fatto molto discutere, quello di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare progressiva dall’età di 18 anni, completamente paralizzato, confinato a letto e collegato a un respiratore meccanico dal 1998. Negli ultimi mesi della sua vita, quando il male era divenuto ormai insostenibile, Welby ha chiesto di potersi avvalere del diritto di rinunciare ai trattamenti a cui era sottoposto, cure che per lui non erano altro che accanimento e prosecuzione di un calvario disumano e inaccettabile. Aveva consapevolmente auspicato la fine naturale della propria vita e aveva chiesto di essere lasciato andare, prima con una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e successivamente rivolgendosi ai giudici e ai presidenti della Camera e del Senato. Un appello drammatico, amplificato attraverso i media. L’atroce malattia non poteva avere altro esito che la morte e lo avrebbe portato a breve, per l’ormai prossima perdita anche della possibilità di deglutire, a dover essere nutrito e idratato in maniera artificiale, attraverso un tubo inserito chirurgicamente nello stomaco: un intervento che Piergiorgio Welby avrebbe rifiutato e questo avrebbe implicato una lunga e straziante agonia prima di morire. La richiesta di Welby, come sappiamo, non è stata ascoltata e la sua scelta ultima è stata quella di farsi aiutare da un medico a porre fine al suo calvario. La particolarità e allo stesso tempo la drammaticità del caso di Piergiorgio Welby sono da ricondursi al fatto che egli poteva autonomamente esprimere le proprie volontà. Ha detto, e ripetuto molte volte, coscientemente, che non riteneva più accettabili le terapie e lo stato in cui era costretto a vivere. Esercitava, quindi, capace di intendere e di volere, il diritto all’autodeterminazione delle cure.

Una situazione completamente diversa è quella di Eluana Englaro, incapace di esprimere il proprio volere perché mantenuta in stato vegetativo permanente, in cui versa dal 1992 in seguito a un incidente stradale. Nonostante i ripetuti sforzi della famiglia per fare rimuovere il tubo dell’alimentazione e sospendere tutte le altre terapie, non giustificabili data l’impossibilità di guarigione o anche solo di un minimo miglioramento della ragazza, per ben sette volte il tribunale si è espresso in maniera negativa, in mancanza di una legge che permetta di ‘staccare la spina’. I casi sono apparentemente simili, in quanto entrambi costretti a una vita dipendente da mezzi e assistenza esterni ed entrambi condannati a non poter migliorare, ma con una sostanziale differenza nella capacità di poter esprimere il proprio volere. Questa differenza ha contribuito a sottolineare l’evidenza di un vuoto legislativo che lascia disatteso il diritto fondamentale dell’uomo alla autodeterminazione rispetto alle terapie. Tale diritto dovrebbe valere per tutti, anche per chi ha perso la capacità di intendere e di volere. Di qui prende origine l’idea di dotare i cittadini di strumenti legislativi di decisione che rispettino il paziente anche quando non è più in grado di manifestare il proprio pensiero e allo stesso tempo tutelino il medico nell’esercizio della sua professione. Uno di questi strumenti è il testamento biologico, o dichiarazioni anticipate di volontà.

Il testamento biologico

Il diritto che si vuole riconoscere anche in Italia con le dichiarazioni anticipate di volontà è quello di poter indicare in piena coscienza le cure e i trattamenti che ogni persona ritiene accettabili per sé, nel caso in cui, nel futuro, versasse in stato di incoscienza per una malattia terminale, o fosse in stato vegetativo permanente e, quindi, privo della capacità di intendere e di volere. In altre parole,

il diritto all’autodeterminazione dell’individuo rispetto alle terapie mediche, applicabile anche in una condizione nella quale non sia più possibile esprimere il proprio pensiero. Il testamento biologico consiste appunto nell’indicazione scritta della volontà del malato, in modo da estendere il principio del consenso informato anche a chi ha perso la possibilità di comunicare con i medici. Negli Stati Uniti, anche in assenza di un documento esplicito come il testamento biologico, interrompere le terapie quando non esiste una ragionevole speranza di riportare il paziente a una condizione di vita accettabile e a recuperare le proprie facoltà intellettive non solo è una prassi diffusa negli ospedali, ma è una possibilità prevista da regole precise, rispettate dagli operatori sanitari senza suscitare alcun clamore o polemica. Nella maggior parte dei casi la decisione viene presa di comune accordo tra i medici e i familiari del paziente e solo molto raramente si corre il rischio che si creino dei conflitti. In Italia, in assenza di una legge che tuteli non solo il paziente, ma anche il medico, quest’ultimo, se decidesse di sospendere le terapie a una persona in coma per una malattia terminale che non ha più speranza né di guarigione, né di miglioramento, né di recupero dell’integrità intellettiva, potrebbe essere accusato di omicidio volontario. Recenti sondaggi e ricerche che hanno coinvolto medici e cittadini dimostrano che gli italiani si aspettano un intervento legislativo in questo campo. Per la prima ricerca nazionale sull’opinione dei medici – presentata il 23 novembre 2006 al Senato della Repubblica durante il convegno La politica e il dolore – è stato intervistato un campione composto da 266 professionisti, la maggioranza dei quali oncologi e anestesisti-rianimatori, operanti in 19 ospedali italiani, distribuiti omogeneamente nel paese. Ne è emersa una conoscenza sommaria da parte della classe medica italiana sul tema delle dichiarazioni anticipate di volontà, accompagnata tuttavia da un complessivo interesse ad affrontare questi temi. Le motivazioni di tale interesse vanno ricondotte, secondo i dati riportati dalla ricerca, a questioni di stampo etico e morale relative alla prassi clinica (il carico emotivo e deontologico del medico nell’affrontare situazioni complicate), ad argomenti centrati sul paziente, come il rispetto delle sue volontà, fino a questioni più tecniche, legate agli aspetti legali dell’attività professionale. Il 60% dei medici ritiene che la volontà del paziente debba essere tenuta in considerazione e la metà si dice favorevole al testamento biologico. Comunque, dalla ricerca risulta che i medici affrontano con grande sensibilità e coinvolgimento le tematiche legate alla fine della vita e ai conseguenti comportamenti che devono essere adottati nei confronti dei malati terminali e non coscienti.

Per quel che riguarda invece le opinioni dei cittadini italiani, i dati raccolti dall’istituto di ricerca Eurispes nel Rapporto Italia 2007 rivelano che tre italiani su quattro sono favorevoli a una legge sul testamento biologico e che l’84% ha le idee chiare su che cosa si intenda con questo termine e di conseguenza esprime il desiderio di poter lasciare delle disposizioni in merito ai trattamenti sanitari a cui accetta di essere sottoposto se un giorno si trovasse in coma o nell’impossibilità di comunicare e di fornire il proprio consenso alle cure. Questi temi apparentemente ostili o comunque difficili da affrontare sono quindi ben presenti e chiari nella mente degli italiani. Un’altra informazione importante che emerge in maniera lampante è che gli italiani, quando si tratta di cure e terapie, preferiscono decidere autonomamente, al limite affidandosi a una persona di fiducia, solitamente un familiare, mentre non amano l’idea che l’ultima parola spetti al medico e tanto meno al tribunale. I dieci disegni di legge sul testamento biologico attualmente (autunno 2007) all’esame della Commissione igiene e sanità al Senato di Palazzo Madama differiscono tra loro soprattutto su tre punti critici. Innanzitutto per quel che riguarda l’introduzione della figura del fiduciario, una figura immaginata per interpretare le volontà del paziente, che dovrebbe essere scelto perché ha condiviso con continuità momenti, pensieri e idee con la persona che gli ha affidato le proprie indicazioni e, quindi, si suppone sia in grado di capire se, in quella determinata circostanza, avrebbe voluto essere sottoposto a ulteriori terapie oppure ne avrebbe chiesto la sospensione. Il secondo punto di criticità riguarda l’eventuale discrepanza tra l’interpretazione del testamento biologico da parte della famiglia, o del fiduciario, e il medico. Secondo la proposta di cui chi scrive è il primo firmatario, in caso di conflitto, dovrebbe essere coinvolto il comitato etico dell’ospedale o della ASL di competenza, chiamato a interpretare la soluzione più aderente a quella espressa nel testamento biologico. Secondo altri dovrebbe essere la magistratura o il medico stesso. Probabilmente non esiste una soluzione perfetta su questo punto: si tratterà di individuare il percorso meno conflittuale e più condivisibile. Il terzo aspetto, forse il più delicato, riguarda la decisione di interrompere, insieme a tutte le altre terapie, anche l’idratazione e la nutrizione artificiali in un paziente che non è più in grado di svolgere autonomamente queste funzioni. Il dibattito si articola sul diverso modo di considerare tali pratiche tra chi le ritiene come sostentamento o supporto,

e quindi sempre necessarie e non eliminabili, e chi invece le considera vere e proprie terapie, soggette a essere sospese quando non c’è più una ragionevole speranza di miglioramento per il paziente e che, quindi, non possono che prolungarne l’agonia.

Il dibattito sull’eutanasia

La parola eutanasia, che deriva dal greco euthanasía composto di eu, bene, e thánatos, morte, quindi «buona morte», indica un gesto attivo e volontario atto a porre fine a una vita secondo la richiesta di un ammalato. Questo termine, che suscita forti contrasti ogni volta che viene pronunciato, va riferito in particolare alla volontà espressa da una persona, colpita da una grave malattia, senza speranza di guarigione e incapace di sopportare oltre la sofferenza, di farsi somministrare sostanze velenose che l’aiutino a terminare quell’esistenza dolorosa. L’eutanasia implica, dunque, l’intervento di una persona che, consapevolmente e direttamente, procura la morte di un’altra, che ne ha fatto esplicita richiesta; senza tale richiesta si tratterebbe di omicidio. Dal punto di vista strettamente pratico, nella maggior parte dei casi consiste nell’iniettare nelle vene del paziente un veleno, il cloruro di potassio, che nel giro di pochi secondi, arrestando il cuore del malato, lo conduce alla morte. Trattandosi di un gesto attivo, l’eutanasia suscita da sempre forti polemiche e contrasti e nella maggior parte dei paesi del mondo è una pratica non accettata e anzi considerata un reato. Si sente spesso parlare, con l’utilizzo di un linguaggio impreciso che genera molta confusione, di eutanasia attiva e eutanasia passiva. Per eutanasia attiva, alcuni intendono quella appena descritta. Coloro che adoperano questo linguaggio intendono, invece, per eutanasia passiva la sospensione delle terapie necessarie a mantenere in vita una persona, come potrebbe essere per esempio il respiratore meccanico oppure la dialisi, e indurre quindi la morte passivamente e non con un gesto attivo e diretto. Questa distinzione è impropria e introduce una terminologia che rende più complessa una onesta ricerca di condivisione etica. In molti paesi del mondo, non in Italia, la sospensione delle terapie è un atto del tutto lecito e compiuto con severa responsabilità negli ospedali. Di fronte alla drammatica evidenza che non ci sia più nulla da fare per la vita e la salute di un paziente, il medico, in accordo con la famiglia, può decidere di sospendere le cure, evitando così di cadere nell’accanimento terapeutico. Un atto ben diverso da quello eutanasico poiché consiste nell’interrompere il ricorso a terapie che non favoriscono il miglioramento delle condizioni di salute del paziente, bensì prolungano artificialmente un’esistenza ormai senza speranza. Insomma, non si tratta di uccidere, ma di prendere atto che non c’è più nulla da fare e che è giusto accettare la fine naturale della vita.

Una definizione a parte va invece riservata al ‘suicidio assistito’: l’atto mediante il quale un malato si procura la morte grazie all’assistenza di qualcuno che ne condivide la decisione e prepara i farmaci necessari al suicidio (si tratta in genere di barbiturici uniti a un veleno), fornendo tutto l’aiuto occorrente riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso viene a mancare l’atto diretto di chi somministra i farmaci al malato il quale, per esempio, può avviare l’assunzione del cocktail letale semplicemente premendo il pulsante di una pompa di infusione. Il dibattito pubblico e politico sulla questione dell’eutanasia è sempre più all’ordine del giorno nei paesi tecnologicamente più avanzati, in quanto la tematica è strettamente connessa con il progresso della scienza e le sue applicazioni, a volte sproporzionate e inappropriate, in ambito medico. Fino a pochi decenni fa, pazienti gravemente ammalati oppure traumatizzati in seguito a un incidente morivano naturalmente. Oggi, grazie ai progressi soprattutto nel campo della rianimazione, è possibile mantenere attive artificialmente le più importanti funzioni del corpo umano ricorrendo alla respirazione artificiale, alla dialisi, alla nutrizione per via enterale. Anche il cuore che si ferma può essere fatto ripartire. Tutta questa tecnologia ha permesso di salvare molte vite che in passato si sarebbero perse ma, allo stesso tempo, ha contribuito a trasformare il concetto di malattia e, in parte, anche quello di morte. Basti pensare a tutti i malati in stato vegetativo permanente che vengono mantenuti artificialmente in vita per mesi, o addirittura per anni, come si è visto nella drammatica ed emblematica situazione di Eluana Englaro, senza che esista la minima speranza di un miglioramento delle loro condizioni. Il progresso scientifico è certamente positivo e auspicabile e, tuttavia, ragionando a proposito della fine della vita, è innegabile che proprio questo progresso abbia contribuito a formulare nuovi interrogativi, come per esempio la legalizzazione dell’eutanasia, un problema che l’uomo si è posto da secoli ma che è rimasto marginale fino ai nostri giorni, confinato in una ristretta cerchia di specialisti e di scarso interesse per l’opinione pubblica in generale. In Italia uno dei primi personaggi che ha parlato al grande pubblico di eutanasia fu Indro Montanelli che, più di una volta, nei suoi editoriali e nei suoi articoli, espresse la sua opinione favorevole nei confronti di questa pratica. La sua tesi era semplice e diretta: «Una morte dignitosa – dichiarò nel dicembre del 2000 durante

un convegno sull’argomento, solo sette mesi prima della sua scomparsa – è un diritto di libertà. Io ho detto varie volte che sono assolutamente per il diritto dell’uomo di scegliere il come e il quando della propria morte e non vedo come si possa contestare all’uomo questo diritto. Per quanto mi riguarda personalmente io sono vicino al grande passo e io farò questo». Quella di Montanelli non voleva essere l’affermazione del diritto al suicidio, perché spiegava: «il suicidio è una cosa che non ha né diritti né doveri. Di fronte a esso ci sono soltanto due sentimenti: di pietà, di enorme pietà, per lo stato di disperazione che ha condotto la vittima al suicidio. E di rispetto. Di altrettanto rispetto per il coraggio che ha chi resta vittima di questa cosa». Poi giungeva a questa conclusione: «E che non mi si portino i soliti argomenti astratti, tipo la sacralità della vita: nessuno contesta il diritto di ognuno a disporre della propria vita, non vedo perché gli si debba contestare il diritto a scegliere la propria morte». Un altro personaggio illustre che pubblicamente ha espresso più volte il suo assenso e auspica una legge in materia è l’oncologo di fama mondiale Umberto Veronesi, che a questo tema ha dedicato, oltre a numerosi articoli, anche un libro dal titolo Il diritto di morire, in cui illustra chiaramente le sue posizioni in merito alle questioni legate alla fine della vita. Nell’introduzione (p. 7) riassume il suo pensiero e scrive: «Io penso, tout-court, che il diritto di morire faccia parte del corpus fondamentale dei diritti individuali: diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, diritto alle cure mediche, diritto a una giustizia uguale per tutti, diritto all’istruzione, diritto al lavoro, diritto alla procreazione responsabile, diritto all’esercizio di voto, diritto di scegliere il proprio domicilio». Laico convinto e autorevole nella sua analisi dal punto di vista del medico, Veronesi insiste sul principio della libertà dell’individuo come base per legittimare il diritto di morire come si desidera: «Rivendico il diritto della persona a disporre della propria vita, se la giudica intollerabile. Il principio assoluto di non disponibilità della propria vita da parte degli essere umani è, secondo me, un principio crudele che sequestra la libertà individuale, e che non per nulla ha cominciato ad essere smantellato in epoca moderna, quando si è affacciata per la prima volta l’idea dei diritti dell’individuo. Se non c’è possibilità di disporre del diritto di morire, l’autodeterminazione è monca» (p. 80). Nel mondo politico italiano il partito che più di tutti gli altri, e da sempre, perora la causa della legittimazione legale dell’eutanasia è il Partito Radicale. Per quel che concerne l’opinione pubblica, l’istituto Eurispes fin dai primi anni Ottanta segnalava il cambiamento di tendenza sulla questione. Nel già citato Rapporto Italia 2007 addirittura emerge un consenso generalizzato verso l’eutanasia, con il 68% degli intervistati favorevole a questa pratica. I contrari rappresentano il 23,5% del totale, l’8,5% non ha saputo o non ha voluto fornire una risposta in proposito. Il prevalere di un atteggiamento aperto nei confronti dell’eutanasia deve far riflettere, soprattutto se si considera che rispetto all’anno precedente la schiera dei favorevoli è aumentata in maniera cospicua, facendo registrare un incremento di ben 26 punti percentuali. Confrontando poi questi dati con quelli del sondaggio realizzato nel 1987 la situazione appare del tutto ribaltata: in quell’anno, infatti, complessivamente il 40,8% si disse contrario all’eutanasia (in particolare, il 29,6% era contrario e l’11,2% la giudicava immorale), mentre soltanto il 24,5% era favorevole; il 18,3% si dichiarava favorevole solo in casi disperati (ovvero nel caso di una morte imminente e in condizioni molto dolorose). Personalmente, tendo a spiegare questo dato in parte con l’ondata emotiva che ha colpito il paese in seguito al caso Welby e in parte con la confusione dei termini utilizzati da commentatori inesperti, che possono aver indotto ad assimilare il concetto di interruzione delle terapie con quello di eutanasia. La questione in Italia per ora rimane comunque un tema discusso a livello puramente intellettuale dato che il Parlamento non ha avviato alcun dibattito né discussione di disegni di legge per legittimare l’eutanasia. Alcuni progetti sono stati presentati, ma non sono stati finora inseriti nel calendario dei lavori delle commissioni competenti né alla Camera né al Senato.

Un’esperienza personale

Le linee di demarcazione fra ciò che può essere ritenuto eticamente condivisibile e cosa invece è oggetto di polemica sono dunque delicate e sottili. Si tratta di argomenti con cui ognuno prima o poi si troverà inevitabilmente a confrontarsi, di temi difficili da affrontare ma che fanno parte della nostra vita. Lo sanno bene i malati e i medici che ogni giorno fanno fronte a situazioni spesso molto complesse, in assenza di un chiaro quadro legislativo di riferimento e dunque, davvero, improvvisando decisioni basate più che altro sulla sensibilità e sul buon senso. Personalmente, avendo lavorato per molti anni in ospedale con malati affetti da patologie gravissime, ho sempre eseguito tutte le terapie che potessero restituire salute, migliorare la qualità di vita o anche semplicemente assistere e liberare, per quanto possibile, dalle sofferenze, e il più delle volte tutto questo è stato motivo di impagabile gratificazione. Tuttavia, mi sono anche trovato a interrogarmi con serietà se si possa o no ammettere che una persona induca volontariamente la morte di un’altra, gravemente ammalata e in preda a dolori fisici devastanti, al fine di alleviarne la sofferenza di fronte a una situazione irreversibile in cui la morte è inevitabile. Ritengo sia assolutamente necessario fornire tutto il supporto per la riduzione del dolore grazie alle cure palliative con la somministrazione di farmaci come la morfina, che alleviano il dolore e accompagnano il malato con maggiore tranquillità nel passaggio dalla vita alla morte. È quanto viene fatto, in queste drammatiche circostanze, in tutte le rianimazioni negli Stati Uniti. Io stesso, pur soffrendone perché un medico vorrebbe sempre poter salvare la vita dei suoi pazienti, lavorando negli Stati Uniti ho, alcune volte, preso insieme alla famiglia di un ammalato terminale la decisione di sospendere tutte le terapie. È un momento doloroso per la famiglia e anche per il medico, ma si tratta di una onesta accettazione che non si può fare più nulla se non evitare di prolungare sofferenze inutili e lesive della dignità del paziente. In Italia, senza una legge che regolamenta la materia, se eseguissi lo stesso tipo di procedimento potrei essere arrestato e condannato per omicidio, mentre si tratta solo di non accanirsi con terapie senza senso. Non sono invece d’accordo nel somministrare una sostanza velenosa per provocare l’arresto del cuore del malato e quindi indurre la morte. Tuttavia, pur non condividendo il gesto, non sono certo che si possa condannare moralmente la persona che lo compie. Penso per esempio alla situazione raccontata nel film Million dollar baby, in cui viene descritto il dramma di una donna ridotta in stato semivegetativo dopo un grave incidente sportivo, che chiede a un uomo, il suo principale punto di riferimento nella vita, di aiutarla a porre fine alla sua sofferenza fisica e psicologica. L’uomo inizialmente rifiuta, poi accetta perché ritiene che quello sia un atto d’amore estremo. Pur non riuscendo a giustificare l’idea della soppressione di una vita, mi chiedo, in situazioni simili, si può condannare dal punto di vista morale il gesto di una persona che agisce su richiesta di un ammalato e per puro sentimento d’amore? E, d’altra parte, è lecito ammettere il principio di non condannare una persona che uccide? Il dibattito resta necessariamente aperto, le risposte non sono univoche e riflettono lo spirito del tempo, la cultura di un popolo, l’evoluzione del pensiero dell’uomo in un determinato contesto storico, alla luce del progresso scientifico.

repertorio

Il testamento biologico nel mondo

In Europa hanno dato il riconoscimento legale a differenti forme di testamento biologico il Belgio, la Danimarca, la Francia, i Paesi Bassi e la Spagna. Nel resto del mondo gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. In Francia il dibattito è iniziato nel 2003. Nella legge attuale del 2005, composta da 15 articoli, viene sancito il principio del rifiuto all’accanimento terapeutico e si autorizza il medico a limitare o interrompere i trattamenti quando lo ritiene necessario, con una procedura collegiale, se il paziente non ha più possibilità di recupero e lo si costringe alla vita attraverso mezzi artificiali. Il medico deve tenere conto delle dichiarazioni anticipate, del fiduciario e della famiglia. Le dichiarazioni anticipate, che ogni cittadino maggiorenne può sottoscrivere, possono essere modificate o revocate in qualsiasi momento. Nei Paesi Bassi il testamento biologico è legge dello Stato dal 2001 e le dichiarazioni di volontà possono essere scritte a partire dai 16 anni di età. Tra i 12 e i 16 si ammette la richiesta a condizione che i genitori siano d’accordo.

In Spagna la normativa approvata nel 2003 concerne il diritto all’informazione in ambito medico, al consenso informato e alle dichiarazioni anticipate del paziente. Il soggetto può designare un rappresentante che, in caso di necessità, si assume la responsabilità di essere l’interlocutore dei medici per portare a compimento le dichiarazioni anticipate. In conformità con la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina, firmata a Oviedo nel 1997, le volontà anticipate del paziente (comprendenti sia testamento biologico, sia donazioni degli organi e sepoltura) vanno rispettate.

In Germania il testamento biologico non è stato ancora oggetto di una normativa specifica, sebbene trovi impiego nella pratica e conferma nella giurisprudenza. Il Patientenverfügung è l’atto di disposizione del paziente e costituisce una specifica forma di dichiarazione di volontà. Nel Regno Unito il punto di partenza di questo orientamento è stato il caso Bland, giudicato nel 1993 dalla Corte Suprema. Tony Bland, un ragazzo di 15 anni, è stato una delle vittime della tragedia calcistica avvenuta il 15 aprile 1989 allo Hillsborough Stadium di Sheffield, che provocò la morte sul fatto di 96 persone; altre, come Tony Bland, morirono successivamente. Nel 1993 le macchine lo tenevano ancora artificialmente in vita e i genitori si appellarono ai giudici. Il quesito riguardava la legittimità della sospensione dell’alimentazione artificiale e di farmaci antibiotici nel caso di un paziente in stato vegetativo permanente. La Corte decise che, quando un paziente non è in grado di accettare o rifiutare il trattamento e non abbia espresso in precedenza una volontà, i medici sono tenuti a decidere dopo averne discusso con i familiari. La decisione della Corte per il caso Bland ha, quindi, indirettamente riconosciuto la legittimità delle dichiarazioni anticipate di volontà del paziente. Nel caso in cui un paziente non abbia lasciato delle dichiarazioni anticipate i medici – come affermato anche nella sentenza – non sono vincolati dagli orientamenti dei familiari ma discutono con loro prima di prendere una eventuale decisione. Un caso che suscitò un notevole dibattito nel Regno Unito è stato anche quello relativo alla cosiddetta Miss B., che, perfettamente cosciente, ottenne dall’Alta Corte di Londra, nel 2002, il riconoscimento del diritto a rifiutare le terapie e a far staccare il respiratore meccanico che la teneva in vita. Negli Stati Uniti il dibattito sul testamento biologico è iniziato nel 1976 con il caso di Karen Quinlan, una ragazza ridotta in stato vegetativo permanente in seguito a un incidente automobilistico e mantenuta in condizioni vitali solo grazie a cure mediche straordinarie che includevano anche l’uso di un respiratore automatico. I familiari, consapevoli che la ragazza non avrebbe mai più potuto migliorare, chiesero di interrompere la ventilazione artificiale. I medici, temendo di essere perseguiti penalmente, non accettarono la richiesta e così il caso arrivò davanti alla Corte Suprema del New Jersey che stabilì che il rifiuto dei trattamenti terapeutici rientrava nel più ampio diritto alla privacy, escludendo l’intromissione dello Stato nelle decisioni del singolo e che, essendo Karen Quinlan non più consapevole, si doveva consentire ai genitori di esercitare tale diritto, specificando che se non c’era una ragionevole possibilità di far tornare la paziente alla integrità intellettiva potevano essere rimossi tutti gli apparecchi e le terapie di sostegno. Nel 1983 a sollevare nuovamente il dibattito fu il caso di un’altra giovane donna, Nancy Cruzan, anch’essa ridotta in stato vegetativo a causa di un trauma cranico determinato da un incidente, autonoma nel respiro ma nutrita con un sondino gastrico. Il marito e i genitori iniziarono una lunga battaglia legale per permettere che fosse lasciata morire, ovvero venissero interrotte tutte le terapie farmacologiche e le cure mediche che permettevano al corpo della ragazza di mantenere alcune attività vitali. La loro sfida consisteva nel dimostrare al tribunale in maniera chiara e convincente quali sarebbero stati i desideri della ragazza. Dopo sette anni di battaglie e il ricorso alla Corte Suprema Federale, nel dicembre del 1990 Nancy Cruzan fu liberata dal tubo che l’alimentava e l’idratava e da tutte le altre terapie di sostegno al suo corpo ridotto allo stato vegetativo, e così si spense. Un anno dopo il Congresso introdusse il Patient self determination act, con il quale venne riconosciuto il diritto di ogni individuo di decidere sui trattamenti terapeutici che lo riguardano, incluso il diritto a rifiutare trattamenti medico-chirurgici, formulando a tal fine le direttive anticipate di vita o living will, con il quale il soggetto può anche nominare un’altra persona come proprio rappresentante, incaricandola di assumere le decisioni riguardo l’assistenza e le cure. Il living will si struttura sostanzialmente in due parti: una relativa ai trattamenti sanitari accettati o rifiutati, e l’altra alla nomina del fiduciario, che avrà la responsabilità (power of attorney) di fare rispettare quanto scritto nel testamento biologico e di interpretare le volontà del malato, anche in caso di conflitto tra il medico e la famiglia.

Oggi il modulo per il testamento biologico è un documento che ogni cittadino americano trova ben in vista nella cartella clinica, per esempio, al momento di un ricovero in ospedale e che, una volta compilato, custodisce a casa propria o in banca. Nella popolazione è ben presente la consapevolezza della sua utilità, come ha messo drammaticamente in evidenza il caso di Terri Schindler Schiavo, entrata in coma nel 1990, a causa di un attacco cardiaco: il mancato afflusso di sangue e di ossigeno al cervello per 14 minuti aveva causato la morte di numerose cellule neurali, danneggiando irrimediabilmente il suo encefalo e conducendo la donna a uno stato vegetativo permanente. Il marito Michael Schiavo venne indicato suo tutore legale in applicazione delle leggi della Florida, che conferiscono al coniuge la facoltà di decidere al di sopra degli altri membri della famiglia, nel caso in cui il paziente diventi irreversibilmente inabile e non abbia lasciato disposizioni. Dopo tre anni di terapie tradizionali e sperimentali, Michael Schiavo accettò la diagnosi neurologica di stato vegetativo permanente e, richiamandosi ad affermazioni da lei fatte in passato a questo proposito, dichiarò che sua moglie non avrebbe accettato di essere tenuta in vita indefinitamente nelle sue condizioni. La famiglia di lei, invece, non accettò la diagnosi, convinta che le condizioni potessero migliorare con ulteriori trattamenti riabilitativi. Nel 2001 la Corte della Florida acconsentì alla sospensione delle terapie (compresa la rimozione della sonda gastrica utilizzata per la nutrizione artificiale), richiesta dal marito, ma dopo 48 ore tutte le terapie vennero ripristinate in seguito alla decisione di un giudice federale. Seguì una lunghissima diatriba giudiziaria che coinvolse anche l’opinione pubblica, con manifestazioni di appoggio ai genitori e di disapprovazione nei confronti di Michael Schiavo. Alla sospensione della nutrizione artificiale si arrivò nel 2005, dopo che Terri era rimasta in stato vegetativo permanente per 15 anni. Questa agonia si sarebbe potuta evitare se Terri avesse lasciato un testamento biologico e se avesse nominato qualcuno per interpretare il suo volere.

repertorio

L’eutanasia nel mondo

Gli ordinamenti civili

I Paesi Bassi sono stati il primo paese al mondo ad aver riconosciuto l’eutanasia come atto legale. La legge è entrata in vigore il 1° aprile 2001 ma già nel 1994 l’eutanasia era stata depenalizzata: rimaneva un reato sulla carta, tuttavia era possibile non procedere penalmente nei confronti del medico che dimostrava di aver agito su richiesta del paziente. Il testo della legge in vigore prevede che l’eutanasia possa essere concessa a fronte di una richiesta «spontanea, ben ponderata e permanente» da parte di un paziente e solo nel caso di un un futuro «senza scampo e intollerabile». Il compito di certificare la situazione e condurla a una conclusione «appropriata» viene assegnato a due medici che hanno quindi la grande responsabilità di valutare ogni singola richiesta e decidere in merito. Riguardo agli altri paesi europei, nel maggio 2002, una legge che disciplina l’eutanasia, simile a quella olandese, è entrata in vigore anche in Belgio. In Svezia non viene perseguito penalmente chi pratica l’eutanasia, pur non esistendo una legge che la autorizza. Nel Regno Unito, in Francia, in Spagna, in Portogallo, l’eutanasia è considerata un reato ma sono attualmente all’esame dei diversi parlamenti alcuni progetti di legge che mirano a regolamentare la materia. In Svizzera l’eutanasia è illegale, non così il suicidio assistito, che è ammesso e consentito dalla legge. Le strutture pubbliche svizzere prevedono limiti specifici per intervenire: il ricovero per uno stadio avanzato di malattia terminale e il divieto di recarsi in ospedale esclusivamente per potersi suicidare. Questi limiti sono assenti, invece, nelle strutture private. Negli Stati Uniti non esiste una legge che consenta l’eutanasia, che è considerata un reato. Solo l’Oregon ne ha autorizzato, nei fatti, la pratica, pur non legiferando formalmente a suo favore. In questo Stato, infatti, un malato, considerato terminale, può richiedere farmaci letali. La regolamentazione specifica è tuttavia bloccata dall’opposizione di un tribunale federale.

Un altro paese che autorizza gli ospedali a praticare l’eutanasia ai malati terminali è la Cina, che ha approvato una legge nel 1998.

Le religioni

Se, nella visione laica, il principio guida è l’autodeterminazione dell’uomo nei confronti della propria vita e quindi anche della propria morte, l’impostazione cambia quando si abbraccia un credo religioso e si riconosce che la vita non appartiene completamente all’uomo ma gli è stata data da un essere superiore, ed è dunque un bene non disponibile. La Chiesa cattolica condanna fermamente l’eutanasia in quanto soppressione della vita umana. L’enciclica Evangelium vitae di papa Giovanni Paolo II (25 marzo 1995) afferma il valore e l’inviolabilità della vita umana: «Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante ‘perversione’ di essa: la vera ‘compassione’, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza». La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato a essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire: «Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone». La posizione ufficiale della Chiesa cattolica era stata chiarita anche in precedenza, nel 1980, nella dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger: «Niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per sé stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di un’offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità». Per quanto riguarda le Chiese riformate, poiché le loro posizioni etiche sono frutto più che altro di una sintesi tra le sensibilità delle varie comunità, il dibattito sull’eutanasia è più ampio. Nel caso dei valdesi, per esempio, il Sinodo si è pronunciato favorevolmente alla pratica dell’eutanasia per combattere l’inutile sofferenza, e anche singoli pastori non mostrano, di principio, pregiudiziali all’adozione di misure a tutela della dignità dei malati. Nel marzo 2006 il professor Sergio Rostagno, coordinatore della Commissione bioetica della Tavola Valdese, ha dichiarato che «l’eutanasia non è un attentato alla vita umana, ma una norma che vuole indicare come si può morire con dignità. Ci batteremo perché venga introdotta in Italia». Secondo il buddismo, al centro del cui insegnamento è il riconoscimento dell’ineluttabilità della morte, non sussiste un obbligo morale a preservare la vita a tutti i costi o a continuarne artificialmente una ormai spenta. Tentare di prolungare la vita oltre il suo corso naturale ricorrendo alla tecnologia significa negare la realtà della vita umana. È perciò giustificabile il rifiuto di trattamenti medici eccessivi e sproporzionati ai possibili risultati, che non possono far altro che protrarre l’agonia e posporre senza senso l’inevitabile fine naturale della vita. La distruzione di una vita altrui è però sempre considerata intrinsecamente immorale. Rispetto all’eutanasia, la condanna morale buddista sta nel fatto che essa enfatizza gli aspetti positivi della morte e quelli negativi della vita. Viene, insomma, ritenuto immorale affermare che la morte sia migliore della vita. Il Lama Thamthog Rinpoche, guida spirituale del Centro Rabten Ghe Pel Ling di Milano e riconosciuto quale XIII Thamthog, durante il Convegno internazionale Testamento biologico: le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari, tenuto al Senato il 30 marzo 2007, esponendo la posizione del buddismo sulle tematiche di fine vita ha detto: «Noi, praticanti buddisti, riteniamo in particolare che se un paziente, praticante buddista, ha una malattia che è assolutamente certo di non poter curare con alcun mezzo, per lui è molto importante lasciar correre liberamente la sua vita, senza essere disturbato da trattamenti meccanici o artificiali. La ragione per cui un paziente, praticante buddista, non deve essere disturbato è perché dovrebbe avere l’opportunità di meditare su pensieri positivi durante il processo della morte, in quanto i pensieri positivi durante la morte causano una futura rinascita positiva e un ulteriore sviluppo spirituale». Per il buddismo,quindi il rispetto della fine naturale della vita ha un ruolo di primaria importanza nel consentire al malato di compiere questo passaggio con serenità e tranquillità, senza costrizioni dovute all’ausilio di macchinari e tecnologie straordinarie e futili.

Nell’ebraismo si riconosce unanimemente che la Bibbia prescrive di non uccidere e impone a chiunque il sacro rispetto della vita umana. Da questo scaturisce la posizione secondo cui nessuno è padrone né può liberamente decidere non solo della vita altrui, ma nemmeno della propria. E ciò vale anche nel caso di un malato terminale o gravemente sofferente. Per questo motivo è moralmente proibito ogni atto che possa accelerare la morte di un agonizzante, anche quando si tratta di un processo irreversibile e imminente, anche se per i medici non c’è più alcuna speranza di vita e anche se è il malato stesso a richiederlo. Il medico non deve agire direttamente in questo senso, né deve consigliare al malato i modi per togliersi la vita da solo. Tuttavia nel momento in cui si afferma il divieto di intervenire per accelerare la morte di una persona, non si autorizza di ritardarla ricorrendo a sistemi artificiali. Ogni situazione va valutata in maniera attenta e individuale – ricordano i pensatori ebraici – e la generalizzazione non aiuta a fare chiarezza di fronte a temi così complessi come la fine della vita. La fede nel giudizio immutabile di Dio si ritrova anche nella legge musulmana, che vieta l’eutanasia. Il Corano, infatti, benché riconosca la legittimità della pena di morte, non ammette altre eccezioni: «non prendere alcuna vita che Dio ha reso sacra, tranne che per giustizia». È importante precisare che, dato che la fine della vita è sottoposta a decreto divino, la legge rifiuta di riconoscere alcun diritto dell’individuo in materia. Riconosce però la possibilità di pervenire a una decisione collettiva da parte di coloro cui spetta l’assistenza, compresi medici curanti e familiari. Il Codice islamico di etica medica infatti stabilisce che «nella difesa della vita il medico dovrà capire quali sono i suoi limiti e non trasgredirli. Se è scientificamente accertato che le funzioni vitali non possono essere restaurate, in quel caso è inutile mantenere diligentemente il paziente in uno stato vegetativo grazie all’uso di macchinari o utilizzare tecniche come l’ibernazione o altri metodi artificiali. Il medico mira a mantenere il processo della vita, non quello della morte».

bibliografia

I.R. Marino, Credere e curare, Torino, Einaudi, 2005.

U. Veronesi, Il diritto di morire, La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Milano, Mondadori, 2005.

Cfr. anche il colloquio tra il cardinale C.M. Martini e I.R. Marino, in Dialogo sulla vita, «l’Espresso», 27 aprile 2006.

Il testo è stato realizzato in collaborazione con Susanna Fancelli e Alessadrandra Cattoi

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